Gravidanza: a chi spetta l’ultima parola

di Maddalena Gasparini

 

Non è solo il dibattito bioetico che ha dimenticato la gravidanza e il parto, ma per certi versi anche quello femminista”, scrive Caterina Botti, che, incrociando la riflessione femminista con la competenza bioetica, rimedia a questo silenzio nel suo bel libro Madri cattive, una riflessione su bioetica e gravidanza.

Attraversando questioni teoriche –“l’inadeguatezza dei paradigmi più diffusi dell’etica e della bioetica”- e affrontando casi estremi –“che esemplificano il modo in cui ancor oggi viene rappresentata o meglio non rappresentata la gravidanza” Caterina Botti riconduce l’esperienza della gravidanza alla singolarità della donna, e il preteso conflitto madre-feto alla tensione interiore che caratterizza ogni soggetto morale.
Barbara Duden ci ha parlato della medicina che, con immagini e indagini, ha progressivamente separato il feto, l’embrione dal corpo femminile, dando sostanza alla “maternità patriarcale”; Caterina Botti va oltre: assumendo “la rilevanza della concretezza e della sessuazione del soggetto in bioetica e in morale” mette al centro della riflessione bioetica la gravidanza come esperienza del corpo, spostando il discorso dall’evento al soggetto che ne è protagonista. Riconoscere che le donne sono soggetti morali e che  “la gravidanza è un’esperienza umana in cui si danno dilemmi morali” è “importante anche per quelle donne che hanno deciso di non attraversare questa esperienza” e per le donne e gli uomini che vogliono sottrarsi alla contrapposizione fra i più diffusi paradigmi della bioetica, “quelli che fanno perno sull’autonomia e quelli che fanno perno sul benessere” consentendo una rilettura del principio di autonomia e un bilanciamento, piuttosto che un conflitto, col principio di beneficenza.

Non è un caso se sull’esperienza di gravidanza e parto vissute dall’autrice e comune a molte donne la bioetica ha (finora) detto poco. Una volta che la donna abbia accettato la gravidanza infatti, orientamenti diversi della bioetica e linee-guida su procedure e comportamenti da preferire convengono sull’obbligo della “tutela del nascituro”. La capacità decisionale (l’autonomia) della donna gravida ne risulta gravemente limitata, come se una donna potesse non avere a cuore il benessere del figlio e insieme tener conto del proprio. Evidenze scientifiche -su stili di vita, accertamenti medici, monitoraggi più o meno intensivi, modalità del parto- e obblighi morali vengono sovrapposti e confusi perché possano darsi reciprocamente forza, mettendo in ombra i  costi soggettivi delle scelte, che si tratti di rinunciare a fumare o a un lavoro considerato nocivo. La letteratura scientifica e bioetica di stampo liberale su questi temi spesso si limita alla critica di procedure che si fondano sulla consuetudine, più che sull’evidenza scientifica: procedure invasive e dolorose, dipendenza dall’assistenza sanitaria. Eppure il costo di rinunce, obblighi e incombenze non è misurabile in termini di invasività o inutilità delle pratiche: un prelievo di sangue è invasivo ma può costare molto meno che modificare lo stile di vita quotidiano.

Nel mondo della Grande Salute, per usare le parole di L. Sfez, l’autonomia rischia di coincidere con la richiesta, il consenso o il rifiuto “informato” a procedure messe in opera da altri (i professionisti della sanità) su di un corpo, quale che sia. C’è un accordo diffuso sull’obbligo morale, per chi interviene, di farlo in accordo con chi subisce; eppure in tema di gravidanza e parto l’unica libertà rischia di coincidere con l’assunzione della narrazione dominante. Procedure tecnologiche (spersonalizzanti e spesso dolorose) e modalità alternative (di solito più accattivanti) rischiano di essere ugualmente normative, se manca un riconoscimento pieno di soggetto morale a chi ha corpo di donna, anche se gravido. Ogni considerazione morale prima di guardare al contenuto della scelta deve collocare quella scelta nel contesto in cui è stata fatta: partorire sedute non per forza è superamento della passività di chi accetta la posizione ostetrica convenzionale (per il mondo “sviluppato”); il punto è che ogni donna in quelle circostanze venga riconosciuta e messa in grado di operare  la scelta che reputa migliore per lei e dunque per chi deve nascere. Insomma, sembra dire Botti, ogni donna sa cosa è meglio per sé e per il figlio che porta in grembo; non c’è obbligo morale o imposizione di legge che possa fare due di un corpo solo. La scelta è il risultato, non necessariamente tutto e solo consapevole, di un delicato intreccio di “relazioni interpersonali, risposte emotive, narrative e riflessive” ancorate all’esperienza corporea e al suo evolvere nel tempo e non l’espressione di un capriccio o di una determinazione sociale.

