Stati Generali della Sinistra

Milano 1 dicembre 2007

Intervento di Maria Grazia Campari

 
 

In questa fase, la posta in gioco è principalmente quella che decide del governo delle nostre vite: se esso sia delegato alle pretese della globalizzazione economica oppure se sia possibile contrastarne le ingiuste pretese e in qual modo.

La sinistra ha certamente fra i suoi impegni primari quello di cambiare l’agenda imposta dal fondamentalismo mercantile. A questo scopo, l’indicazione che ci sentiamo di proporre alla discussione è quella di utilizzare anche (forse prioritariamente) il punto di vista del femminismo, un doppio sguardo che si esercita sul quadro di insieme e che, per il fatto di esserci, tende a modificarne gli assetti.

Il pensiero critico di sinistra, almeno il più avvertito, rileva che, a causa della flessibilità richiesta dagli assetti produttivi, non è il lavoro che alimenta le vite degli individui, ma sono le vite stesse ad essere messe al lavoro.

Lavoro e vita, oggi, tendono ad intrecciarsi, la vita entra nel lavoro, ma non sono le sue capacità relazionali a trasformare positivamente il lavoro, poiché è quest’ultimo che impone le sue logiche costrittive.

Nella forma attuale del capitalismo, per la concentrazione del potere nelle direzioni di impresa, le vite personali sono meno libere, il tempo della vita è continuamente invaso, costretto dal tempo del lavoro, nella tendenziale confusione dei due campi.

Il lavoro afferra la vita. Di qui il carattere centrale di questo argomento per chi è disposto a confliggere per la libertà (dal bisogno, dalla sottomissione, dalle paure indotte), esercitando un pensiero critico. Ma il pensiero critico è realmente tale solo se compie uno sforzo di aderenza all’esperienza umana dei soggetti sessuati, donne e uomini, solo se si incarna nelle loro vite differenti. Solo se comprende che, attualmente, la forte egemonia dell’economico produce un patto sociale al ribasso che si manifesta particolarmente nel dato circolare welfare-famiglia (utilizzando lo snodo della privatizzazione), che per le donne implica un minus di libertà e autodeterminazione.  

Se il capitalismo attuale mette al lavoro le vite, erodendo spazi di autonomia e autorganizzazione, occorre individuare una prospettiva che tenga insieme nella stessa immagine il processo di produzione di merci e quello di riproduzione sociale della popolazione: le condizioni del vivere e quelle del produrre, quindi il lavoro totale, pagato e non pagato .

Le economiste femministe ci hanno insegnato a prendere in esame il quadro complessivo, nella sua realistica complessità, ciò che consente di leggere la situazione attuale, le relazioni e i conflitti fra soggetti dotati di corpo, sessuati, in grado di riflettere su di sé e sulla società. Non pure e semplici vite, abbandonate al rischio di una serialità muta.

Questo esercizio di verità aiuta a svelare aspetti nascosti o mistificati della realtà, usati per rinchiudere le donne in una “femminilità” subalterna e sacrificale, adattativa rispetto ai valori patriarcali. Apre spazi per collocare la massa del lavoro domestico e di cura non pagato al centro della problematica economica e il processo di nascere, vivere, e morire al centro del conflitto tra riproduzione sociale e produzione di merci, tra profitto e salario. I soggetti che agiscono i conflitti sono connotati anche per sesso e generazione.

E’ bene sottolinearlo: i soggetti di riferimento della produzione non sono solo i maschi adulti, usati come norma e liberati del corpo e del ciclo di vita, ma donne e uomini, giovani e vecchi, salariati e non salariati, che vivono effettivamente in un tempo e spazio specifico.

Questo doppio livello può spiegare le tensioni dell’intreccio fra condizioni di vita e di lavoro, tra lavoro pagato e non pagato, tra interiorizzazione di responsabilità riproduttive e costrizioni produttive.

Nel caso delle donne queste tensioni sono pienamente visibili, ma non si tratta di questione femminile, il conflitto è radicato nella struttura del mercato del lavoro e la figura del lavoratore “normale”, maschio adulto, può nasconderlo solo scaricandolo sul lavoro non pagato delle donne. (A. Picchio)

In effetti, anche i dati statistici ormai chiariscono che attività di cura e lavoro domestico non pagato costituiscono una stampella importante per la sostenibilità del sistema, contribuiscono alla ricchezza della nazione, mentre indeboliscono la posizione delle donne: la suddivisione gerarchica del lavoro casalingo viene perpetuata nel mercato occupazionale, è il risultato di un sistema che crea un circolo vizioso per le donne.

Le donne che non sono escluse si trovano in situazione deteriore, a causa del loro compito fondamentale di riproduzione sociale (vedi anche l’art. 37 della nostra Costituzione).

Di qui la ben nota femminilizzazione della povertà in tutti i luoghi del pianeta, la situazione italiana essendo, a sua volta, assai sconfortante.

Di qui altre pesanti ricadute negative che rendono indispensabile rompere i nessi fra egemonia del mercato e politiche familistiche (uomo individualista economicamente indipendente, donna dipendente al servizio della famiglia) alle quali fa seguito la diffusione di valori morali e giuridici di stampo fondamentalista, implicanti una negazione di libertà in primo luogo per le donne, poi per tutti, per la indivisibilità di questo valore.

Viene così istituito l’ordine dell’avere, del possesso che prevede la disponibilità del corpo/mente dei soggetti posti in situazione di subalternità, soggetti privi di reale autonomia, eterodiretti.

