Se le donne si rifiutassero di servire 
       
        di Maria Grazia Campari 
        
        Barbara Kruger 
       
        Il tempo presente propone un  problema ineludibile: se la nostra vita debba essere governata dalle pretese  della globalizzazione economica, oppure se sia possibile contrastarne le  ingiuste pretese e in qual modo. Un minimo senso di giustizia suggerisce di  contrastare il fondamentalismo del mercato globale che provoca guasti  gravissimi e crea rovine (politiche, sociali, ambientali) per l’umanità. 
         
        Rosa Luxemburg immaginava un  capitalismo che moriva per mancanza di cibo, avendo divorato l’ultimo prato di  casa altrui, sul quale pascolava (esito finale di una politica di rapina). Oggi  si assiste alla conquista di avamposti da parte del mercato capitalistico, ciò  che aggiunge milioni di individui alla massa di donne e uomini privati delle  loro terre e reti di sicurezza sociale. La modernità produce rifiuti umani non  smaltibili che in Europa e particolarmente in Italia si tenta di arginare  usando come clava la giustizia penale discriminatoria (reato di clandestinità),  quando non la pena di morte attraverso i “respingimenti”, diffondendo sul  territorio politiche securitarie e coltivando l’ideologia del successo  individuale a scapito del collettivo. Questa ideologia prende di mira la  solidarietà, nega il principio di una comune responsabilità per il benessere  sociale, crea un mondo di consumatori che conducono una vita giocata sulla  ricerca individuale del massimo di soddisfazione e successo personale,  imponendo una pratica esistenziale conformata su di una concorrenza spietata  fra individui, in gara per i primati che rendono la vita degna di riconoscimento  e rispetto. 
        Negli ultimi venti anni si è  costantemente scivolati da un modello di società inclusiva basata sullo Stato  sociale a uno Stato giudiziario basato sul controllo penale e sulla esclusione  di fasce sempre più ampie di popolazione anche nei paesi del cosiddetto primo  mondo. 
         
        Dal crollo del muro di Berlino, la  politica ha perso il controllo dell’economia e della finanza e i cittadini consumatori  sono indotti a vivere in un mondo fantasticato come il migliore possibile,  mentre in realtà vivono in pieno marasma economico di cui fanno le spese.  
        La situazione materiale trova  riscontri precisi a livello sovrastrutturale, nella legislazione che governa i  rapporti di produzione in Europa e in Italia. Nel gennaio 2004 la   Commissione europea ha approvato la direttiva Bolkestein che fornisce il quadro  giuridico per eliminare “vincoli alla competitività” e ostacoli alla “libera  circolazione dei servizi e dei prestatori” negli Stati membri dell’Unione. Essa  si riferisce a qualunque attività mediante la quale un lavoratore partecipa  alla vita economica, indipendentemente dal fatto che i servizi siano retribuiti  o gratuiti. I principi su cui si fonda sono quelli di favorire la competizione  fra imprese e anche fra Stati ponendo i prestatori di lavoro in competizione  fra loro e sfornendoli di protezioni legali minime: un’impresa può assumere  lavoratori in Paesi ove le protezioni sociali sono minime per poi trasferirli  là dove leggi e contratti forniscono ai residenti garanzie economiche e  normative superiori, ai trasferiti si applicherà la legislazione minima del  luogo di provenienza, a tutto vantaggio dell’impresa. Un vero e proprio caporalato  che produce una concorrenza al ribasso fra lavoratori (social dumping). 
         
        Questa direttiva, marginalmente  corretta dal Parlamento europeo, si inserisce in un disegno di modernizzazione  del diritto del lavoro basato su principi che privilegiano la flessibilità in  entrata e in uscita dal posto di lavoro, a scapito delle garanzie di stabilità  Una flessibilità che si è tradotta, nei fatti, in forte crescita della  precarietà ovunque in Europa ma particolarmente in Italia anche per la mancanza  di un sistema di protezione adeguato e generalizzato contro la disoccupazione.  Secondo dati Eurostat il rischio di povertà è coperto per il 20% della  popolazione nella media europea, per il 17% in Italia contro il 60% in Svezia e  il 50% in Francia. La situazione femminile risente di una penalizzazione  superiore sia in termini di accesso e permanenza al lavoro sia in termini  retributivi. L’occupazione delle donne è solo pari al 46% contro una media  europea del 55%, le retribuzioni a parità di professionalità sono inferiori in  misura variabile fino al 20% a seconda dell’inquadramento rispetto a quelle  maschili, inoltre le donne rappresentano l’80% del totale degli impiegati part  time e sono conseguentemente sottopagate. Indagini statistiche svolte dalle  Nazioni Unite sulle attività umane mostrano che nella distribuzione del lavoro  totale quello femminile presenta un terzo di lavoro pagato e due terzi non  pagato, quello maschile è per i tre quarti pagato e per un quarto non pagato.  Lo svantaggio sociale delle donne va attribuito al lavoro di cura. La  flessibilità richiesta dagli assetti produttivi ha come conseguenza che non sia  il lavoro ad alimentare le vite degli individui, ma che siano le vite stesse ad essere messe al lavoro. Lavoro e vita si intrecciano, la vita  entra nel lavoro ed è quest’ultimo che impone le sue logiche costrittive. 
         
