Legge e corpo
di Maria Grazia Campari



Gina Pane

Si potrebbe quasi dire che il corpus legislativo non preveda il corpo

Nel libro primo che tratta delle persone, il nostro codice civile si limita vietare, con prescrizione sobria, gli atti di disposizione del corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica.

Il diritto appare complessivamente fondato sulla presupposizione dell’assenza dei corpi (sessuati) , formula regole generali e astratte che compiono un percorso fulmineo dal soggetto astratto che le promulga all’universale (nomina chiunque e vale per la generalità di coloro che sono parti del patto sociale definito dalla regola giuridica

Il soggetto legislatore, cioè il soggetto maschile astrae dal proprio corpo per dettare la regole valida per chiunque.

In realtà è la sua volontà che da forma alla regola e la donna, regolata, omologata dalla regola, è l’altro della cittadinanza. Non a caso, infatti, un corpo compare nella legge per esservi regolato: è quello femminile.

Le donne fino agli anni settanta del secolo scorso, sono state oggetto di un apparato minuzioso di regole, a causa della loro speciale e asimmetrica capacità riproduttiva.

Tant’è che il ricorso all’aborto, classificato come delitto contro l’integrità della stirpe, era punito con la reclusione da uno a quattro anni (delitto era anche classificata la propaganda anticoncezionale, inserita nel medesimo titolo del codice penale).

Negli anni settanta, appunto, attraverso leggi di attuazione dei principi costituzionali (parità fra i sessi, diritto alla salute come bene individuale e interesse collettivo) sono caduti i divieti di contraccezione e di aborto ed è stata instaurata una formale uguaglianza fra i sessi nella relazione col proprio corpo, fondata sul principio di autoresponsabilità.

Ne risultava una prescrizione normativa, per tutti, scarna e funzionale alla tutela del bene della salute.

Via via che la ricerca scientifica e la tecnologia hanno proposto soluzioni che pongono nuovi quesiti sulla relazione di ciascuno con il proprio corpo e con il proprio materiale genetico, il legislatore ha ripreso l’iniziativa in termini di controllo autoritario-patriarcale sul corpo femminile.

Questo è il senso complessivo, la ratio sottostante la legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita, una legge che riduce nuovamente il rapporto fra i sessi ad uno scambio impari, avente ad oggetto il corpo della donna, contraddicendo ogni elaborazione di diritto asimmetrico, ma non diseguale.

L’intento è ben chiaro ed enunciato fin dal primo articolo: il concepito-embrione diventa soggetto giuridico e si manifesta nel sociale come centro di imputazione di diritti, potenzialmente confliggenti con quelli della madre, in contrasto con i principi attuali del nostro ordinamento che riconosce alcuni diritti solo al momento della nascita e li subordina ad essa.

Del resto, tutto l’impianto legislativo è palesemente illiberale e il suo disegno complessivo appare quello di ridurre concettualmente fino all’inesistenza, l’autonomia decisionale e la responsabilità delle donne sul proprio corpo.

Il pensiero corre immediato, guidato dal principio di non contraddizione, alla questione cardine: se l’embrione è persona o progetto di vita destinato ad essere completato, l’aborto è fatalmente rimesso in discussione . ne consegue la sostanziale sotterranea ripresa, al di là delle proclamazioni formali, di un intento negatorio della responsabilità femminile sulla procreazione.

La fondatezza di questa ipotesi appare, come spesso capita, confermata dal diritto vivente, che si esprime nelle decisioni dei Tribunali.

Una delle più significative in tal senso è la sentenza n. 8465/2001 con la quale il Tribunale Amministrativo del Lazio tratta ampiamente, ben prima della legge 40, dello statuto dell’embrione e della sua sacralità nell’attimo stesso della fecondazione, per negare legittimità al provvedimento amministrativo di autorizzazione alla commercializzazione in Italia della c.d. “pillola del giorno dopo”

Risulta in tal modo confermato l’impianto culturale e politico di controllo sulla sfera sessuale soprattutto femminile, la negazione di autoresponsabilità rispetto alle proprie scelte di vita.

Solo per esemplificare, è significativo il fatto che la fecondazione rimanga una possibilità solo per coppie conviventi ed eterosessuali (art. 5), ovvero che alla madre sia negata la possibilità di scegliere l’anonimato al momento del parto (art. 9).

Come si è già osservato, il cuore della questione che attraverso questa legge si perviene a raggiungere, per offuscarla, è la libertà/responsabilità di autodeterminazione procreativa, specialmente femminile.

Questa legge e la discussione nelle sedi politico istituzionali -di impianto maschile- che si stanno svolgendo sembrano reintrodurre l’antico regime, quando i parroci tenevano i registri del foetus. Anche questa legge,attribuendo soggettività giuridica al concepito, consente di dibattere sulle gradazioni del controllo sul corpo femminile: questa è la spina irritativa che si è ormai apertamente conficcata nel nostro ordinamento giuridico, arrecando pregiudizio a soggetti femminili incarnati.

Un motivo, secondo me, per fare della scadenza referendaria un momento di dibattito non solo sul senso dei quesiti referendari ammessi dalla Corte Costituzionale (sui quali, ovviamente, esprimersi positivamente), ma anche l’inizio di un percorso di critica articolata e approfondita che porti alla consunzione dei principi assoluti e inderogabili affermati da questa legge sulla base di una visione etica unilaterale, resa obbligatoria per tutte e tutti.

Una critica che possa costituire, come in altri casi, l’incipit di prassi abrogative dei vincoli più riprovevoli imposti alla libertà di autodeterminarsi nelle proprie scelte di vita.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del  giugno 2005

24 giugno 2005