Le afghane e la nostra impotenza
di Lidia Campagnano
da
la Rinascita del 7 dicembre 2001
Temo
che non faccia piacere alle donne afgane assurgere a simbolo di una barbarie
che oggi si vorrebbe sanare. Ed è tutt'altro che rispettoso quel
precipitarsi a spiare se si tolgono o non si tolgono il burka: qui si
sente la mancanza di una mediazione culturale, che ci aiuti a dire loro
la nostra angoscia e ad ascoltare da loro indicazioni su quali strade
vanno effettivamente aperte al loro diritto di vivere, con quali passaggi,
quali luoghi di protezione e promozione, quali canali di comunicazione.
Ma tant'è, viviamo (noi, qui) in un mondo dove ci si esprime, per
così dire, liberamente: sempre, ovunque, di corsa, con tutta la
rozzezza conseguente, e la conseguente ignoranza volonterosa. Fatto sta
che, mentre davvero non sapremmo dire come ci piacerebbe vederle vestite
sappiamo con certezza che il burka no, il burka è terribile.
Ma quello che forse suscita questo sussulto, questo rifiuto è la
sensazione oscura che quella donna completamente velata e perciò
stesso completamente esposta alla violenza e al disprezzo, proprio come
se andasse in giro nuda, non è una persona estranea, esotica, come
se non avesse nulla a che vedere con l'essere femminile di questa nostra
parte del mondo. Più cerchiamo di ridurla a uno stereotipo, più
incautamente la sommergiamo di raccomandazioni e protezioni, più
quella figura va ad annidarsi nel nostro mondo interiore, e di lì
ci parla.
Ci parla del mondo e ci parla di quello che stiamo provando in faccia
al mondo che cambia (sospettiamo che cambi, che stia cambiando molto,
ma chissà come) nel dilagare del sangue e della barbarie. Dice
che è possibile desertificare paesi e svuotare genti di qualunque
ricchezza umana, sotto lo scorrere libero e impazzito di capitali colossali.
Che interi popoli possono trovarsi a vivere senza legge, in un'organizzazione
tribale che di arcaico non ha più nulla, poiché le tribù
si aggregano attorno all'oppio o attorno ai kalasnikov, non attorno a
uno spirito o a un qualche dio.Che le scuole possono sparire, può
sparire il tema stesso di una trasmissione di saperi e può sparire
l'idea stessa di medicina, l'idea di curare il malanno e di guarire, che
la politica, anche intesa nei minimi termini di uno stato con qualche
articolazione riconoscibile può essere sostituita dal mercato e
dalla caserma. Che i bambini possono essere corpi da lavoro, da buttare
quando non lo siano.
Quella donna-stereotipo, quella straniera, ci fa paura con la sua muta
testimonianza, e col suo destino di essere l'incarnazione ultima del deserto,
perché sta parlando di impotenza, come se tutto questo fosse il
frutto di cicloni e terremoti anziché di un ordine mondiale che
è lo stesso che garantisce a noi il tailleur e il diritto di voto.
E questa volta noi quanto lei siamo sotto shock.. Perché possiamo
gridare fin che ci pare contro la guerra e contro le guerre che Bush promette
freneticamente prima ancora di sapere se potrà farle davvero (si
sente anche lui impotente? Sarebbe una novità interessante), ma
sappiamo benissimo che un'altra botta come quella che ha distrutto le
Twin Towers quest'ordine mondiale sciagurato non la reggerebbe. Lo sappiamo,
e stiamo sperando sotto sotto, che in questo macello che va in scena tutte
le sere sia stata inghiottita davvero l'organizzazione di Bin Laden.
Possiamo chiamarla impotenza, oppure l'essere arrivati a un grado zero
nel quale si evocano i temi che stanno alla radice dell'umana coesistenza
(che è coesistenza di uomini e donne): ed ecco perché, strumentalmente
o meno, ci si accorge di quella donna occultata sotto il burka, ci si
accorge della donna. Il caso vuole che mentre si parla dappertutto del
suo burka, un laboratorio americano annunci di aver clonato l'embrione
umano, mettendo le mani precisamente su un evento strappato al corpo femminile
in cambio di una promessa di immortalità per privilegiati. Mentre
un Dio che si spera Padre viene invocato con vari nomi a giustificazione
di tutto, le donne hanno da prendere atto qui sulla terra di essere tornate
a essere puri oggetti delle più pazze volontà di potenza,
o di barbarie.
Ci angoscia, la condizione simboleggiata dal burka, perché equivale
a un messaggio che dice: di lì occorre ripartire, sempre che ce
ne sia il tempo, che si crei qualche condizione favorevole per ripartire.
Di lì, se non si vuole passare la propria vita a spiare se dal
cielo non stia arrivando un suicida felice di scatenare massacri e bombardamenti
dai quali trarre nuovi aspiranti suicidi.
Non è in questa temperie che abbiamo sviluppato il nostro modo
d'essere e di pensare, che si tratti di pacifismo, di liberazione dei
popoli, di diritti umani, di comunismo o di semplice progressismo. E non
è in questa temperie che le donne hanno potuto creare il loro specifico
pensiero critico e il loro tentativo di accedere all'orizzonte della politica,
l'assalto al cielo. Quando si disserta di civiltà occidentale superiore,
è per dimenticare come sia arrivata a tutto questo.
Ora invochiamo e anzi pretendiamo l'ingresso in qualsiasi governo afgano
delle donne. E' giusto. Potrà essere difficile, può essere
che sulla strada di questo obbiettivo e di questa speranza si inciampi
in delusioni e in equivoci, ma è giusto. E' giusto che proiettiamo
su altre donne i nostri desideri di uscire dall'impotenza e non potremmo
non farlo, perchè questo è il nostro specifico, tradizionale
modo di sognare occidentale, il nostro specifico modo di proiettarci sul
mondo intero.
Purché poi ritiriamo la proiezione, per usare il linguaggio della
psicanalisi: cioè semplificando, purché poi guardiamo a
noi stesse, e magari anche a noi sessi. E iniziato da tempo un movimento
di contestazione all'ordine mondiale fondato sull'avidità senza
legge del mercato, e ha un'aria nuova e giovane. Meno freschezza soffia
invece attorno a una vera e propria crisi di senso del rapporto che sta
alle radici della civiltà, il rapporto uomo - donna, che quasi
come talebani diamo per risolto una volta per tutte.
Sarebbe da rivedere anche da noi, quel rapporto, e sul piano interpersonale
non è semplice farlo, attraversando sia i territori di un ritorno
a vecchi costumi, moralisti o libertini che siano, sia i silenzi che di
nuovo avvolgono questioni cruciali come la maternità e l'amore.
Quanto al piano politico, equità vorrebbe che la rivendicazione
che chiediamo alle afgane, l'ingresso in tutte le attività politiche
e di governo la praticassimo anche qui. Non risolve niente, non ci piacciono
le poche donne che già ci stanno, non ci speriamo più? Sì
è così. Ma c'è da vergognarsi a dirlo in questo momento.
Meglio sarebbe forse respingere anche questa impotenza che alimenta un'impotenza
più generale. Come dicono alcune donne afgane, ci vuol altro: bisognerebbe
percorrere, o ripercorrere, la lunga strada di una nuova politicità
femminile, più riconoscibile, più limpida, meno compromessa
con i nostri specifici tribalismi, con i linguaggi rituali, con le astuzie
del travestimento e del velamento, il conforto delle appartenenze. Con
il nostro burka.
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