USCIAMO DAL SILENZIO:
continuità e innovazione nella partecipazione politica e civile delle donne

di Anna Rita Calabrò e Maria Antonietta Confalonieri

 
Milano, 14 gennaio 2006
 

A un anno esatto dalla straordinaria manifestazione del 14 gennaio 2006 a Milano, si può tentare un’analisi di quello che è ormai noto come il movimento “Usciamo dal silenzio”, che conta oggi una vasta rete nazionale di gruppi e assemblee in varie città.

Il 9 novembre 2006 si è svolto a Pavia per iniziativa della sezione vita quotidiana dell’AIS, del Dipartimento di Studi Politici e Sociali, e del Centro di studi di genere dell’Università di Pavia, un seminario nato dall’esigenza di avviare un confronto sulla presenza delle donne nei movimenti, nelle istituzioni, nei luoghi della politica e nella società civile. Un gruppo di discussione piuttosto eterogeneo che includeva donne che lavorano in diverse istituzioni: università, sindacato, governo locale, media. Aver intitolato il seminario Usciamo dal silenzio… e come sottotitolo ‘continuità e innovazione nella partecipazione politica e civile delle donne’, trova ragione nel fatto che proprio questo movimento sembra riproporre e coniugare in maniera nuova la presenza delle donne sulla scena politica e sociale. 

Usciamo dal silenzio, infatti, utilizza  forme organizzative e un repertorio d’azione collettiva proprio, tematizza in modo innovativo questioni cruciali che investono oggi il nostro paese, elabora originali codici  comunicativi. Ricordiamo, per dovere di cronaca, che il movimento è nato come coordinamento di una serie di iniziative in difesa della legge 194, ma, in brevissimo tempo, usando la rete come sistema comunicativo, si è esteso in molte città italiane, ampliando i propri obiettivi d’azione e accogliendo un evidente inedito bisogno  di associazionismo e partecipazione civile delle donne che sembrerebbe andare oltre le appartenenze politiche e la collocazione generazionale. Ci sembra importante, allora, ricostruire il contesto che ne ha accolto e favorito l’emergere, e comprendere in che misura esso presenti elementi di continuità, o discontinuità, rispetto all’evoluzione/involuzione che dagli anni ’70 ad oggi, ha avuto nel nostro paese  il movimento delle donne.

Pur ponendosi in continuità con tale esperienza,  Usciamo dal silenzio segnala un cambiamento nei modi  e nelle forme dell’associazionismo e della partecipazione civile e politica, a conclusione di una stagione in cui tale partecipazione è stata molto debole e ha riguardato settori  circoscritti della società. In questi stessi anni il movimento delle donne, che sembrava essersi disperso entrando nel territorio della vita pubblica, in realtà con i suoi saperi, i suoi linguaggi, le sue professioni, le sue gerarchie ha ‘contaminato’ i luoghi istituzionali – politici, sociali e lavorativi – attraversati. Le donne si sono fatte promotrici di iniziative culturali, associative, di ricerca, ma in una sorta di frammentazione che celava l’evidenza di tale presenza e il suo carattere innovativo. Cambiamenti  che forse sono stati sottaciuti o a cui, comunque, non è stata data sufficiente visibilità e risonanza (nella stampa, nella tribuna del dibattito mediatico, all’interno della comunità scientifica…) anche dalle stesse protagoniste. Usciamo dal silenzio  accoglie e rimette in gioco tale patrimonio e  questa terza fase del movimento – dopo il femminismo storico e il femminismo diffuso – esprime  interessanti  elementi di novità rispetto al passato che vale a pena di richiamare. Questa nuova ondata di protesta delle donne ha preso avvio dalle minacce di una manomissione della legge 194. Minacce che si collocano nell’ambito di una reazione del mondo cattolico al processo di secolarizzazione della società italiana e nel tentativo di riprendere, con una determinatezza  che non si vedeva così vigorosa da alcuni decenni, influenza sulle scelte pubbliche trovando in componenti dello schieramento di centro destra una diffusa offerta di rappresentanza. Questa nuova ricerca di egemonia sulle scelte politiche preoccupa le donne perché apre la prospettiva di una restrizione degli spazi di autodeterminazione conquistati.

D’altro lato, però, la ripresa del movimento è avvenuta in una fase in cui il contesto delle opportunità politiche si prefigurava nell’immediato futuro come relativamente favorevole. La vittoria del centro sinistra alle elezioni politiche si dava sicura, ci si attendeva una significativa presenza femminile in parlamento e al governo, mentre le politiche del governo Zapatero incoraggiavano l’aspettativa che politiche di libertà potessero essere introdotte con successo anche in paesi di forte tradizione cattolica.

Questo spiega  a nostro avviso, almeno in parte, il fatto che il movimento ha subito mostrato un più netto orientamento a influenzare le decisioni  politiche e sviluppare con l’arena politica istituzionale relazioni diverse rispetto al movimento femminista degli anni ’70. Innanzitutto attraverso la tematizzazione alternativa, e anche culturalmente antagonistica, delle questioni pubbliche.

