Seminario ‘Il corpo e la pòlis. Il protagonismo del corpo nello spazio pubblico
Primo incontro

Il corpo, la legge, le pratiche politiche:
dall’inviolabilità all’appropriazione del corpo


Relazione di Maria Grazia Campari



Il concetto di inviolabiltà e quello antitetico di appropriazione del corpo trovano riscontro nei variabili precetti delle leggi, nelle garanzie previste (o non) dagli ordinamenti giuridici.

Quanto al concetto di inviolabilità, che si può considerare all’origine degli ordinamenti democratici, esso viene tradotto nel principio di habeas corpus, espressione primaria di un diritto di libertà che è fondamento della comune umanità.

In tempi recenti, alcuni giuristi democratici ne hanno denunciato un possibile attentato attraverso l’utilizzo di determinati ritrovati scientifici.
Si osserva (S. Rodotà “Il diritto e la dignità” la Repubblica 1.10.2008) che è in atto una mutazione dell’uomo che conduce ad una sorta di costruzione artificiale del corpo: il braccialetto al piede del detenuto sotto sorveglianza, il computer al polso dei lavoratori per il controllo a distanza dell’imprenditore, il microchip sotto pelle, possono facilmente condurre alla mutazione della persona in oggetto continuamente controllabile.

Gli strumenti del diritto sono chiamati in causa per la salvaguardia del limite della dignità umana riflessa in ciascun individuo.
Argomento ineccepibile, ma da articolare più precisamente, tenendo conto della diversa esperienza esistenziale dei due sessi.

Innanzi tutto si rileva che il diritto di habeas corpus, nella duplice significato di assenza di costrizioni (libertà negativa) e di possibiltà di autodeterminarsi (libertà positiva) viene interpretato dall’ordine giuridico patriarcale (vigente da secoli) secondo principi connotati dalla valenza proprietaria dell’avere.

L’ordine impresso dal diritto alle esistenze umane non ha previsto per le donne la libertà riproduttiva. Infatti, il diritto di libertà iscritto nelle Dichiarazioni universali, nelle Carte costituzionali e nei Trattati, non garantisce efficacemente l’autodeterminazione femminile.

Contro l’habeas corpus delle Costituzioni formali si erge il sovrastante vigore delle costituzioni materiali, che impongono la disponibilità del corpo femminile a determinazioni esterne e chi è impedito nell’autodeterminazione è oggetto posseduto dalla determinazione altrui.

Di qui, il ciclico ripresentarsi di normazioni che manifestano tendenze esplicite a disposizioni proprietarie sul corpo femminile, compiute come nella legge sulla procreazione medicalmente assistita, attraverso la enfatizzazione della metafora della vita cui viene attribuita una soggettività solo apparente, anzi mistificatoria, poiché il vivente non parlante, privo di capacità relazionale, è fatto oggetto di pensiero e volontà altrui, applicati in modo autoritario, nella falsa rappresentazione che ciò sia per il suo bene.

Una operazione dai connotati oscuri e dalla valenza ideologica assai chiara, che rende oggetto disponibile all’unica determinazione pienamente visibile sulla scena sociale, quella maschile, il soggetto femminile.

Una negazione di libertà positiva, quale si è venuta determinando nell’esperienza femminile, plasmata sul dato della generazione, nella relazione fra soggetti, nel riconoscimento dell’altro e nel rispetto delle esistenze in gioco.

All’origine della incongruenza apparente fra proclamazioni generali di diritti di libertà e norme particolari costrittive sta, a mio parere, la difficoltà della legge a contenere i corpi e a risolvere, con apposita regolamentazione, il conflitto di genere sulla riproduzione.

In particolare, alcune disposizioni sollecitano interrogativi su legge e corpo.
Si potrebbe sostenere che il corpus legislativo non preveda il corpo.

Il diritto appare complessivamente fondato sulla presupposizione di assenza dei corpi sessuati, formula regole astratte che compiono un percorso immediato dal soggetto pretesamente neutro e astratto, il legislatore, alla generalità dei soggetti regolati: la regola è generale, rivolta a chiunque, vale per tutti i consociati, comunque sessuati.

Apparentemente, il legislatore astrae dal suo corpo/mente maschile. In realtà, è la volontà che sorge dal suo corpo/mente maschile quella che conforma la regola e la donna è soggetto regolato. Non a caso un solo corpo è preso in considerazione e sottoposto a precetti costrittivi, quello femminile.

Le donne, fino agli anni settanta del secolo scorso, sono state oggetto di un apparato minuzioso di regole, a causa della loro speciale e asimmetrica capacità riproduttiva. Per loro, la sobrietà del legislatore nel disporre della relazione di ciascuno con il proprio corpo, non aveva corso.
Negli anni settanta, leggi di attuazione di principi costituzionali quali la parità fra i sessi e il diritto alla salute come bene individuale e interesse collettivo, hanno prodotto regole più sobrie per entrambi i sessi, quanto alla relazione di ciascuno con il proprio corpo, disposizioni più rispettose dei principi di autodeterminazione e autoresponsabilità.

