La camera oscura della democrazia

di Rosella Prezzo e Franca Spirito


Non possiamo restare un giorno di più nella camera oscura degli orrori...


Per far fronte alle immagini delle torture che dal carcere di Abu Ghraib ci arrivano addosso dagli schermi e dalle pagine di tutti i quotidiani, sono stati usati gli schemi interpretativi più disparati: psicoanalitici e sessuali, antropologici o etici, sull'onda di emozioni che vanno dal ribrezzo all'indignazione, alla denegazione o anche alla minimizzazione ("le torture hanno sempre fatto parte delle guerre"), fino alla più semplice e ipocrita presa di distanza dall'orrorre che trova nella patologia di poche 'mele marce' l'autoassoluzione di una collettività.Ma cosa ci fanno veramente vedere, cosa ci rimandano queste immagini?

Soffermiamoci innanzitutto sul fatto stesso della loro realizzazione e sulla forma che all' 'evento' si è scelto di dare. Non si tratta della 'documentazione' da archivio segreto né di immagini rubate da un abile reporter ma, semplicemente e banalmente, di foto-ricordo con trofeo. Come quelle che si possono fare in un viaggio-turistico-con safari compreso, e da esibire, nell'album di famiglia, ad amici e parenti (e magari ai figli e nipoti): momenti clou del proprio viaggio avventuroso in Irak. O come nell'allestimento di un set per un filmino porno. E qui sta il primo livello dell'orrore: l'abnorme e il disumano viene ridotto alla banalità di una pratica comune, di un vizio privato. Nuove forme di banalità del male.

Se poi appuntiamo lo sguardo sull'esecutore-esecutrice dell'impresa (perché la nostra posizione è proprio quella al di qua dell'obiettivo) ciò che balza agli occhi è che essi non sono minimamente attraversati né toccati dalla violenza che stanno compiendo. Si mettono in posa e guardano in macchina, sorridenti, tutti presi solo da se stessi e dal desiderio di essere visti, in una sorta di narcisismo primario. Cui fa da contraltare la privazione dello sguardo imposto alle vittime, incappucciati, denudati e ridotti alla vulnerabilità estrema di materia vivente e di puro patimento.

Stiamo così assistendo alla guerra personale e personalizzata di questi 'torturatori per caso'. Individui che la guerra la fanno non in nome di ideali (democrazia, libertà, ecc.) o per la "difesa della patria dal terrorismo", e nemmeno come scelta di un mestiere, ma per risolvere problemi comuni che emergono dalle loro vite private. Anche la guerra è una buona occasione, nel paese delle mille opportunità offerte all'individuo, per realizzare i propri sogni: potersi permettere una casa, pagarsi gli studi o vedere il mondo. Questa è la vera privatizzazione della guerra, molto più della preponderante presenza dei mercenari in campo.
Ed è qui che la superficie delle immagini delle torture diventa specchio riflettente di una società in cui la libertà individuale si deresponsabilizza sempre di più. Si esercita nell'incapacità a formulare giudizi, a cogliere gli effetti sociali delle proprie azioni; nell'incomprensione della politicità della realtà, nella cecità e insensibilità per relazioni che vadano al di là di un contesto privatistico e privatizzabile. È proprio questo a minare dall'interno la forma politica condivisa e condivisibile di una convivenza che possa definirsi democratica, che vive di vincoli etico-politici, di diritti-doveri universali e inderogabili; solo all'interno di questo orizzonte sono possibili anche il riconoscimento, il confronto e il libero intreccio delle differenze.

Queste immagini ci aprono le porte di una camera oscura, che non è solo quella di una "sporca guerra", che si proietta sul grande schermo, ammantata da retoriche e giustificata da strategie, ma è quella di un baratro in cui sta vertiginosamente precipitando la nostra democrazia e noi tutti. Se la vittima, accecata e torturata, si eleva infinitamente sul suo torturatore, noi-occidentali-democratici entriamo alla cieca nella notte della nostra democrazia.
Non siamo di fronte a una macchia che infanga l'immagine dell'occidente (come se, ancora una volta, tutto si riducesse a un problema di marketing) ma alla rivelazione di come la guerra in Irak sia anche la guerra, la tortura e la messa a morte dei nostri stessi principi, dei diritti dell'uomo e della dignità umana, dei vincoli di legalità e di tutela dell'individuo, principi fondanti e fondativi, anima e cuore stessi della democrazia ai quali non possiamo rinunciare pena il suo annientamento. La questione vitale non è allora se si vince o si perde una guerra, ma se si salva o si perde definitivamente la nostra stessa civiltà e il senso della nostra storia. Perché nella trionfante esportazione della democrazia non stiamo importando altro che la sua distruzione.

Non possiamo restare un giorno di più nella camera oscura degli orrori, né un attimo di più nell'occhio cieco dell'obiettivo.