Ipotesi per una rappresentanza allargata

Maria Grazia Campari

Alcune iniziative del governo Renzi mettono all’ordine del giorno la questione della rappresentanza. In primo luogo la proposta di legge elettorale, ma non è secondaria l’annunciata modifica della legislazione del lavoro (Jobs Act) giunta, forse non casualmente, in prossimità del (controverso) congresso nazionale del sindacato CGIL.
Queste, fra le tante questioni che sollecitano regole all’altezza delle sfide del presente.

Per propensione professionale e politica sono particolarmente interessata a esaminare il tema della rappresentanza sindacale da giocarsi nel problematico  contesto attuale, ulteriormente aggravato dalla proposta, calata dall’alto, di un complesso di misure palesemente destinate a incrementare la precarietà lavorativa ed esistenziale di milioni di persone-soprattutto donne- nella perdurante assenza di efficaci iniziative a contrasto da parte dei sindacati confederali.
Mai si era visto in passato un attacco tanto accanito e radicale alla classe lavoratrice senza un minimo accenno di lotta alla diseguaglianza.

Il motivo è probabilmente quello evidenziato dal presidente del CENSIS De Rita: i sindacati hanno perduto “il ruolo e la effettiva capacità di rappresentare….Il difetto principale è la non fedeltà alle radici della loro rappresentanza: gli interessi e l’identità….” (Affari&Finanza 24 marzo 2014).
La rappresentanza e le regole che la garantiscono sono problema risalente nel tempo.

Vorrei ricordare che alcune regole per una rappresentanza allargata e partecipativa nei luoghi di lavoro furono elaborate negli anni Novanta del secolo scorso, frutto di relazione e confronto fra lavoratrici e sindacaliste interessate al tema con giuriste esperte della materia.
Associazioni e partiti della sinistra avevano contribuito alla costituzione di vari Comitati per la Legge sulla Rappresentanza e la Democrazia nei luoghi di lavoro che interloquivano, attraverso alcuni parlamentari, con la Commissione Lavoro della Camera, impegnata nella redazione di un Testo Unico.
Era opinione diffusa che fosse tempo per il Parlamento di misurarsi finalmente nella sua qualità di legislatore con un problema cruciale trascinato per anni in un percorso accidentato, attraverso sentenze della Corte Costituzionale e referendum.

Ora possiamo misurare il ritardo in decenni.
Ero allora presidente dell’associazione Osservatorio sul Lavoro delle Donne che partecipava ai lavori del Comitato milanese per la legge e che propose alla discussione e al confronto principi ispiratori di alcuni emendamenti al Testo Unificato.
Erano proposte che si basavano su una pratica politica di relazione fra donne e che si ispiravano a esperienze condivise (o anche semplicemente narrate) di lavoro e non-lavoro, esperienze esistenziali che parlavano di sopraffazione ma, talvolta, anche di positiva resistenza alla tirannia di decisori sovra ordinati.
Risultava già allora evidente la tirannia del mercato che, quale soggetto sovrano, governa la storia e detta un ordine che incorpora il corpo/mente di ogni essere umano nel processo produttivo, usandolo come strumento di produzione/riproduzione.
Una logica che richiede di essere rovesciata per dare corso a un ordine diverso, incentrato sui soggetti, sostenuto da esercizi costanti di autonomia e autodeterminazione.

Questi concetti introducono alla questione centrale della rappresentanza, questione centrale perché decide degli assetti sociali e concorre a determinarli.
Il quesito chi rappresenta chi e come coinvolge un’esperienza femminile particolare e suggerisce di evitare che alla storica esclusione delle donne dai luoghi sociali e produttivi si associ (per quelle presenti) una condizione di cancellazione per omologazione all’uomo.

La nostra esperienza ci mostra che nella società costruita sul modello unico/universale maschile è in atto un concetto di rappresentanza per cui, ricevuta la potestà a rappresentare, il rappresentante assorbe in sé il rappresentato, senza alcuna possibilità di articolazione né di percorso relazionale fra i soggetti.
Una modalità che, data per scontata una qualche complicità femminile, vede il soggetto maschile occupare l’intera scena sociale come il delegato e la donna apparirvi come incapsulata nell’altro in una complementarietà subordinata che paralizza la ricerca di vie di uscita radicali.

Se ci si propone l’autonomia e l’autogoverno dei soggetti reali, quindi diversamente sessuati, occorre confrontarsi con la necessità di elaborare regole che registrino questa verità e che siano tendenzialmente utili a rovesciare la logica oggettivante del mercato, favorendo un’assunzione di responsabilità rispetto a bisogni e progetti radicati nelle differenti esperienze esistenziali.
In questa logica potrebbe risultare punto di forza ciò che oggi appare marginale:  la condizione di vita di lavoratori e lavoratrici, di donne e uomini in carne e ossa, da cui partire per esercitare un conflitto radicale e una contrattazione non consociativa che facciano perno su differenti esperienze di vita. Dalla messa in circolo di queste esperienze scaturiscono principi che mi sembrano essenziali.

