Omaggio lillipuziano:
Ratzinger e la differenza delle donne


di Antonella Besussi




Proprio chi si oppone radicalmente a trattarle in maniera paritaria afferma in continuazione che le donne sono migliori degli uomini al punto che il detto è diventato una noiosa frase fatta, intesa a dare un'apparenza complimentosa a un insulto, e assomiglia a quelle celebrazioni di clemenza regale che, secondo Gulliver, il re di Lilliput faceva sempre procedere ai suoi decreti più sanguinari. J. S. Mill, 1869

La Lettera sulla collaborazione dell'uomo e della donna nella Chiesa e nel mondo è stata pubblicata nell'agosto 2004 dalla Congregazione per la dottrina della fede, su indicazione del cardinale Joseph Ratzinger. Nonostante il titolo, l'attenzione è dedicata prevalentemente alla donna, intesa come differenza del femminile, e lo scopo è richiamare tale differenza alla vocazione che le è propria. Non quella agonistica, ma quella oblativa; non quella individualistica, ma quella dell'esistere per l'altro. L'accoglienza che la Lettera ha ricevuto è stata intensa e controversa, soprattutto da parte del pensiero delle donne, chiamato in causa nelle sue diverse articolazioni interne, e diviso sulla valutazione del suo significato.

Viviamo in tempi bui, direbbe qualcuno. E nei tempi bui i criteri di orientamento ordinari e le valutazioni automatiche non bastano più, specie se riguardano la durevolezza di un modo di vivere nel quale siamo immersi. Così cominciamo a guardare quello che è sempre stato sotto i nostri occhi e vorremmo capire se e perché ci piace quel che agli altri non piace, che cosa davvero vorremmo difendere, a cosa non siamo disposti a rinunciare. Quasi inavvertitamente il discorso pubblico e privato diventa ospitale verso la metafisica. Questo scivolamento ci interessa e ci disturba insieme. Ci interessa perché permette di ripensare a quelli che siamo abituati a trattáre come arredi naturali del nostro paesaggio; ci disturba perché avvertiamo che può favorire ritorni a casa, ai rifugi confortevoli della tradizione e delle radici, e dunque premiare le prospettive più costituzionalmente attrezzate per rispondere alla domanda (che non sono necessariamente le più adatte a difendere quel che va difeso).
In prima battuta non riesco a non leggere la Lettera della Congregazione per la dottrina della fede, e i commenti che la accompagnano, se non sullo sfondo di questa premessa che provo a riformulare più chiaramente. La sfida dell'islamismo radicale si è caratterizzata da subito per essere una sfida metafisica, presentata come fosse rivolta a un modo di vivere nella sua interezza da un altro modo di vivere nella sua interezza. Non penso al tema delle "civiltà" alternative, ma piuttosto al fatto che la sfida sta rilegittimando una sospensione dell'autonomia della politica, e la cancellazione di un confine faticosamente tracciato tra ciò che può essere condivisibile e ciò che non è condiviso. Da tempo disabituato a trattare con il bene nello spazio politico, il common sense delle società che abitiamo ha faticato a sintonizzarsi, ma gradualmente si sposta sempre più a tematizzare questioni ultime, questioni di significato, questioni di vita buona per individui e collettività. Non mi sembra casuale che, comunque la si pensi sul modo di affrontarlo, lo scontro in atto abbia tra le sue poste in gioco più importanti il disciplinamento delle donne, la definizione dei loro posto nel mondo. Se la metafisica è il pensiero di un ordine che sia tessuto senza cuciture, la differenza sessuale è un perfetto ago per cucirlo. La percezione che si parlasse non alle donne, ma delle donne; e che lo si facesse a destinatari impliciti mi ha impedito, almeno a una prima lettura, di separare il messaggio dal mittente, come sembra aver fatto Luisa Muraro. Non è che qui scrive un'istituzione, come dice Rossana Rossanda. Piuttosto è una questione di postura: Ratzinger fa quel che ci si può aspettare, e lo fa bene, ma in questa rivendicazione di autorevolezza sul destino delle donne non si può non cogliere una rumorosa assonanza con quelle di patriarchi rivali. La Lettera si annuncia così come un aggiornamento metafisico necessitato da nuove circostanze, che rendono più complicato e più urgente insieme il compito di fare ordine, anche qui e ancora una volta, nel disordine delle donne. Questo non esclude, tuttavia, che la Lettera vada letta per quel che dice dentro i suoi confini, per la varietà e l'ambivalenza delle suggestioni che sollecita. Ne vorrei allora commentare prima un'idea politica e poi un'idea metafisica.

