Una flessibilità del lavoro femminista? 
        di Maria Grazia Campari 
        
        l'artista Wanda Broggi al lavoro  
      Una quarantennale esperienza di avvocata del lavoro mi ha  messo in contatto da quindici anni con casi di prestazioni di lavoro fortemente  improntate alla flessibilità, introdotta a partire dai secondi anni novanta  (leggi Treu, Biagi-Maroni, ecc.). Posso ben dire che, attraverso le mie  clienti, la flessibilità me ne ha fatte vedere di tutti i colori. 
         
        Esemplifico. Nella cintura milanese, industrie chimiche di  media grandezza, occupavano un nucleo stabile di lavoratori regolarmente a  contratto e circa il triplo di lavoratrici flessibili, «a chiamata», per  interposte cooperative, anche per turni domenicali e notturni, retribuite «in  nero» dalle cooperative. Solo le più docili ottenevano qualche contratto a  termine dall’azienda che, dopo pochi mesi di lavoro «regolare», le ripassava alla  cooperativa, pur continuando esse a fare lo stesso lavoro nella stessa fabbrica. 
        Al centro di Milano, notissime società di sondaggi  telefonici o telemarketing impiegavano intervistatrici retribuite a ritenuta d’acconto,  ingaggiate «a chiamata», con turni, orari, livelli di produttività rigidi, simili  al cottimo d’altri tempi. 
        Altre volte è capitato che giovani guidatrici con automezzo  proprio venissero spedite da imprenditori pubblicitari in Lombardia o Piemonte  per reclamizzare catene di negozi e grandi magazzini, con promessa di  retribuzione a giornata, poi negata col pretesto che l’attività da loro 
        svolta era ritenuta dall’imprenditore insufficiente. 
        Conseguenza: tempo e costi di lavoro diventavano una  donazione forzata delle più povere ai più ricchi. 
        Fino al caso di un importante corriere internazionale che  per la consegna di plichi e merci in Milano subappalta il servizio a un  «padroncino» di automezzi. Questi, a sua volta, ingaggia una coppia di addetti per  ogni furgone, i quali provvedono alla consegna dei pacchi. O meglio, il «padroncino»  subappalta il lavoro a un autista che retribuisce a fattura come lavoratore autonomo,  che spesso utilizza come secondo autista e portatore della merce dal furgone al  recapito, la sua compagna, 
        da lui stesso retribuita «in nero». 
        La donna non riceve un compenso proprio, ma una parte del  compenso altrui, e non è titolare di nessun contratto. 
       
        Questa esperienza professionale ha destato il mio interesse  per due scritti della Libreria delle donne di Milano nel Sottosopra «Immagina  che il lavoro» e nel «Quaderno» di Via Dogana, «Lavoro e 
        maternità. Il doppio sì».  
        Il più recente, «un manifesto del  lavoro delle donne» in dieci punti, esordisce con un indirizzo alle lettrici:  «oggi non trovi una sola donna che si senta categoria debole...nell’eterno gioco  di rincorsa alla parità» e prosegue : «...voglio dire la mia sul lavoro,  sull’ambiente, sull’economia, sul futuro. Sulla politica meno: è già stato  detto molto e non vedo molta disponibilità ad ascoltare. Anzi a me la politica  par di farla solo quando riusciamo a dar parole pubbliche ai nostri punti di  vista». 
         
        Apprezzo l’invito a non ripiegare sull’autocommiserazione, purché,  però, ci si intenda sulle modalità (anche conflittuali) mediante le quali porre  riparo a situazioni spesso assai deteriori che riguardano ancora le lavoratrici  dell’Europa mediterranea (dati Eurostat). 
        Una via è quella, indicata, di farsene carico prendendo la  parola pubblica sui temi evidenziati. Ma perché contrapporre il desiderio di  occuparsi di argomenti rilevanti, quali ambiente, economia, lavoro, e la  contrarietà a occuparsi di «politica»?  
         
        Lo spazio pubblico è, in una democrazia partecipata, spazio  della parola che mette in  comunicazione  i cittadini; confronto incessante e scambio (anche conflittuale) che registrano  una comune responsabilità nella sfera pubblica. Questa è politica. 
        Forse con «politica» lo scritto intende riferirsi allo stato  attuale della cosa pubblica cui si accede grazie al benvolere di oligarchi,  professionisti nell’occupare tutte le strutture, anche istituzionali, o  attraverso cooptazioni o fittizie competizioni elettorali. Occorre allora  esplicitarlo e legarlo 
        alla critica del presente perché, se no, si rischia di  offuscare la possibilità di qualsiasi azione per cambiare le cose. Come estraniarsi  dallo stato della politica se si vuole incidere con parola 
        pubblica nello spazio pubblico? 
         
