Uno  scandalo contemporaneo: la distruzione dei diritti sociali 
         
      Maria  Grazia Campari 
        
       
        I  diritti sociali, secondo una teoria giuridica democratica tuttora assai  diffusa, costituiscono il perno e la condizione indispensabile per il godimento  dei diritti civili e politici. Detta altrimenti: a pancia vuota la libertà  individuale e collettiva sfuma nell’inesistenza poiché viene fiaccata ogni  volontà critica/partecipativa e si soggiace alle prepotenze dei potenti. 
        Agente  principale di effettività dei diritti sociali è per la nostra Costituzione il  lavoro, considerato quale fondamento della Repubblica (art. 1).  
         
        Nell’attualità,  anche a contrasto di un sistema che nega i diritti acquisiti, il concetto è  stato così tradotto: “Il lavoro è un bene comune”, nel senso che esso va  tutelato “come bene comune di una collettività”. “Non è un oggetto (merce)... non  è fine a se stesso, ma entità necessariamente funzionale alla qualità  dell’esistere in un determinato contesto... da tutelarsi nei confronti sia del  capitale privato (proprietà)... sia del sistema politico (governo) che del  capitale privato sempre più frequentemente è succube” (Ugo Mattei Beni comuni.  Un manifesto. Laterza 2011). 
         