La sfida di applicare alla gravidanza la riflessione bioetica e femminista permette di andar oltre quella visione dell’autonomia femminile che si limita a difendere la libertà di interrompere la gravidanza o di avviarla col ricorso alle tecnologie riproduttive e giunge all’esito più interessante: collocare l’esercizio dell’autonomia nelle relazioni personali superando la nozione raggelata di “autonomia come non interferenza” e riconoscendo il ruolo dei sentimenti e delle emozioni nelle scelte con implicazioni morali. Una “visione del soggetto incarnata, sessuata e relazionale” chiama in causa nel processo decisionale il coinvolgimento sentimentale e il suo radicamento nel corpo e, solo dopo, quello razionale e restituisce alla donna quella “tensione interna” che la maternità patriarcale ha voluto rappresentare come conflitto fra individui distinti e contrapposti.
La relazionalità di cui si parla non è quella di “un corpo che ne accoglie un altro” ma la base costitutiva della soggettività morale, della singola in quella esperienza; è il luogo dell’esercizio della propria autonomia e del riconoscimento di limiti e vincoli.
Sono molti gli esempi della storia e della cronaca che documentano le condizioni materiali e le argomentazioni tese a mantenere la donna che cerca o ha in corso una gravidanza sotto tutela: dalle prescrizioni pre-concepimento alla posizione supina per partorire (comoda per chi assiste) fino all’obbligo morale di “non far nascere” individui malati o gravemente sofferenti. Gli “esempi pratici” che esemplificano e sostengono le tesi raccolte nella prima parte del libro, sono raccolte nella seconda parte del libro in tre gruppi: il parto e il dolore, “perché la disattenzione con cui questa esperienza è vissuta e gestita” sembra fatta apposta per ricondurlo alla natura; la gravidanza e gli stili di vita, per dar voce alla “possibilità di considerare la gravidanza un momento in cui si dà forma alla propria esistenza” (corsivo mio); la gravidanza post-mortem, per “le implicazioni rischiose per il senso di sé delle donne” più ancora che per chi nasce (si può essere orfani solo di padre, sembra dire questa storia).

Fra gli esempi riportati, il caso del “cesareo coatto” ci aiuta a cogliere le contraddizioni profonde celate in decisioni che possono sembrare di buon senso: a fronte del rifiuto di un parto cesareo consigliato dal medico, sempre più spesso, e sbrigativamente, negli USA l’intervento chirurgico viene imposto dal giudice, quasi si trattasse di liberare il “bambino prigioniero dentro il corpo materno”. La tutela del figlio prevale sul diritto all’integrità della donna, ma –ecco l’incongruenza-solo se non è ancora nato; la coercizione infatti non ha luogo se per esempio una madre (o un padre) si rifiutano di donare midollo osseo o un rene per il trapianto. L’evidenza scientifica che coniuga le variabili mediche con i risultati, dentro un approccio inevitabilmente probabilistico, viene tradotto e confuso con l’obbligo morale e giuridico. Qui si cela il trasferimento d’autorità dal soggetto morale a una scienza che si pretende oggettiva e in grado di decidere cosa è bene; proprio come quando la ministra Turco lascia credere che il parere di un organismo scientifico (il Consiglio Superiore di Sanità) su cosa si debba intendere per <<feto vitale>> o <<accanimento terapeutico>> possa cancellare gli spazi di incertezza impliciti all’esercizio della libertà, qui della gravida, là del morente.

Non ci resta allora che  riprendere pazientemente il filo di quel discorso, in tema di riproduzione,  dà alle donne l’ultima parola, non all’evidenza scientifica.

Caterina Botti
Madri cattive, una riflessione su bioetica e gravidanza
Il Saggiatore, 2007
€ 18,00 pag. 250

 

25-03-2008

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