CACCIATORE DI TESTE
(Le couperet)

di Gemma De Magistris

 

 


L'ultimo film di Constantin Costa- Gavras parla di lavoro, della tragedia di perdere il lavoro, di nevrosi che arriva alla follia, di valori capovolti.
A mio avviso c'è dentro una sorta di capovolgimento della logica.

Bruno (Josè Garcia) è una persona razionale, serena, realizzato nel suo lavoro in cui mette passione, inventiva. Il rapporto con la moglie (Karin Viard), solido (così sembra), l'attenzione per i figli, perfino il benessere sono altri aspetti della vita, sono conseguenze, sono "il resto". Fin qui tutto bene. Poi però, nonostante la sua importanza nel ruolo che occupa, anche Bruno è vittima della delocalizzazione dell'azienda e viene licenziato.

Il regista delinea con una tale gradualità e sensibilità il percorso di Bruno che riesce a far percepire quasi logico e razionale quello che non lo è.
Perché il protagonista, quando si accorge che la sua qualifica, preparazione, le sue idee non sono facili da sistemare sul mercato perché c'è troppa concorrenza, comincia ad ammazzare a sangue freddo, senza particolari tormenti. Gli basta una doccia per lavarsi dal delitto, quelle persone non le conosce anzi non sono persone, solo ostacoli da eliminare. Ed il "giochetto" gli prende la mano e forse un po'anche a noi che guardiamo il film.

Sembra un pochino inevitabile quello che Bruno fa, perché, come continua a ripetersi, lo fa per salvaguardare "il resto". Il benessere della famiglia, la bella casa, le abitudini dei figli. La figura della moglie, all'inizio sullo sfondo, incoraggiante, rassicurante, viene fuori poco a poco: trova un paio di lavoretti, riesce a portare un po' di soldi in casa, a seguire i ragazzi, a tranquillizzare il marito sempre più avvilito che nel frattempo si è trasformato in assassino. La differenza è tutta lì: la diversa costruzione della identità: a Bruno l'identità la regala il lavoro, il senso dell'appartenenza all'azienda o come lui stesso dice al terapeuta "alla tribù", è quella la sua realtà, e ci è scappata in passato anche una relazione (perché no? fa parte del gioco, la coppia che sembrava perfetta, ha avuto un momento di crisi e lo ha risolto con l'aiuto del consulente matrimoniale).

Io comincerei a dire che un tradimento non è un momento di crisi, la crisi ce l'hanno adesso, perché lei cerca un altro appuntamento con il consulente con una unica motivazione: parlare con il marito. E quelle che lui percepisce come lamentele e nel frattempo continua a pensare "sto ammazzando per voi, per mantenere i vostri lussi, la nostra bella casa" e nel frattempo pensa che il problema sia un tradimento da parte della moglie, sono invece richieste. Lei vuole credere di essere il punto di riferimento nella vita di suo marito, quella vita profonda che non fa parte dell'esterno, lei pensa ad "un posto in cui essere felice" che non sia necessariamente la bella casa di cui pure è giustamente e naturalmente fiera e di cui si prende cura.

Ma fino a che punto la posizione lavorativo-sociale riesce a definire l'identità? Costa Gavras ci mostra che attualmente può essere una identificazione totale; se crolla quella, non c'è altro ed allora è "normale" abbattere gli ostacoli. Non c'è un "essere" basato su un mondo relazionale, c'è un "essere" precario, fragile, nevrotico basato su una appartenenza altrettanto fragile. Ma è questo che conta. Ed è per questo che Bruno, nonostante un momento di pentimento, non si uccide, si addormenta.

Il finale è amaro: il protagonista si è trasformato in assassino e sembra non ricordarsene nemmeno più: ha vinto, rientra nella "tribù" ed il fine giustifica ogni mezzo. A dispetto dei valori che solo apparentemente passa ai figli. Ai figli non trasmette molto, è abituato a dare cose, soldi, disprezzo per gli altri, non ha alcuna cura per loro. Di questo si occupa la madre perché lei è delegata a farlo e lo fa al meglio che può anche lei con suoi valori ed i suoi limiti e così continueranno a vivere felici, contenti, e benestanti.

20- 02- 06