        La  pratica politica dominante nell’ultimo ventennio ha rovesciato questa  impostazione dando priorità esclusiva alle pretese imprenditoriali, spacciate  come foriere di benefici produttivi e occupazionali per tutti, aziende e  lavoratori subordinati. In particolare, la necessità del ricorso alla  flessibilità contro le “rigidità” imposte dal sistema dei diritti del lavoro,  conquistati con le lotte degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è la  favola narrata a sostegno delle prime importanti manomissioni operate negli  anni Novanta dal cosiddetto “pacchetto Treu” implementato nel 2003 dalla “legge  Biagi”, il cui esito durevole è stato precarietà e condizioni di vita incivile  per giovani e meno giovani. Un disastro sociale in progressivo aumento che si  accompagna a un evidente regresso della concorrenzialità delle imprese italiane  sul mercato globale. Un apparato normativo attuativo di una costituzione  materiale che ha scosso i pilastri della nostra civiltà giuridica e civile  senza dare alcuno dei frutti promessi. 
              Perseverando  nel misfatto, la classe al potere ci ha regalato nel 2011 l’art. 8 del DL n.  138/2011 
        (ora  L. 148/2011) e l’accordo interconfederale del 28 giugno. L’art.  8 stabilisce che la materia relativa all’organizzazione del lavoro e alla  produzione sia regolata da accordi di livello aziendale o territoriale, capaci  di derogare sia ai contratti nazionali sia alle leggi dello Stato. Per di più,  tali accordi sono destinati ad avere valore vincolante per tutti i lavoratori  interessati, anche se non aderenti alle organizzazioni stipulanti. Le materie  che possono essere regolate coprono tutta l’area del rapporto di lavoro, dalle modalità  di assunzione alle tipologie contrattuali, alla trasformazione del contratto e  alla sua estinzione, anche in deroga alle disposizioni dell’art. 18 Statuto dei  Lavoratori (segno premonitore).  
              Questa legge opera il sovvertimento dell’ordine  gerarchico delle fonti di diritto secondo cui la legge dello Stato prevale  rispetto a qualsiasi accordo fra parti privati (tali sono le organizzazioni dei  lavoratori e dei datori). Un sovvertimento che vale quale abdicazione a una  parte importante della potestà legislativa su materie cui spesso ineriscono  valori costituzionali.  
      Aleggia sulla previsione un forte sospetto  d’incostituzionalità non solo perché l’art. 39 della Costituzione prevede la  possibilità di produrre effetti giuridici vincolanti erga omnes solo per  i contratti stipulati da sindacati registrati, previa verifica di democraticità  del loro ordinamento interno, requisito (la registrazione) ad oggi incompiuto,  ma anche perché l’impianto della norma contraddice, trattando la materia come  puro scambio fra oggetti (forza lavoro/denaro), la nozione che innerva la  Costituzione repubblicana. La dignità del lavoro implica in quel rapporto  l’esistenza di valori extra patrimoniali, beni della persona che vanno  tutelati, pena il deterioramento dello status di cittadino per chi è  nelle condizioni di vendere la propria forza lavoro.  
              Anche l’accordo interconfederale del 28 giugno,  sottoscritto definitivamente il 21 settembre 2011, si propone di estendere a  tutti, iscritti e non, l’efficacia della contrattazione aziendale, noncurante  del fatto che la contrattazione nazionale sia sprovvista di tale efficacia a  causa della inattuazione dell’art. 39 Cost. Una previsione che manifesta un  concetto proprietario della contrattazione e della rappresentanza e certifica  la (pericolosa) disponibilità delle confederazioni sindacali verso il  capovolgimento dell’ordine regolamentare, rendendo il contratto nazionale  flessibile in favore di esigenze aziendali ispiratrici della contrattazione di  secondo livello, ove massimo è lo squilibrio nei rapporti di forza fra le parti  contrapposte.  
              Sulla  stessa linea di svalorizzazione del bene costituzionale lavoro si è posto il “governo  dei tecnici” di (dichiarata) ispirazione europeista che ha messo mano a una  riforma complessiva del diritto del lavoro, considerato obsoleto, nel  dichiarato intento di promuovere la competitività imprenditoriale,  l’occupazione, quindi il bene di tutti. Si persevera in questa favoletta mentre  si opera per la distruzione di quanto sopravissuto dell’apparato normativo  garantista. Siamo di fronte, come è stato detto, a interventi caratterizzati da  una forte asimmetria sociale che fanno crescere ancora di più la diseguaglianza.  Il riferimento obbligato è alla manomissione dell’art. 18 della L. 300/1970  (Statuto dei Lavoratori) e ai primi articoli della L. n.604/1966, leggi  sottoposte a radicale revisione proprio perchè pongono limiti alla libertà  padronale di recedere dal contratto di lavoro ricorrendo a licenziamenti  individuali ingiusti e/o ingiustificati. I licenziamenti collettivi, come è  reso chiarissimo da una molteplicità di casi recenti, vengono inflitti  piuttosto liberamente, essendo sottoposti solo all’osservanza di regole formali  quanto a comunicazioni e procedure, poiché è impedita al giudice qualsiasi  valutazione di merito sulle scelte imprenditoriali.  
              Le  previsioni governative sarebbero a sostegno della “flessibilità in uscita”  mentre, dismessa ogni ipocrisia, dovrebbero piuttosto definirsi come licenza di  monetizzare, con scarsa mercede, i licenziamenti arbitrari. Infatti, una  generale libertà di licenziamento esiste già per motivi economici,  tecnico-produttivi, organizzativi, di mercato e quant’altro (giustificato  motivo oggettivo) e anche per motivi connessi al comportamento del lavoratore  per inadempimento di obblighi contrattuali o per motivi disciplinari  (giustificato motivo soggettivo e giusta causa). Se le motivazioni addotte a  giustificazione del provvedimento (qualora sia impugnato e sottoposto all’esame  del giudice) si rivelano false e coprono reali abusi interviene l’art. 18 con  il ripristino del rapporto, quindi la reintegrazione del lavoratore estromesso.  