Non mi pare che il documento contenga novità paradigmatiche sull'idea di umanità sessuata (la Chiesa, a differenza della filosofia, ha sempre visto che la differenza sessuale segna l'umano). Piuttosto, esibendo una certa conoscenza del pensiero femminista nelle sue complicate articolazioni interne, si aggiorna un antico discorso sulla vocazione delle donne come capacità di esistere per l'altro o meglio ancora "fuori di sé." In un certo senso è come se Ratzinger volesse schierarsi dentro le divisioni che il femminismo attraversano, separando, intanto per cominciare, chi si fida della differenza sessuale come tramite di una libera soggettività delle donne da chi invece della differenza sessuale a vario titolo diffida preferendo pensare a soggetti mobili, ai quali si deve evitare di prescrivere un'attitudine vocazionale. Senza dubbio la Lettera riconosce e vuole alimentare divergenze interne al femminismo quando vede in quello che si potrebbe chiamare il "progetto androgino" l'avversario principale di un ritorno delle donne alla vocazione che le qualifica. Ma invece di insistere su tali divergenze mi sembra più interessante mostrare che sono irrilevanti agli scopi che la Lettera si propone. E' vero, infatti, che i femminismi agonistici citati come principali responsabili della "confusione antropologica" in grado di neutralizzare le possibilità relazionali della differenza respingono con diverse ragioni l'idea che la biologia sia un destino da rispettare e un segno autorevole da registrare (con eccessi inventivi tutti da tematizzare). Ma è altrettanto vero che la radicalità della differenza, una volta liberata, non può essere piegata al mantenimento di un ordine che le richieda di fornire certe prestazioni per il suo mantenimento. Tuttavia, la Lettera chiede precisamente questo quando chiede che la differenza sia fatta agire dalle donne a scopi di pacifìcazione tra le donne e gli uomini, uomini dei quali per altro nulla si dice, e dai quali nulla ci si aspetta (evidentemente, la differenza degli uomini dalle donne non è come la differenza delle donne dagli uomini). Lo scopo, insomma, è quello di contenere la differenza in una vocazione. Il che mi fa pensare, per contrasto, al fatto che, come ricordato di recente da Giacoma Limentani, nel passaggio della Genesi dove si parla dei motivi della creazione di Eva ("gli fece un aiuto x rispetto a lui") il termine ebraico per x indica sia l'idea di qualcuno che si incastra con te sia l'idea di qualcuno che è contro di te. Se la differenza non può essere fatta coincidere con una specifica vocazione nella relazione con l'uomo, e con l'altro in genere, non può esserlo neanche per quel che riguarda la relazione delle donne con se stesse: e questo va ricordato anche a chi, dentro il femminismo, si fa tentare da operazioni di contenimento che neghino la multiformità dei progetti vocazionali contemplabili dalle donne (oblativi e non, per intenderci), insieme alla loro possibilità di ripudiare l'idea stessa di un progetto vocazionale. Ipotizzo che chi legge qualcosa di nuovo nelle significazioni unilaterali di un dato biologico suggerite da Ratzinger sia in sintonia con il progetto di una teologia della differenza, pur dissentendo dalle specifiche conclusioni cui il messaggio della Congregazione conduce. La regalità delle donne, da questo punto di vista, appare un privilegio incommensurabile rispetto alla loro prosaica simmetria.

Il passaggio metafisico cui mi riferivo è invece quello che fa del dominio maschile non una scelta divina, ma un prodotto della trasgressione umana originale. La contestazione della gerarchia tra umano e divino impedisce la possibile unità dei due: il punto, tuttavia, non è che il peccato originale introduce e legittima una gerarchia di potere, anche se non è mi è chiaro come il disconoscimento della verticalità di dio si leghi al riconoscimento della verticalità del maschio. Il punto che la Lettera sottolinea è invece che la rottura del rapporto fiduciario con il divino altera l'equilibrio perfetto di una situazione originaria, facendo della relazione tra uomo e donna una relazione ambigua, sana e malata insieme. Si aprono qui due possibili percorsi di riflessione, uno relativo al dominio maschile e l'altro al possibile ripristino di un equilibrio perduto. Se si può uscire dal dominio maschile solo ricostituendo l'unità dei due, la differenza femminile esce dalla sottomissione solo per entrare in un incastro virtuoso con l'uomo, in modo da riproporre la coppia biblica come riferimento esemplare dei legami possibili tra esseri umani. Ma è pensabile che la separazione aperta dal dominio (o dal peccato, per chi preferisce dir così) si chiuda con una ri-conversione delle donne, cioè con un ritorno a dove saremmo sempre dovute restare? E poi, non ha la ferita di cui si parla diviso tra femminile e maschile anche ogni singola esistenza? Non è più plausibile pensare che a partire da sé ciascuno/a deciderà se e come medicarla?


Da: Notizie di POLITEIA, XX, 76, 2004, ISSN 1128-2401 pp. 3-6