In seguito, via via che la ricerca scientifica e la tecnologia hanno proposto soluzioni che inducono nuovi quesiti sulla relazione di ciascuno con il proprio materiale genetico, il legislatore ha assunto l’iniziativa nelle forme del controllo sul corpo femminile e della proibizione, che negano autonomia e responsabilità.

Mentre si allargano le frontiere delle possibilità e alcuni vincoli naturali appaiono superati, le nuove possibilità vengono sottoposte a nuove discipline fortemente costrittive.
Questo è, ad esempio, il senso complessivo della legge sulla procreazione medicalmente assistita che, ancora una volta, apparentemente, ignora i corpi, li ignora al punto di rendere soggetto chi ancora non possiede il corpo, il concepito.

Inoltre, questo apparato normativo, con le sue evidenti implicazioni, sembra mostrare in trasparenza un conflitto di genere sulla riproduzione, risolto attraverso divieti e sanzioni penali, una scelta contraria all’atteggiamento discorsivo e attento alle ragioni altrui, aliena dal tentativo di sperimentare tutte le mediazioni possibili, che sono il tessuto connettivo della democrazia partecipata.

In questa materia pare, quindi, opportuno dare ampio riconoscimento al concetto per cui alcuni diritti che si richiamano al fondamentale principio della libertà attiva individuale sono indecidibili dal legislatore, salvo che non si intenda imporre una dogmatica etica di Stato, in antitesi all’etica laica conformata su di un modello pluralista e dialettico, aperto ad opinioni diversificate.

In particolare, per le donne sembra più che mai divenuto urgente contrastare il disegno di poteri sovraordinati di esercitare egemonia sul simbolico femminile, “contrastare l’universalismo della misoginia” (secondo la felice espressione di Judith Butler), mettendo a tema la creazione di un diverso ordine giuridico che registri la loro soggettività, ponendo fine alla eteronomia.

In questa ottica è certamente importante rivendicare l’autonomia del proprio corpo, estendere al massimo tutte le libertà.
Occorre però considerare che “io rivendico autonomia decisionale sul mio corpo, ma non posso dimenticare che esso è inserito in un contesto sociale, esso è socialmente strutturato nella sfera pubblica, porta in sè le tracce degli altri” (J Butler “La violenza e la politica”).
Quindi “essenzialmente per il nostro bene, le forme dominanti di rappresentazione debbono essere infrante in uno spazio pubblico in grado di aprirsi ad un dibattito libero da intimidazioni e censure, affinchè qualcosa che ha a che fare con la precarietà delle vite abbia agio di esprimersi e possa essere compreso” (J Butler, ivi).

E’ un problema culturale e politico-istituzionale, concerne la elaborazione di valori di riferimento e la messa in pratica di azioni di modificazione in base all’idea che si possa agire collettivamente, muovendosi in forma coerente ed efficace per la propria liberazione, che la storia possa registrare finalmente una prassi trasformatrice all’altezza del nostro bisogno di libertà, che ci renda capaci di agire come soggetto collettivo.
Un primo passo necessario mi sembra quello di squarciare il velo della ideologia patriarcale che, attraverso la finzione della democrazia universale, occulta la emarginazione della metà dell’umanità dai luoghi del potere decisionale.

Considero la questione di importanza cruciale poichè vedo nella preclusione rispetto ai livelli decisionali nella polis, la realizzazione di una menzogna politica: una storia scritta per tutti e anche in nostro nome dal soggetto maschile, che nega lo spazio pubblico quale mezzo al fine della negazione dell’altra e del diverso, una attitudine a dominare dall’interno ogni aspetto della vita di soggetti considerati subalterni, una cancellazione di identitàfemminile.

Ciò che si pone anche in larga misura quale ostacolo alla capacità di pensiero.
Infatti, come osserva H. Arendt (“Verità e politica”), l’unica garanzia di funzionamento della mente umana sta nel fatto di poter fare un uso pubblico dei propri pensieri, scambiandoli con altri che comunicano i loro.
Ogni ostacolo all’uso pubblico del pensiero (che non coincide con la pura e semplice libertà di espressione priva di conseguenze operative, vox clamans in deserto) significa sottoposizione a tutela per chi ne è impedito e chi si trova sotto tutela è incapace di usare la propria mente senza la guida di qualcun altro.

Dunque, la insufficienza di presenza pubblica politicamente efficace, insufficienza che fa ostacolo al pensiero autonomo, può essere indicata come un motivo (e non il meno importante) di insignificanza della pratica e della cultura femminista, in un momento come quello attuale, che invece si potrebbe avantaggiare della sua valorizzazione.

La situazione di stallo richiede, secondo me, un doppio movimento
Il primo movimento consiste nella creazione e valorizzazione di associazioni tematiche e organismi di base aggregati su obiettivi partecipativi, comitati ambientalisti e di scopo.