        Quanto al lavoro, il manifesto giustamente ribadisce che, come  le economiste femministe 
        insegnano, nei rapporti di produzione i soggetti sono donne  e uomini, e si intrecciano condizioni di vita e di lavoro. Dimentica però i  conflitti che questi producono nella struttura stessa del mercato del lavoro. 
        Anzi, sostiene un felice innesto nell’attività lavorativa  del sapere femminile sulla quotidianità: «un lavoro imprenditivo e creativo»  che «non si vede nel Pil, non si vede nella busta paga, non si vede 
        negli indicatori di benessere delle nazioni e degli  individui». 
        L’assenza di compenso per questi apporti preziosi viene  pacificamente constatata; si sottolinea anzi che c’è una «parola magica per  rimuovere il conflitto: conciliazione tra i due lavori (produttivo e  riproduttivo) per entrambi i sessi». Nella realtà - si ammette - ciò non si  verifica, ma le donne decidono lo stesso: «Scegliamo tutto. Il piacere di stare  con i figli e di lavorare bene. Il doppio sì». 
        Questo è il fulcro del discorso. 
         
        Si tratta del part time conciliativo che consente la doppia  scelta del lavoro e della maternità, concetto in cui è inserito,ma sottaciuto,  il lavoro riproduttivo domestico e di cura, e si enfatizzano 
        le funzioni femminili, prolungandone l’efficacia (gratuita)  nella prestazione lavorativa - capacità 
        relazionale-gestionale non prevista nella retribuzione. 
        Nel vantato favore femminile per questo tipo di rapporto è  assente qualsiasi lettura della realtà: da quale posizione sociale e da quale  reddito si parla? Con quali conseguenze sul benessere o sulla povertà femminile  e minorile nei casi di separazione e divorzio? Con quali riflessi sull’entità  delle pensioni? 
         
        Anche l’elogio del lavoro di cura come modalità di  ampliamento delle conoscenze rimanda a 
        un concetto ambiguo, vero ma forzato dalla limitazione dello  sguardo sul mondo. 
        L’ampliamento di conoscenze, oltre che nel lavoro  riproduttivo e nelle relazioni di cura, si può conseguire attraverso il confronto  fra culture (incontri, letture, formazione plurilingue,  approfondimenti teorici, relazioni  professionali multidisciplinari), mentre le capacità gestionali 
        si possono valorizzare attraverso lavori professionali di  organizzazione delle risorse, e come tali retribuiti, non erogati gratuitamente. 
        Si sa che l’articolazione dell’attività femminile fra lavoro  formale per il mercato e informale per la famiglia, avviene perlopiù a scapito  delle conoscenze, e anche della formazione continua ormai richiesta per gli  impieghi qualificati e ben retribuiti. L’esperienza mi dice che la  valorizzazione 
        delle doti femminili come leva per una flessibilità contrattata  riguarda settori molto ridotti di occupazioni specialistiche e non permette di  formulare regole generali. 
         
        La scelta del «doppio sì», che si verifica per esigenze  varie, anche economiche, pur senza condivisione dei compiti in famiglia, potrebbe  essere interrogata come conveniente perché a-conflittuale. La mancanza di  recriminazioni femminili intrafamigliari per scelte che penalizzano 
        la donna sul lavoro (blocco o regressione di carriera per  cura dei figli), si può spiegare con il «desiderio adattativo» (scelgo ciò che  la cultura dominante mi indica) utile per evitare il conflitto coniugale, ma  tale desiderio può regredire dove una cultura (sindacale) autorizza il conflitto. 
         
        Inoltre, chi enfatizza la positività del «doppio sì» non  esamina il futuro di chi si carica della doppia presenza: basso reddito  professionale, che crea nuove povertà per madri e figli minori, accorciamento della  carriera lavorativa dunque pensioni insufficienti in età avanzata. Mi pare  alquanto fantasticata la figura femminile forte delineata dal termine «donna realista  ed elastica»: a uno sguardo attento essa appare più adattativa all’esistente che  consapevole del proprio futuro. 
      Purtroppo questa impostazione trova consonanze in  parlamento. Il disegno di legge (Ddl 784/09) presentato dal Partito democratico  nel gennaio 2009, «Misure per favorire l’occupazione femminile e la condivisione  e conciliazione fra cura e lavoro» non scalfirà neppure la situazione attuale,  la conciliazione fra lavoro produttivo e riproduttivo venendo messa a carico delle  sole donne. Basti dire che è prevista una detrazione fiscale per le lavoratrici  madri a basso reddito di soli quattrocento 
        euro all’anno per il primo figlio, la estensione del part  time alle dipendenti del settore privato e l’elargizione a favore dei padri di  soli dieci giorni di assenza - retribuiti al cinquanta per cento - per la cura  dei figli neonati. 
         
        Queste relazioni dispari fra i sessi, che determinano la  precarietà economica delle donne, hanno precise ricadute sui diritti di cittadinanza:  sono esse a produrre l’estraneità delle donne alla sfera pubblica, concorrendo  alla scarsa qualità del nostro assetto democratico. 
      da il manifesto del 6 novembre 2009  
        
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