Il primo fondamentale principio è che la rappresentanza deve essere interamente elettiva, non presupposta su basi corporative in favore di questa o quella organizzazione storicamente affermatasi e resa così inamovibile.
In quest’ottica, deve essere chiaramente prevista la possibilità di iniziativa da parte di gruppi di lavoratori e lavoratrici nella presentazione di liste di candidati/e,  devono essere previsti due livelli di contrattazione, deve essere riconosciuta esplicitamente la capacità contrattuale delle rappresentanze sindacali elette (RSU), la durata del mandato, le modalità di rinnovo alla scadenza.
La legge oltre al diritto sostanziale alle elezioni, dovrebbe prevedere direttamente anche il regolamento elettorale, senza operare rinvii ad accordi intervenuti fra i sindacati considerati rappresentativi, come talvolta è stato suggerito
Il diritto, infatti, non esiste a prescindere dalle procedure che ne garantiscono l’attuazione, un diritto è tale quando è certo e incondizionato, quindi le modalità del suo esercizio devono essere fissate per legge in modo non derogabile da alcuno degli interessati (o dei contro interessati).

Il principio da coltivare è quello che garantisce a tutti la partecipazione democratica senza filtri, in particolare non soggetta alle strettoie di uno strumento contrattuale che per sua natura cristallizza l’atto del vendere o scambiare qualcosa per un corrispettivo generalmente economico, mentre i diritti fondamentali dei soggetti non sono passibili di trattativa o di scambio economico: la regola democratica, infatti, li dichiara indisponibili.
Appare, quindi, indispensabile la certezza delle regole procedurali che devono essere conosciute e prefissate: essa consente di nutrire una ragionevole aspettativa che i diritti sostanziali non saranno vanificati da accordi sotterranei o da colpi di maggioranza poiché è nella natura dei diritti democratici l’opporre ferma resistenza al contrario interesse di chi dispone della forza della maggioranza.
Altro principio cardine inerente alla partecipazione democratica (che in questi casi significa tenere le redini del proprio destino), è la concreta possibilità di decidere i contenuti della contrattazione collettiva del settore di appartenenza.
Questo significa previsioni certe e vincolanti sul percorso d’informazione preventiva nell’iter di formazione dei contratti collettivi, possibilità di intervento vincolante dei lavoratori nella formazione della piattaforma contrattuale, obbligo di tempestiva comunicazione delle ipotesi di accordo, possibilità di modifiche anche radicali del testo in discussione da parte dei diretti interessati.
Il dibattito sulla legge elettorale in corso di approvazione, suggerisce di curare la formazione di un meccanismo elettorale assai dissimile per la rappresentanza sindacale. Un meccanismo osservante del dettato costituzionale che promuova l’eguaglianza nella rappresentanza di uomini e donne attraverso una presenza paritaria nelle liste di candidate/i e l’annullamento delle liste che discriminano in favore di un solo sesso, di norma quello maschile.
Una modalità di composizione delle liste potrebbe essere quella di formarle con un numero di candidate e candidati che costituisca l’esatta proiezione percentuale della presenza di lavoratrici e lavoratori nella base elettorale, seguendo l’ordine alfabetico nella elencazione.

Per una democrazia sindacale basata sulla partecipazione si potrebbe suggerire di rifarsi alle indicazioni (di vecchia data, ma inattuate e ancora attuali) contenute nella proposta di V Direttiva Comunitaria del 1983 e nei programmi di azione governativa sottoscritti anche dell’Italia in occasione della IV Conferenza mondiale dell’ONU del 1995 a Pechino.
Il primo strumento pone in capo alle rappresentanze sindacali il diritto di avere informazioni precise e di essere consultate su previsioni produttive, occupazionali, previsione di ricorso a contratti vari di collaborazione, specificando oggetti e durata, programmi di investimenti e disinvestimenti, di mobilità intra o extra aziendale, interventi di Cassa Integrazione, licenziamenti collettivi, outsourcing, delocalizzazioni ecc, ma soprattutto prevede che tutti i dati e le notizie fornite siano accuratamente scomputate per sesso.
Il programma di Pechino si pone l’obiettivo di promuovere l’accesso delle donne a impieghi cui corrispondono adeguati corrispettivi economici e posizioni di responsabilità.
A tal fine dà ai Governi il compito di attuare politiche che favoriscono disposizioni delle leggi del lavoro che garantiscono alle donne la eliminazione della segregazione occupazionale, la partecipazione a posizioni di direzione, l’ampliamento della presenza nelle sedi decisionali e rappresentative, nell’ottica della pari valorizzazione dei due generi.
Anche la Direttiva Prodi del marzo 1997 si pone in questa direzione.

Come si vede, propositi lodevoli, completamente disattesi, anzi rovesciati nel loro contrario dalla legislazione incardinata dalla fine degli anni Novanta e perseguita fino ai giorni nostri.
Assistiamo, come sopra detto, al turbo attivismo dell’attuale governo che viene indirizzato nella opposta direzione di distruzione di ogni residua garanzia in favore di una “flessibilità” che da venti anni impoverisce la classe lavoratrice e l’intero Paese, salvo le sacche di consolidato privilegio.
Una giusta legge sulla rappresentanza sindacale, che non sarà elargita come grazioso dono, ma potrà esistere solo come frutto di conflitto e ribellione allo stato delle cose esistente, potrebbe essere un buon inizio.

Nella prospettiva che ho descritta, servirebbe anche a porre un freno al dilagante presenzialismo maschile in tutti i luoghi del vivere associato.
E’ bene, mi pare, che l’occhio maschile non abbia il monopolio dell’interpretazione e dell’intervento sulle cose umane, che il modo in cui su di esse si interviene risenta della differente esperienza esistenziale di esseri umani diversamente sessuali.

2-04-2014

 

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