              Una  limpida applicazione dei principi generali, resa sospetta solo dal rapporto di  forze sbilanciato in favore della classe dominante. 
        Ora  il ripristino del rapporto di lavoro risulta ammesso nei casi di licenziamento  nullo perché discriminatorio o dettato da motivo illecito, nonché nei casi di  sanzione disciplinare espulsiva inflitta ingiustamente perché l’addebito non  corrisponde al reale comportamento tenuto dal lavoratore ovvero perché per tale  comportamento è prevista dal codice disciplinare una diversa sanzione  conservativa e non estintiva del rapporto. In questi casi le mensilità di  risarcimento del danno, a buon conto, diminuiscono rispetto al passato essendo  previste in sei, dodici o, al massimo, ventiquattro mensilità dell’ultimo  stipendio percepito. Da notare che la reintegrazione nelle unità produttive che  occupano meno di quindici dipendenti (punto sul quale si è esercitata molta  propaganda) è esplicitamente prevista solo nei casi di licenziamenti nulli,  quelli, cioè, in cui anche in passato una corrente giurisprudenziale attenta ai  principi generali del codice civile imponeva la manutenzione del contratto e il  ripristino del rapporto. Negli altri casi resta il limite dei quindici  dipendenti. 
              Sono  esclusi dalla reintegrazione i lavoratori estromessi per motivi economici,  salvo che di questi ultimi non risulti la “manifesta insussistenza”. La  qualificazione “manifesta” pare tratta dalla regola relativa ai casi di  sospetta illegittimità costituzionale di legge che viene trasmessa all’esame  della Corte Costituzionale quando detta eccezione non sia manifestamente  infondata.  
        Ma,  a differenza dell’argomento in diritto che può essere opinabile, il fatto della  vita esiste o non esiste, se esiste si “manifesta”, se non esiste  (insussistenza) è difficile possa manifestarsi. 
        In  realtà l’aggettivo serve a evitare o a rendere difficilissima al giudice  investito della controversia l’indagine sulla realtà dei fatti, a negargli la  possibilità di conoscere la reale inesistenza del motivo economico addotto. A  motivo economico inesistente corrisponderà sempre, come unica sanzione del  licenziamento illegittimo, una modesta monetizzazione. Rimosso l’architrave  della stabilità reale nel posto di lavoro, ogni altro diritto nel rapporto  verrà meno perché per timore non sarà rivendicato. Inoltre, la legge  processuale fino ad oggi prevede   esplicitamente che l’onere della prova sia a carico di chi licenzia, la  riforma governativa nulla dice, lasciando la porta aperta al sovvertimento  anche di questo principio di civiltà.  
              E’  passato, quindi, il concetto che per dare diritti ai giovani in cerca di lavoro  bisogna toglierli a chi già lavora. Quando otterranno un lavoro, i nuovi  assunti  ne saranno a loro volta privi.  
              A  questo punto il quesito è: gli inoccupati otterranno un lavoro in seguito a  questa riforma? Temo proprio di no. Infatti, non è stata minimamente disboscata  la selva dei contratti “atipici”, ben quarantasei, per cui l’Italia primeggia  in Europa nella classifica negativa della maggiore  flessibilità. Con l’aggravante della più  totale privazione di misure di reddito minimo garantito, malgrado gli inviti ad  adeguarsi agli altri Paesi dell’UE che vengono ripetuti fin dal 1992 dalle  istituzioni  europee (da ultimo,  timidamente, perfino dalla BCE) e regolarmente disattesi. Anche la previsione  di un aumento di carico fiscale per i contratti a termine e a progetto, se mai  resterà nel testo, rischia di essere posta a carico dei precari e non di chi li  impiega. 
        Per  le donne, presenza maggioritaria nella schiera di disoccupati/inoccupati, la  progettata controriforma offre un bottino assai magro: unica previsione  significativa è il ripristino della norma a contrasto delle dimissioni in  bianco, imposte soprattutto a loro come condizione per l’assunzione.  
        La  pratica, peraltro, è fulminata di nullità dal codice civile per vizio della  volontà e riguarda, comunque, chi un contratto di lavoro lo ha in qualche modo  conseguito. 
        Come  è stato detto (C. Guglielmi, Bin Italia), il diritto del lavoro del XXI secolo  dovrebbe consentire l’affermazione del libero progetto esistenziale di ognuna/o  attraverso una previsione forte e generalizzata di diritti giustiziabili, un  livello minimo di retribuzione per tutti i lavoratori subordinati e autonomi in  situazione di dipendenza socio economica e un forte e generalizzato basic  income. 
              A tal fine si potrebbe rilanciare l’iniziativa di  alcune femministe francesi volta a ottenere da Commissione e Parlamento europei  un regolamento obbligatorio per tutti gli Stati membri che imponga l’estensione  in ognuno di essi del corpus normativo più favorevole in ogni campo sociale e  politico, primi i diritti del lavoro.  
        In particolare, si potrebbe rafforzare la  richiesta di introduzione anche in Italia di un reddito di base universale e  incondizionato, nell’ottica di garantire eguaglianza e dignità alle persone,  specialmente alle donne, prime a rischio di progressivo impoverimento causato  dalla crisi perdurante. 
      Provvidenza che trova aggancio normativo nell’art. 38  della nostra Costituzione e nell’art. 34 della Carta dei Diritti dell’Unione  europea e che potrebbe conseguirsi attivando il diritto di petizione dei  cittadini, previsto dal Trattato di Lisbona che è concretamente operante, in  base al regolamento, dal mese di aprile 2012.  
        
      15-04-2012 
        
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