        Occorre liberare le vite attraverso  un esercizio di pensiero critico. Principalmente occorre comprendere che la  forte egemonia dell’economico produce un patto sociale al ribasso attraverso il  dato circolare welfare-famiglia, che per le donne implica un minus di  libertà e autodeterminazione.   
        Se il capitalismo attuale mette al  lavoro le vite, erodendo spazi di autonomia e autorganizzazione, occorre  individuare una prospettiva che tenga insieme nella stessa immagine il processo  di produzione di merci e quello di riproduzione sociale della popolazione: le  condizioni del vivere e quelle del produrre, quindi il lavoro totale, pagato e  non pagato. E’ l’insegnamento delle economiste femministe: occorre prendere in  esame il quadro complessivo, nella sua complessità, nelle relazioni e nei conflitti  fra soggetti dotati di corpo e mente diversamente sessuati. Si arriverà allora  a comprendere la mistificazione utilizzata per rinchiudere le donne in una “femminilità”  subalterna e sacrificale, adattativa rispetto ai valori patriarcali. Questo  approccio apre spazi per collocare la massa del lavoro domestico e di cura non  pagato al centro della problematica economica e il processo di nascere, vivere,  morire al centro del conflitto tra riproduzione sociale e produzione di merci,  tra profitto e salario. Un conflitto radicato nella struttura stessa del  mercato del lavoro, occultato dalla figura del lavoratore “normale”, maschio  adulto, attraverso il disinvolto utilizzo del lavoro gratuito delle donne. Lo  dicono i dati statistici: le attività di cura e domestiche contribuiscono alla  sostenibilità del sistema e alla ricchezza della nazione, mentre indeboliscono  la posizione delle donne, preda di un circolo vizioso creato dalla divisione  sessista del lavoro. Di qui le pesanti ricadute negative per la parte femminile  dell’umanità che rendono indispensabile rompere i nessi fra egemonia del  mercato e politiche familistiche (uomo individualista economicamente  indipendente, donna dipendente al servizio della famiglia) alle quali fa  seguito la diffusione di valori morali e giuridici che implicano una negazione  di libertà in primo luogo per le donne, poi per tutti, per la indivisibilità di  questo valore. Ne scaturisce l’ordine dell’avere, del possesso  che prevede la disponibilità del corpo/mente dei soggetti posti in situazione  di subalternità, soggetti etero diretti, definiti avventizi e multifunzionali,  che esercitano la propria provvisorietà in molti campi, assorbiti nelle loro  energie dai bisogni della sopravvivenza economica, privi di tempo per attività  sociali e politiche. La fugacità dell’esperienza lavorativa imbozzolisce, crea  comportamenti mimetici, isola nell’individualismo. Contemporaneamente,  attraverso molteplici privatizzazioni dei servizi, è venuta meno la garanzia  dello Stato sociale, con grave pregiudizio di fondamentali diritti quali quello  alla salute, alla istruzione, all’equo salario. Complessivamente viene meno la  promessa fondamentale dell’art. 3 della Costituzione che garantisce a tutti il  pieno sviluppo della persona e la partecipazione effettiva all’organizzazione  politica, economica, sociale del Paese.  
         
        La rottura del quadro garantista  riguarda in particolare le donne, dotate di cittadinanza incompiuta anche per  la loro deteriore partecipazione a ogni spazio sociale, compreso quello del  lavoro. Non sanano l’ingiustizia, ma tendono e perpetuarla le teorizzazioni che  valorizzano l’esistente o ne propongono alcuni aggiustamenti attraverso un  sistema detto conciliativo che  consentirebbe alle donne la doppia scelta del lavoro e della maternità,  concetto in cui è inserito, sottaciuto, tutto il lavoro riproduttivo domestico  e di cura famigliare, considerato appendice normale. Situazione che, per di più,  enfatizza le funzioni femminili, prolungandone l’efficacia anche nella  prestazione lavorativa: dalla cura gratuita dell’organismo famigliare alla cura  sempre gratuita di quello aziendale. 
         
        Nell’analisi dell’esistente occorre  sempre prioritariamente considerare che l’apparato regolatore delle relazioni  sociali e politiche, saldamente in mani maschili, non si lascia modificare  facilmente, non registra la parzialità dei soggetti, afferma (per fatti  concludenti) l’unicità del soggetto maschile che acquisisce l’esistenza dell’altro  solo come parte assimilata di sé. Ne consegue, in special modo sul terreno  della politica, una notevole mancanza di apertura rispetto alla presa di parola  delle donne, una limitazione della capacità di ascolto e di interlocuzione, una  sottovalutazione dell’esperienza e della cultura femminista, un’adesione poco  lungimirante a regole elaborate nell’assenza dell’altra, parlando anche in suo  nome e conto. Penso, invece, che democrazia sia un concetto che implica la  pratica di partecipazione ai processi decisionali che governano la vita di  ognuno. Questa pratica inizia con l’eliminazione dello spazio di illibertà  materiale ed emotiva delle donne nel privato, ciò che significa eliminare  l’interiorizzazzione di una cittadinanza di seconda classe che le spinge verso  scelte adattative, conformi ai modelli tradizionalmente imposti. Questa  modalità può concorrere a produrre una ridefinizione dell’entrare in politica,  a partire dal fatto che per molte donne il privato cessi di essere la sfera  della privazione. Se le donne cessano di servire (in via quasi esclusiva) le  necessità del privato, l’assoluta libertà maschile rispetto ai vincoli  materiali viene meno, con ricadute positive sulla regola costitutiva e  organizzativa della politica. Le fila del ragionamento sono strettamente  collegate: la fine della irresponsabilità maschile rispetto al privato può concorrere a determinare  la fine del monopolio maschile rispetto alla cosa pubblica e la della (conseguente?) irresponsabilità  femminile. 
        
      pubblicato anche su Gli altri del 1 ottobre 2010  
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