Le donne dicono basta alla libertà provvisoria

di Beatrice Busi


Milano, 14 gennaio 2006


E' l'estate del 1971. Il codice penale Rocco, ereditato dal fascismo, considera l'aborto "delitto contro l'integrità e la sanità della stirpe", nessuna deroga è consentita, le pene previste sono durissime. I documenti dell'epoca stimano che sono ventimila all'anno le donne che muoiono per aborto in Italia. Se non bastasse, ogni anno vengono denunciate centinaia di donne, a decine sono processate.

"Sessualità femminile e aborto", uno dei primi documenti del femminismo radicale italiano, chiarisce immediatamente qual è la posta politica in gioco nella lotta per l'aborto libero e gratuito. «Noi di Rivolta femminile sosteniamo che da uno a tre milioni di aborti clandestini calcolati in Italia ogni anno costituiscono un numero sufficiente per considerare decaduta di fatto la legge antiabortiva. (...) Ci rifiutiamo oggi di subire l'affronto che poche migliaia di firme, maschili e femminili, servano da pretesto per richiedere dagli uomini al potere, dai legislatori, quello che in realtà è stato il contenuto espresso da miliardi di vite di donne andate al macello dell'aborto clandestino. Noi accederemo alla libertà di aborto, e non a nuova legislazione su di esso, a fianco di quei miliardi di donne che costituiscono la storia della rivolta femminile».

Nel 1973 inizia il processo a Gigliola Pierobon, una data che rimane una pietra miliare nella storia del movimento femminista italiano dei 70. E' il primo processo per aborto che diventa "fatto politico". Lola aveva abortito nel 1967, quando aveva 17 anni. Nel frattempo é diventata femminista. Quando le comunicano il rinvio a giudizio, ne parla con le sue compagne. Decide di allargare il suo caso a tutte le donne, trasformare la sua condizione soggettiva per ritrovare il "comune" della condizione femminile. E insieme alle sue compagne decise di fare del processo un "fatto politico".
Il 5 giugno, a Padova, arrivano centinaia di donne da tutta Italia. Contemporaneamente si svolgono assemblee e sit-in anche in altre città, a Roma, Firenze, Venezia, Milano, Trieste. Le donne, fuori e dentro l'aula, gridano «Noi tutte abbiamo abortito!». «Noi donne siamo tutte in libertà provvisoria», scrive Lotta femminista, gruppo nato dall'esodo delle donne dalle strutture della Nuova Sinistra. «Lo Stato mantiene le donne in libertà provvisoria per costringerle a tenere piegate le loro teste e a tenere chiuse le loro bocche. E la Chiesa gli dà man forte. Il 5 giugno a Padova le donne accusarono pubblicamente lo Stato di strage continuata e aggravata rispetto a tutte le donne che sono morte e muoiono per le condizioni disumane in cui avviene l'aborto clandestino. E accusarono pubblicamente la Chiesa di complicità».

Da lì in poi, la lotta si generalizza, i cortei si ingrossano, cresce la partecipazione maschile, esplodono le contraddizioni. Il collettivo di via Cherubini, di Milano, il 18 gennaio 1975 scrive "Noi sull'aborto facciamo un lavoro politico diverso" e si domanda quale sia il senso di una presenza maschile nella lotta per l'aborto libero e gratuito senza che ci sia una messa in discussione dei comportamenti sessuali.
A febbraio un altro documento, "Procreazione e lotta di classe", del Comitato Triveneto per il Salario al lavoro domestico rincara la dose. «La stessa richiesta che sia "gratuito" in bocca ad Avanguardia operaia, Pdup per il Comunismo, o Lotta Continua e gli altri non si capisce che senso abbia se non di uno dei tanti "servizi" che devono essere gratuiti. Ma l'aborto non è un "servizio", restare incinte contro la propria volontà è l'incidente sul lavoro di chi è destinata nelle condizioni capitalistiche alla procreazione, alla riproduzione della forza lavoro. (...) La donna che abortisce allora non deve non solo poterlo fare in modo gratuito ma ricevere un'indennità per infortunio sul lavoro».
Il 6 dicembre del 1975 più di 20mila donne sfilano a Roma per l'aborto libero, gratuito e assistito. E' un corteo separato, gestito secondo i "criteri dell'autonomia organizzativa femminista".

