Senza diritti saremo sempre schiavi 
        Maria Grazia Campari 
        
        Frida Kahlo  
       
        “Senza  diritti saremo sempre schiavi”: la considerazione si trova nel documento con  cui la FIOM illustra il cosiddetto accordo Marchionne, sottoposto a referendum  nello stabilimento FIAT di Mirafiori. Un concetto che è opportuno ricordare in  questa situazione da notte dei diritti, inaugurata negli anni novanta del  secolo scorso (pacchetto Treu), resa sempre più fosca dalle leggi Biagi,  collegato lavoro, Statuto dei Lavori, quest’ultimo in preparazione, di cui  diremo più avanti. 
         
        In una società attanagliata da scandali al  vertice (mercato di corpi e di menti) che hanno portato in piazza un milione di  persone al grido di “dimissioni” rivolto al Presidente del Consiglio, lo  scandalo morale si accompagna e trova sostegno nello scandalo sociale. Che  consiste nello scambio iniquo, perché fonte di disuguaglianze penalizzanti, fra  giovani costretti dal precariato, per necessità, ad appoggiarsi agli anziani e  questi che si trovano obbligati a fornire, in qualsiasi modo, aiuti per la  sopravvivenza. Uno scandalo che consiste anche nel gran numero di donne  disoccupate e inoccupate, costrette a dipendere economicamente dagli uomini di  famiglia cui corrispondono incessanti servizi gratuiti, sostitutivi del welfare  pubblico, ormai ridotto al lumicino.  
         
        E’ chiaro che chi dipende non è libero, è sempre  condizionabile. Lo scandalo etico che stiamo vivendo oggi è, quindi,  essenzialmente quello di una società in cui la maggioranza dei componenti è  solo semi libera.  
        In tale società, lo scopo del moloc è di  divorare i residui spazi di libertà attraverso la cancellazione dei diritti  sociali e del lavoro di chi non appartiene al ceto proprietario. 
         
        Fin dall’approvazione del “collegato lavoro”,  questa è la missione intrapresa dal sollecito Ministro Sacconi, responsabile  del lavoro e delle politiche sociali. Infatti, egli dichiara di voler  “svecchiare”, cioè cancellare, “la materia dei diritti” che considera obsoleti  e inadeguati “alla competitività delle imprese”. Coerentemente, con lettera 11  novembre 2010, in nome di una dichiarata fiducia del governo nel dialogo  sociale, si rivolge a Presidenti e Segretari delle organizzazioni sindacali di  lavoratori e datori di lavoro invitandoli a sostenere la riforma contenuta in  un disegno di legge che ha la pretesa di “segnare la stessa Costituzione  materiale del Paese”. E’ una legge delega per la redazione di un testo unico  destinato a sostituire lo Statuto dei Lavoratori, testo considerato dal governo  necessario e urgente ai fini della “crescita con occupazione” per “incoraggiare  nelle imprese la propensione ad assumere e a promuovere lavori di qualità”. 
         
        La lettera del Ministro accompagna il testo  della Legge Delega e la relativa Relazione. L’argomento si ripresenta  ciclicamente dal 1997, anno che, non a caso, ha visto il varo del cosiddetto  “pacchetto Treu”, cioè della prima normativa che ha introdotto in Italia una  molteplicità di forme contrattuali, prevalentemente a termine, per lavori in  azienda o “esternalizzati”, tutti resi precari. 
        Il tema merita la nostra sospettosa attenzione  anche perché, negli anni, una parte non irrilevante della sinistra  istituzionale ha bollato lo Statuto del 1970 come vecchio e inadatto alla  realtà del lavoro che cambia. Secondo un’impostazione largamente bipartisan, la  legge regolativa del lavoro fordista dovrebbe attualizzarsi attraverso  contratti variegati e flessibili, con l’obiettivo non più di tutelare la parte  debole del rapporto (favor lavoratoris),  bensì la concorrenza fra imprese, restringendo le possibilità di competizione  sleale, fondata su “dumping” sociale. 
         
        La Relazione al disegno di legge pone alcuni  punti fermi. 
        Il potere taumaturgico di un nuovo Statuto che  favorendo le imprese aumenterebbe anche una loro supposta propensione ad  assumere e investire in modo stabile, mentre, al contrario, è nota e  documentata la tendenza a sottrarre i profitti agli investimenti produttivi per  dirottarli in campo finanziario. 
         