Questo ordine determina il prevalere del soggetto unico maschile in relazione mercificata con gli oggetti acquisibili per sé, determina la negazione di una relazione fra soggetti dotati di pari dignità, svalorizza l’autonomia e l’autodeterminazione delle donne, nega loro fondamentali diritti della personalità, come avviene con la legge sulla procreazione medicalmente assistita, autentica spina irritativa conficcata nel nostro ordine costituzionale e nel corpo femminile costretto nei divieti, ovvero con le ricorrenti incursioni anche istituzionali contro la legge sull’aborto.

Si richiamano valori indisponibili (religiosi) per negare l’autogoverno (laico) delle vite e avvolgere tutte/i in una rete intessuta di nodi antidemocratici funzionali ad un regime capitalistico-patriarcale.

Risulta chiaro come questo ordine comporti precise ricadute sull’integrità e sulla vita stessa delle donne: dai gesti quotidiani di disvalore, alla inesistenza di autonomia decisionale sul proprio corpo (sancita da leggi e regolamenti), alla persecuzione con violenza, fino all’uccisione di chi ha scelto di reggere il filo della propria vita con le proprie mani, senza affidarsi a ruoli imposti dalla tradizione e dalla cultura maschile.

La violenza ha luogo prevalentemente fra le mura domestiche, fra famigliari, ma non riguarda la sfera privata, non è un problema solo per le donne.
E’ il simbolo più esplicito e brutale della discriminazione sessista della società capitalistico-patriarcale in cui viviamo. Rappresenta in modo paradigmatico la violazione della nostra Costituzione, poiché viola il diritto alla libertà e persino alla vita della metà del genere umano.

E’ stato dichiarato dalla IV Conferenza mondiale delle nazioni Unite (nel lontano 1995), è stato più volte ripreso in raccomandazioni del Parlamento europeo, è attualmente oggetto di campagne della Commissione europea, costituisce il Preambolo della Legge spagnola contro la violenza sulle donne: le aggressioni subite dalle donne producono condizionamenti socio culturali che agiscono sul genere maschile e femminile poiché costituiscono esplicitazione di relazioni di potere storicamente diseguali in sfavore delle donne e in favore degli uomini.

Queste relazioni dispari fra i sessi hanno precise ricadute sui diritti di cittadinanza e sulla qualità della democrazia, producono la estraneità delle donne dalla sfera pubblica che esita nella insufficienza degli assetti democratici.
L’apparato regolatore delle relazioni sociali e politiche, saldamente in mani maschili, non si lascia modificare facilmente, non registra la parzialità dei soggetti, afferma (per fatti concludenti) l’unicità del soggetto maschile che acquisisce l’esistenza dell’altro solo come parte assimilata di sé.

Ne consegue, in special modo sul terreno della politica, una notevole mancanza di apertura rispetto alla presa di parola delle donne, una limitazione della capacità di ascolto e di interlocuzione maschile, una sottovalutazione dell’esperienza e della cultura femminista, un’adesione poco lungimirante a regole elaborate nell’assenza dell’altra, parlando anche in suo nome e conto.

Al contrario, riteniamo che democrazia sia un concetto che implica una pratica, quella di favorire libertà e possibilità reale di partecipazione per tutte/i, invitati a prendere parte ai processi decisionali che governano la vita di ognuno.

Per noi, la pratica della democrazia inizia con l’eliminazione dello spazio di illibertà materiale ed emotiva delle donne nel privato, ciò che significa eliminare l’interiorizzazzione di una cittadinanza di seconda classe che le spinge verso scelte adattative, conformi ai modelli tradizionalmente imposti, vissuti come espressione dei loro desideri.

Questa è una delle concorrenti modalità (e non la meno rilevante) per attuare una democrazia aperta al dialogo, un confronto incessante e un conflitto per la modificazione, nel legame sociale che conosce a sé e all’altra, agli altri, pari responsabilità per la vita collettiva.
Questa modalità potrà concorrere a produrre una ridefinizione dell’entrare in politica, a partire dal fatto che per molte donne il privato cessi di essere la sfera della privazione.

Se le donne cessano di servire (in via quasi esclusiva) le necessità del privato, l’assoluta libertà maschile rispetto ai vincoli materiali viene meno, con ricadute positive sulla regola costitutiva e organizzativa della politica (L. Gianformaggio).

Le fila del ragionamento sono strettamente collegate: la fine della irresponsabilità maschile rispetto al privato può concorrere a determinare la fine del monopolio maschile rispetto alla cosa pubblica.

Un percorso può iniziare ora dalla proposta di legge popolare per la democrazia paritaria formulata dall’UDI nazionale, sostenuta dalle assemblee di Usciamo dal Silenzio, che ha raccolto (pur nella cancellazione mediatica) centoventimila firme a sostegno.
Si tratta di dare attuazione agli artt. 3 e 51 della nostra Costituzione che prevedono sia l’eguaglianza, sia, in particolare, la possibilità di accesso a tutte le cariche pubbliche dei cittadini dell’uno e dell’altro sesso, impegnando la Repubblica a promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità fra donne e uomini.

Si tratta di ottemperare alle raccomandazioni del Comitato Europeo per l’eliminazione delle Discriminazioni contro le Donne che, da anni, sollecita l’Italia affinché adotti misure speciali per aumentare immediatamente il numero di donne impegnate in cariche politiche e pubbliche.
Sarà possibile, in tal modo, contribuire alla definizione della cittadinanza come plurisoggettiva, condivisa con l’altra/o, diversa/o rispetto al cittadino della tradizione borghese patriarcale.

Questo appare un fine degno di essere assunto da una sinistra plurale, attraverso l’uso di un metodo di lavoro collettivo che mette in gioco e valorizza gli apporti di pensiero, cultura, pratica politica di tutti i differenti soggetti che abitano questo territorio in questo tempo.

17/12/2007

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