Le mobilitazioni del movimento femminista mirano alla depenalizzazione e non a una legislazione ad hoc sull'aborto. Una posizione comune sia al Movimento di liberazione della donna, inizialmente federato al Partito radicale e poi resosi autonomo, sia al Movimento femminista romano, che nel 1976 scrive: «Noi ribadiamo la nostra posizione per la totale abrogazione del reato di aborto. Qualsiasi forma di legislazione sull'aborto, anche la più ampia, presuppone un controllo sulla donna».

I motivi li descrive bene il documento "Autodeterminazione: un obiettivo ambiguo", contenuto nel Sottosopra rosa del gennaio 1976, che entra nel merito della legge sull'aborto proposta in parlamento ed esprime la posizione di molti altri gruppi di autocoscienza di Milano, Torino, Firenze: «L'unica cosa che vogliamo da una legge è la cancellazione del reato, dunque la depenalizzazione». L'autodeterminazione, dice quel documento, non è più tale se ci si subordina agli interessi dei partiti - il conflitto con il Pci fu accesissimo - e della logica parlamentare; se ci si affida alla regolamentazione esterna dello stato; se, una volta ottenuta la legge, si impiegano le energie in una lotta difensiva le cui regole sono date dalle istituzioni ospedaliere, giudiziarie, amministrative. Niente di più vero, la storia successiva, soprattutto quella più recente, dà ragione e corpo a tutti questi dubbi.

Nel 1978, la "nuova unità nazionale" viene suggellata anche sul corpo delle donne. Il 22 maggio, tredici giorni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani, la Camera approva definitivamente la legge 194 sull'interruzione volontaria di gravidanza con 308 voti contro 275. Votano sì Pci, Psi, Psdi, Pri, Pli e gli Indipendenti di sinistra. Viene così sventato il "pericolo" del referendum, fissato per giugno, che chiedeva l'abrogazione delle norme fasciste del codice penale, compresa quella sull'aborto, promosso dalle 500mila firme presentate dal Partito radicale.
Nel 1987 la Libreria delle donne di Milano, in Non credere di avere dei diritti , scrive: «Quando la legge fu approvata ed entrò in vigore, le donne stesse che l'avevano voluta si resero conto che essa rispecchiava fedelmente le esigenze, le preoccupazioni e i compromessi di coloro che l'avevano fatta, uomini, con l'occhio attento a un corpo sociale dove il punto di vista maschile era ben chiaro e prevalente».

Infatti, la lotta contro l'aborto clandestino, è stata una lotta a tutto campo, di certo non liquidabile con l'idea di rivendicare e ottenere un "diritto". Parlare pubblicamente di aborto ha significato innanzitutto una radicale messa in discussione della sessualità e dei rapporti tra uomo e donna, nel personale e nel politico, come ha fatto soprattutto Rivolta femminile. Ha significato praticare la consapevolezza e la riappropriazione del proprio corpo attraverso strutture e relazioni diverse, come hanno fatto i centri per la salute delle donne, i consultori autogestiti o le cliniche Cisa (Centro italiano sterilizzazione aborto) aperte dalle campagne di "disobbedienza civile" del Movimento di liberazione della donna. Ha significato una battaglia politica sul terreno della riproduzione come lavoro, come hanno fatto i gruppi di Lotta femminista che intrecciavano la richiesta del salario "contro" il lavoro domestico alla denuncia dell'aborto come "infortunio sul lavoro".

La lotta per l'aborto libero, gratuito e assistito è stata radicale, costellata di occupazioni - la più eclatante quella del Duomo di Milano nel 1976 -, di autodenunce, di processi, arresti, cortei caricati dalla celere, attaccati dai fascisti ma anche dai servizi d'ordine dei "compagni", come quello di Roma nel 1975. Ma ha portato con sé anche la reinvenzione del pubblico, la costruzione di nuove istituzioni dal basso, attraverso l'apertura dei consultori autogestiti, dei centri di medicina delle donne e delle cliniche in cui si effettuavano gli aborti con il nuovo metodo dell'aspirazione importato dalla Francia. Ha significato tutto questo insieme, perché, in quegli anni, tutte volevano tutto.

Il 14 gennaio 2006, in 250mila, in maggioranza donne, hanno manifestato a Milano in difesa della 194, per il diritto all'autodeterminazione. Perché la legge 194 è l'istituzionalizzazione di questa grande esperienza di conflitto e invenzione. Un conflitto che cova sotto la cenere, sempre pronto a riaccendersi.

 

articolo pubblicato da Liberazione il 21/05/2008

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