La cosa rossa è una cosa di uomini. Almeno per
ora
Intervista a Maria Luisa Boccia
di
Daniela
Preziosi

Thea Vallè
«Nel percorso della costruzione di un nuovo soggetto unitario della
sinistra ci staremo. Ma non per forza. Vogliamo vedere i segni di una
sinistra di donne e uomini. Oppure ci sarà una rottura».
Maria Luisa Boccia, scrittrice, femminista storica e anche senatrice di
Rifondazione comunista, spiega così l'oggetto di un seminario che ha
promosso, ieri pomeriggio a Roma, insieme ad altre donne che erano in
piazza il 20 ottobre. Titolo: «Fare sinistra: donne e uomini per il
cambiamento».
Un dibattito che mette i piedi nel piatto della costituenda cosa rossa.
Una discussione tirata, molti interventi.
Alcune brillanti assenze, quelle dei massimi dirigenti della sinistra.
Assenze giustificate, per carità. Ma non si può girare intorno al
problema: la cosa rossa è una cosa di soli uomini. Al momento.
La
cosiddetta cosa rossa è una cosa di soli uomini?
Al momento la costruzione del nuovo soggetto unitario a sinistra è
affidata ai gruppi dirigenti, tutti maschili. Oppure anche al percorso dal
basso, che ha avuto nella manifestazione del 20 ottobre un momento di
rappresentazione corale comune. Ma le differenze erano visibili, evidenti.
Questa sinistra di donne e uomini per la trasformazione è da fare, in
tutto, nelle pratiche e nei contenuti. Per ora non ci siamo. Non possiamo
partire da quella che c'è.
Quali segni chiedete?
Non certo i numeri. I segni che chiediamo sono l'attenzione e l'apertura a
letture sessuate della realtà, a pratiche di relazione fra donne e uomini.
Chiediamo insomma di costruire questo soggetto in un altro modo, di fare
un lavoro comune sui contenuti, confrontare punti di vista differenti. Non
nego che abbiamo anche noi il problema di trovare le forme, di inventarci
i modi.
Abbiamo alcune proposte. Prenderemo parola in modo forte. Vedremo se ci
sarà una risposta oppure no.
Alcune femministe hanno fatto un atto di fiducia nei confronti di questa
sinistra e del governo Prodi. Qual è il bilancio?
Piuttosto si trattava di assumersi una responsabilità rispetto alla rotta
di destra che prendeva il paese. E anche della sfida di vedere se in
questa coalizione si poteva giocare una presenza femminile e femminista.
Il bilancio non è positivo.
La condizione di necessità è stata un vincolo troppo stretto, non ha dato
quella libertà indispensabile a cambiare l'agenda politica, a mettere al
centro il punto di vista delle donne. Il tema non era e non è solo
rispettare il programma della coalizione. Nel programma alcune scelte
decisive per le donne non ci sono.
Oggi la questione va al di là. Fare sinistra è una sfida di prospettiva.
Questa società, questo mondo non ci piace.
La prima domanda è: vogliamo scommettere su una politica che costruisce
una soggettività plurale ma unitaria e condivisa, uno stare insieme
collettivo di differenze?
E per farlo, abbiamo bisogno di cambiare anche la politica, di metterne in
gioco una diversa da quella prevalente? Non solo nelle istituzioni ma
anche tra i cittadini, quella che fa senso comune: la politica della
delega, della personalizzazione, del leaderismo. Oggi ci si chiede se un
leader corrisponda alle aspettative, ma non si mette mai in dubbio che un
leader sia decisivo.
E ancora: in questa sinistra è ancora praticabile la forma del soggetto
collettivo unitario, il partito come sintesi collettiva?
La manifestazione del 20 ottobre è stata emblematica da questo punto di
vista, le differenze erano vistose. E, ancora: un corteo è ancora un modo
in cui ci si confonde tutte insieme, si fa numero, si fa massa.
Ma, è un'altra domanda, basta fare massa? Dobbiamo reinventare anche le
pratiche della rappresentanza, i linguaggi.
Questo articolo è apparso su
il manifesto del 27 Ottobre 2007
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