        La positiva sottrazione a un “centralismo  regolatorio....statualista” che irrigidirebbe e inibirebbe la “nuova economia  caratterizzata da nuovi modelli di produzione e organizzazione” in un “mercato  del lavoro sempre più terziarizzato e plurale con forza sempre meno radicata  presso la stessa azienda”. Con l’aggiunta che, in ogni caso, la normativa del  1970 sarebbe ormai di limitata applicazione alla molteplicità delle tipologie  contrattuali esistenti. Pensiero che manifesta un’impostazione malefica di  federalismo iniquo, destinato a perpetuare svantaggi storici di sottosviluppo  territoriale e, contemporaneamente, una tendenza a disarticolare ulteriormente  la contrattualistica del lavoro, togliendo le garanzie di leggi quadro  costituzionalmente orientate in favore di contrattazioni locali e aziendali  destinate a sancire patti leonini in sfavore dei contraenti più deboli,  scarsamente garantiti anche dalla presenza (eventuale) di organizzazioni  sindacali, destinate comunque a soccombere nei rapporti di forza che sostengono  i contrapposti interessi. E’ bene ricordare - e la quota di PIL destinata al lavoro  subordinato, in andamento viepiù calante, lo mostra con plastica evidenza – che  gli interessi sono contrapposti.  Anche per questo motivo è necessario promuovere un allargamento  nell’applicazione dello Statuto dei Lavoratori, legge di adempimento costituzionale,  più che mai necessaria a stabilire diritti certi e inderogabili per tutti. Non  a caso essa viene da anni presa di mira in nome di quegli interessi d’impresa  che già hanno prodotto la frammentazione degli addetti al medesimo ciclo  produttivo in “garantiti” (dallo Statuto, dai contratti nazionali) e  “flessibili” non garantiti da contratti temporanei, a chiamata, a progetto, di  collaborazione ecc. Con il corollario della deprecazione dei diritti dei primi  quasi fossero loro, a causa di assurdi privilegi, l’ostacolo al benessere di  tutti gli altri, mentre si offusca il privilegio proprietario enormemente  aumentato dalle delocalizzazioni che si rivolgono ovunque siano reperibili zone  franche dai diritti sociali e persino dai diritti umani. 
         
        L’impostazione corretta per una democrazia  compiuta socialmente e politicamente è, al contrario, quella di operare, in  controtendenza, l’allargamento a tutti delle garanzie previste dal “vecchio”  Statuto, frenando scelte antinazionali di delocalizzazione, curando l’estensione,  per via sindacale e legale della “clausola sociale” da applicarsi ovunque, in  Europa e nel mondo, per frenare il social dumping. Questa clausola dovrebbe  trovare applicazione in primo luogo in Italia ove il modesto ingresso delle  donne nel mercato del lavoro offre lo spunto al Ministro per sottolineare  caratteristiche di “transizioni occupazionali e professionali” cui sarebbero  adatte regole flessibili e duttili, in contrapposizione alla rigidità dello  Statuto del 1970. Si tratta della “flexicurity, il livellamento alla  flessibilità precaria, prioritariamente riservata alle donne in nome  dell’esigenza di conciliare il doppio lavoro -per il mercato e per la famiglia-  poi estesa a tutti per i cospicui risparmi che consente alle imprese. 
         
        La critica svolta nella Relazione al sistema  legale attuale che genera insicurezza e precarietà è certamente condivisibile,  ma la cura va nella direzione opposta a quella indicata: va nel senso di una  unificazione contrattuale e di una estensione della tutela legislativa,  cominciando dall’Italia e dall’ Europa. Quindi, non “il contratto è il mio  Statuto”, come recita la Relazione, ma, al contrario, lo Statuto può correggere  e migliorare ogni contratto, grazie alle sue previsioni sovraordinate e  vincolanti. Questa visione non è “sterilmente antagonista”, ma giustamente  conflittuale, perché interessi contrapposti sono giustamente destinati a  configgere, salvo soccombere alla prepotenza del più forte. 
        Concludendo, mi pare che si possano individuare  due percorsi per un recupero di etica politica, dando risposta adeguata a  problemi di grave ingiustizia sociale e sessista. 
         
        Una pratica di democrazia che metta al centro  bisogni e desideri radicati nel corpo/mente di ogni soggetto sessuato,  eliminando la divisione sessista del lavoro fra donne e uomini, in tal modo  eliminando anche l’illibertà materiale ed emotiva delle donne e ridefinendo la  partecipazione alla sfera pubblica attraverso la rimozione del monopolio  maschile. Ciò che pone in termini nuovi il problema del welfare, consentendo  una battaglia per la redistribuzione delle risorse che non sia parziale, che  coinvolga donne e uomini, ciascuno a partire dalla propria esperienza  esistenziale. 
        Un conflitto per la redistribuzione delle  risorse che si avvalga anche di forme di reddito di esistenza, inteso come  diritto di partecipazione alla cittadinanza per tutti i soggetti residenti sul  territorio, un sostegno alla conflittualità sociale,  oggi sopita soprattutto nei giovani dalla  necessità di escogitare incessantemente mezzi destinati alla pura  sopravvivenza. 
        
      21-02-2011 
        
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