Quella della violenza sulle donne in particolare. Il messaggio dei media, a cui si accoda spesso la politica, è all’insegna dell’allarme all’emergenza e individua fuori  dalla casa , nello spazio della città, della notte, il luogo della minaccia, e nello sconosciuto (spesso nell’immigrato, specie se islamico) il potenziale stupratore. Rieccheggiano in questa formulazione della questione tanto la riproposizione di stili di vita tradizionali che l’evocazione di un ipotetico “scontro di civiltà”, mentre le soluzioni proposte sono per lo più iscrivibili nell’ambito delle misure di sorveglianza e ordine pubblico. A questa lettura  il movimento delle donne ne oppone una alternativa, che scaturisce dalla sua elaborazione teorica e, soprattutto, dall’esperienza dei molti centri antiviolenza creati e gestiti a partire dagli anni settanta: la violenza sulle donne è un orrore cronico, perché iscritta nella nostra cultura è la violabilità del corpo della donna, e l’ambito principale in cui si manifesta è quello delle relazioni familiari e di intimità. Per tali ragioni esige strategie di contrasto di natura assai più complessiva delle misure di ordine pubblico.  Alternativa è anche la tematizzazione della questione dell’immigrazione e della condizione delle donne migranti: all’orientamento prevalente che riconosce soggetti di diritti comunità e famiglie si oppone la richiesta di individualizzazione dei diritti, nella convinzione che è proprio nella comunità e nella famiglia che si radicano l’esclusione sociale e lo sfruttamento delle donne migranti. 

Il femminismo della “terza ondata” interviene dunque sull’arena politica con una formulazione della questioni pubbliche che si nutre dell’elaborazione teorica e pratica del “femminismo diffuso”. Rispetto al movimento degli anni settanta la relazione con la rappresentanza politica sembra basata non più sul rifiuto della delega ma su forme di delega condizionate e critiche. Inoltre mentre in passato le domande di cambiamento avevano natura sociale e culturale più che politica, adesso le due istanze appaiono strettamente connesse, condividono in parte luoghi e attori e sembrano interrogarsi l’un l’altra. Il riequilibrio della rappresentanza e i meccanismi legali per la sua promozione diventano una questione centrale per il movimento che si confronta con una domanda diffusa tra le donne di contare in politica. Un’urgenza che è emersa anche nell’esperienza dei corsi “Donne politica e istituzioni” nati da una iniziativa della Ministra Prestigiacomo e che hanno coinvolto in questi ultimi anni  quasi diecimila donne nelle università di tutto il paese, che hanno costituito una rete potenzialmente attivabile.    

Altro elemento di novità rispetto al passato è la composizione del movimento: l’ipotesi è che siamo di fronte ad un  “nuovo soggetto politico”, intergenerazionale, formato da una molteplicità di singole donne, ma anche da gruppi e associazioni prevalentemente femminili, che hanno alle spalle una storia di recente o di ben più antica data (per fare qualche esempio, il “collettivo Donne diritto”, che accoglie da molti anni un accreditato gruppo di giuriste, piuttosto che Arcilesbica, l’Udi…). Innovative, inoltre, sono le forme e i modi della comunicazione. Non ci riferiamo soltanto all’uso della rete, strumento ovviamente inedito rispetto al passato, ma anche al fatto che la comunicazione sembra essere un atto strutturale del movimento stesso e non solo un’esigenza contingente al  coordinamento delle diverse iniziative.

C’è poi sulla scena un nuovo interlocutore: il maschile, che, se pure ancora molto timidamente, si è chiamato in causa sul tema della violenza sulle donne e che sembra disposto a mettere in discussione i termini culturali della propria identità sessuale. Una voce che trova spazio anche nel superamento, da parte del movimento, della logica separatista che aveva caratterizzato il femminismo storico. C’è infine un nuovo rapporto tra le donne che fanno riferimento a Usciamo dal silenzio. Rapporto basato, molto più che in passato, sul riconoscimento delle diverse professionalità e competenze e sulla messa in uso delle risorse che ciascuna di loro (giuriste, giornaliste, sindacaliste, politiche…) può offrire.

Per concludere vorremmo richiamare il fatto che, all’interno del movimento, rimangono alcune questioni irrisolte che presentano un certo carattere di urgenza. Due in particolare.  La prima riguarda l’organizzazione del movimento che chiama in causa le esigenze di rappresentanza (chi parla a nome di chi), stabilità e continuità del movimento stesso, la sua capacità di sostenere l’azione collettiva, le strutture di mobilitazione e la mobilitazione del consenso. Una questione, questa, di non facile soluzione perché un’organizzazione informale e flessibile se da un lato presenta alcuni vantaggi (la capacità di mobilitare forze sulla base di un’adesione di tipo emotivo, la capacità di offrire, all’occorrenza, risposte immediate senza dover sottostare a qualsivoglia iter burocratico…) dall’altro presenta molti rischi. Rischi di frammentazione e di caduta di tensione, rischi di conflitti nei confronti di una  leadership che comunque si crea ma che non è mai formalmente legittimata . E di questa contraddizione – contraddizione tra una dichiarazione di uguaglianza tra le partecipanti al movimento e di oggettiva  differenziazione tra le stesse - il femminismo storico, che per primo si era interrogato sui temi del potere e dell’identità,  pagò pegno perché non seppe, o non volle, interrogarsi sulle tensioni che si crearono all’interno dei gruppi tra coloro che ne avevano assunto di fatto il ruolo di leader e tutte le altre.

La seconda riguarda le donne immigrate. Innanzi tutto all’interno del movimento occorre ragionare su come la loro presenza nel nostro paese sta modificando e modificherà la pratica politica in senso lato e il contesto culturale e simbolico all’interno del quale tale pratica si svolge. Se è generale la convinzione che il movimento delle donne non può non farsi carico dell’articolazione delle domande delle donne emigranti e quindi del tema dei diritti civili e del riconoscimento della dimensione di genere del multiculturalismo, le forme di ascolto e di confronto prima ancora che quelle della mobilitazione sono in gran parte ancora da costruire.