Molte donne sono presenti e spesso animano gli organismi associativi di base, vi mettono in gioco esperienze e conoscenze preziose.
In particolare, molte partecipanti si sono dimostrate in grado di esprimere liberamente bisogni e aspettative che chiedevano di vedere soddisfatte e riconosciute da altri. Hanno trovato forme di autorganizzazione, curando che tutti potessero avere voce e ascolto allo stesso modo, forse perché storicamente meno fissate nella pretesa di imporre ad altri omogeneità rispetto al proprio disegno di società

La partecipazione femminile può realizzarsi in questi organismi con maggiore facilità, compiendo passi significativi verso la riarticolazione degli interessi che si esprimono nella sfera pubblica, per la verifica dei valori che si vogliono introdurre nella società.
Una modalità interessante (che considero essenziale) è quella che riesce ad intrecciare una pratica politica in queste associazioni con la cura di preservare luoghi del pensare fra donne, dell’analizzare in presenza i vissuti socialmente contestualizzati, secondo un metodo che, nell’esperienza femminista, ha prodotto pensiero originale, elemento quanto mai prezioso per ridare qualità alla civiltà in cui viviamo.

Il secondo e contemporaneo movimento riguarda la presa in carico del livello istituzionale, la elaborazione di cultura, la assunzione di responsabilità rispetto ai livelli decisionali alti nella polis.
In questa direzione si colloca certamente la pretesa di partecizione alla formazione delle regole che strutturano il vivere associato, l’uscita dalla eteronomia contemporaneamente promuovendo una lotta per i diritti di tipo transnazionale.

Il senso è quello di iniziare a modificare l’ordine giuridico dato, eteronormante per le donne, operando vuoti, mutando il senso di alcune o molte regole esistenti attraverso l’inserimento di valori creati nelle relazioni fra donne riconosciute come dotate di rilevanza sociale e politica, creando regole che siano originate da desideri e interessi femminili. Scelte metagiuridiche capaci di produrre norme che siano frutto di confronto e mediazione fra principi originati nel confronto fra soggetti diversamente sessuati, consapevoli della loro parzialità.

Poiché tutto esiste in natura e, in qualche modo, anche negli ordinamenti giuridici, il nuovo si crea consumando e riarticolando il vecchio: è qui che entra in gioco una lotta per i diritti a carattere transnazionale.

Nell’ambito dell’Unione europea, le femministe italiane potrebbero sostenere la campagna promossa dalle francesi di “Choisir la cause des femmes” tesa ad ottenere il riconoscimento e l’armonizzazione verso l’alto  delle leggi nazionali, attraverso la ricognizione e l’applicazione generalizzata della clausola più favorevole ai diritti delle donne.

Si tratterebbe di costituire un corpo di leggi da applicarsi in ogni Stato membro attraverso regolamenti comunitari, in linea con il programma 2006-2010 per l’uguaglianza fra uomini e donne adottato dalla Commissione.
La prima regola generale, estrinsecazione dell’habeas corpus, dovrebbe essere quella che estende in tutti gli Stati dell’Unione il diritto insindacabile delle donne di scegliere se ed in qual modo dare la vita.

Il complesso normativo si presenta assai articolato, tocca vari aspetti dell’esperienza esistenziale femminile. In particolare, il tema dell’inviolabilità del corpo/mente delle donne compare diffusamente nella legislazione vigente in Spagna, paese cattolico come il nostro, ma che, tradizionalmente, ha mostrato grande considerazione verso la libertà procreativa femminile e notevole capacità di miglioramenti legislativi riferiti agli esiti delle innovazioni scientifiche. Ciò, indipendentemente dal colore politico dei governi in carica.

Vi è un ulteriore motivo per caldeggiare una agenda di diritti agganciati alla appartenenza alla Unione europea: il valore della laicità contro un uso retrogrado delle credenze religiose, volte a creare dipendenza soprattutto a carico delle donne, con la pericolosa tendenza a trasferire il dogma religioso nelle leggi dello Stato.

Nell’Unione europea, la laicità è stata considerata valore implicito indiscusso e condiviso.
La questione è stata affrontata esplicitamente in conclusione dei lavori della Carta dei diritti fondamentali: in quella occasione sono state respinte le pretese di inserire nel Preambolo il richiamo alle radici religiose della cultura europea e di limitare alcuni diritti in nome della visione cattolica della società.

Seguendo il pensiero del giurista S. Rodotà, possiamo concludere osservando che in un mondo globalizzato, retto da poteri economici transnazionali spesso feroci, aggrapparsi ai diritti, avanzare la pretesa alla generalizzazione delle loro espressioni più avanzate in termini di garanzie, come proclamate in Dichiarazioni universali, Costituzioni, Carte, Trattati, leggi nazionali, significa imboccare una via che consente misure di giustizia evolutiva per i soggetti tenuti a distanza rispetto ai luoghi del potere decisionale. Significa collocare affermazioni di libertà individuale in un ottica che vede profilarsi all’orizzonte la ricostituzione di forme e contenuti di democrazia partecipata plurisessuata, oggi quasi completamente cancellata attraverso misure di totalitarismo patriarcale egocentrico, che sembra perseguire il fine di segregare l’altra in una periferia di umanità del tutto irrilevante.

11-11-2008

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