Diritto di famiglia: donne nelle spire dell’ordine patriarcale?

di Maria Grazia Campari

 



Giunge dall’associazione femminista afgana RAWA una riflessione sulla recente proposta di legge che autorizza gli abusi sessuali compiuti dal marito sulla moglie in nome di una pretesa tradizione del Codice di famiglia sciita.

La disposizione è considerata quale legittimazione di una pratica ampiamente diffusa che trova il suo antecedente logico nel Trattato di riconciliazione nazionale stipulato dal governo Karzai con esponenti talibani e fondamentalisti, avallato dalle potenze occupanti, USA in testa.
La legge è attualmente sospesa, anche a causa delle reazioni internazionali, ma RAWA ritiene che verrà ripresa dal Parlamento di prossima elezione, che, prevedibilmente, vedrà un’ampia presenza di signori della guerra e di esponenti pro-talibani, essendo le potenze occupanti più interessate ad assicurare a sé il gas dell’Asia centrale che non ad assicurare la democrazia agli afgani.

Di qui la richiesta di mobilitazioni che contrastino i gruppi misogini e fondamentalisti.
Una causa giusta, da sostenere nell’interesse di una democrazia partecipata e plurale, unica forma di democrazia effettiva, quella escludente, comunque camuffata, dovendosi, al contrario, ritenere espressione di un ordine oligarchico, spesso connotato da misoginia.

Un ordine strutturato sulla diseguaglianza biologicamente motivata, coerente al sistema patriarcale, che ha gravato a lungo, sia pure con pesi differenziati, anche sulle donne italiane.
La Carta Costituzionale lo smentiva formalmente nei suoi principi fondamentali (art. 2 e art. 3) fin dal 1948, ma molta acqua doveva passare sotto i ponti.

Le previsioni del Codice Civile Mussolini-Grandi del 1942 (art.143 e seguenti) e quelle del Codice Penale Mussolini-Rocco del 1938 (art. 570 e seguenti) sancivano una struttura famigliare fortemente gerarchica, una moglie soggetta alle decisioni e ai voleri del marito, (insignito di “potestà maritale”), sottoposta ai di lui “mezzi di correzione o di disciplina” morali e materiali, fino a lambire il limite estremo del maltrattamento. Gli abusi erano, poi, sanzionati assai lievemente: con pena fino a sei mesi e, in caso di lesioni, con pena ridotta di un terzo rispetto alla normale previsione edittale.

Un’ottica proprietaria e subalterna della donna che consentiva una serie di abusi, non ultimo quello di natura sessuale, presentato come “debito coniugale”, nell’ambito di una concezione assai unilaterale della morale famigliare e del dovere di assistenza imposti per legge.
Si è dovuta attendere la metà degli anni settanta e la riforma del diritto di famiglia (L:19.5.1975 n.151) per dare corso a principi costituzionali (art. 29 e 30 Cost.) di parità fra i coniugi e fra figli legittimi e illegittimi (nati fuori del matrimonio), per l’abolizione della patria potestà, sostituita dalla potestà di entrambi i genitori.

Solo in epoca ancora più recente, con la legge del febbraio 1996 (art. 609 bis e seguenti Cod. Pen.), il reato di stupro è stato rimosso dal titolo del Codice Penale dedicato ai “delitti contro la moralità pubblica e il buon costume”, l’incesto non più crimine contro la “morale famigliare” ma entrambi crimini contro la persona, lesivi della libera disposizione di sé e della autodeteminazione sessuale.

Una lenta e non uniforme evoluzione giurisprudenziale ha preso avvio dall’art. 2 della Costituzione repubblicana ed è giunta ad inquadrare la sessualità quale modo di espressione della personalità, da tutelarsi come diritto inviolabile della persona.
Secondo le pronunce più illuminate della Corte di Cassazione la lesione del diritto alla sessualtà determina per la vittima un danno da ingiustizia le cui conseguenze pregiudizievoli devono essere accertate e quantificate in termini di risarcimento del danno materiale, morale e alla vita di relazione (esistenziale).

Inoltre, la giurisprudenza ormai prevalente considera che la violenza sessuale possa avvenire anche fra marito e moglie, non essendo coperta da quello che tradizionalmente si definiva come “debito coniugale”. Non solo l’assenso al rapporto deve essere esplicito, non viziato o estorto con minacce, ma deve considerarsi sempre revocabile anche in relazione alla  tipologia del rapporto stesso, per come viene determinandosi.

In caso di imposizioni, specialmente se ripetute, alla moglie è stato riconosciuto titolo a richiedere la separazione con addebito al marito e anche il danno esistenziale per gli effetti dannosi subiti nella propria vita quotidiana di persona offesa, sottoposta a patimenti fisici e psichici che hanno impedito lo svolgimento di una vita coniugale serena e informata al principio dell’amore e del rispetto reciproco.

Può esserci “Un Giudice a Berlino”, ma va ricercato e sollecitato attentamente, senza timidezze, sostenute dal rispetto di sé.

 

12-04-2009

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