| Laicità  delle donne e spazio pubblico
 di Maria Grazia Campari
  
 La  società attuale appare percorsa dal fenomeno religioso, ciò che rende  necessario porsi interrogativi sulla forma di laicità più adeguata al desiderio  di libertà nello spazio pubblico che molte/i ancora nutrono.Gli  interrogativi dovranno essere posti, in particolare, “sull’antica alleanza fra  religione e autorità, ciò che solleva la questione seria della fonte  autoritativa dei nostri “valori” tradizionali, delle nostre leggi, dei nostri  costumi e dei nostri criteri di giudizio, che per tanti secoli sono stati  consacrati dalla religione…” (Hannah Arendt   “Religione e politica” in Archivio 2 Ed. Feltrinelli)
 La  forma di laicità che ci interessa è quella che si incardina sul principio  secondo cui la società politica deve garantire la libertà di tutti senza  discriminare o privilegiare nessuno, favorendo un confronto critico fra  differenze, impostando il dibattito pubblico su posizioni e visioni  differenziate che interagiscono senza pretese di superiorità indiscusse, basate  su valori trascendenti, a connotazione imperiale.
 Questa  impostazione mi sembra possa aiutarci ad affrontare il nodo cruciale  dell’autodeterminazione e della responsabilità individuale, in opposizione al  principio di autorità, assai praticato, attualmente, dagli esponenti di élites  che esercitano un potere in larga misura sottratto al popolo sovrano.
 
 La  struttura gerarchica del sistema politico (tuttora patriarcale, malgrado  qualche spostamento e qualche modesta scalfittura inflitta dal femminismo all’ordine  simbolico) accetta di buon grado il collegamento con i depositari di verità  dogmatiche superiori ai quali può riferirsi riproducendone (in miniatura?) la  qualità di depositario di deleghe conferite una volta per tutte in modo  acritico.
 La  consegna a pochi del potere decisionale determina l’appropriazione privata  della democrazia e si traduce in una rapina di soggettività per quanto riguarda  le donne, consegnate ad un clima sociale che normalizza esclusione, chiusura in  fortini familistici, esercizio autorizzato di violenza. Tale considero  l’offensiva della gerarchia ecclesiastica e dei cosiddetti “devoti” che, a  vario titolo, dettano la propria agenda alle istituzioni dello Stato,  rivolgendosi principalmente contro l’autogoverno e la responsabilità di  ciascuna donna sulla propria vita.
 E’  stato giustamente rilevato che la difesa della laicità, del modello che  consente libertà e tensione all’eguaglianza nello schema di una democrazia  critica, è interesse precipuo delle donne perché le imposizioni delle autorità  vaticane e statali riguardano principalmente la sfera dei rapporti uomo-donna,  dei rapporti sessuali, della famiglia tradizionale eterosessuale e si indirizzano  soprattutto a contrastare la signoria di ciascuna sul proprio corpo.
 
 Questo  perché la società italiana, plasmata sulla dottrina cristiano-cattolica e in  particolare sul culto mariano, trova il suo perno nel modello di famiglia in  cui il potere materno opera nell’interesse esclusivo del figlio fino al  sacrificio di sé, in una dedizione oblativa che finisce con l’estendersi in  favore di ogni singolo componente e della istituzione nel suo complesso.
 Inoltre,  proposta come modello all’imitazione la vergine-madre, il sacrificio di sé per  il bene del figlio e la maternità diventano scelte obbligate (v. Luisa Accati  “Scacco al padre” Ed Marsilio).
 In  questa situazione, il senso della propria dignità di persone, la consapevolezza  della propria responsabilità di soggetti inseriti in un contesto deliberativo  pubblico allargato, sfumano e si assiste ad una scena pubblica in  cui istituzioni statali e vaticane  disquisiscono su famiglia, controllo delle nascite, fecondazione in un dialogo  omosessuale maschile che vede le donne emarginate dal livello politico  decisionale e dalla comunicazione mediatica.
 Con  evidente compromissione anche dei fondamenti del nostro ordine costituzionale,  con pericolo grave per gli assetti democratici che guadagnano esistenza solo  salvaguardando principi quali l’autonomia personale, il rispetto delle  convinzioni altrui, la garanzia della qualità della vita.
 Un  attacco grave alla libertà individuale e alla autonomia della sfera  deliberativa è in atto da tempo ( nelle titubanza imbarazzata di molti  politici) attraverso il corpo delle donne e la negazione della loro autodeterminazione  riproduttiva, per esemplificare, con la priorità conferita alla vita  dell’embrione attraverso la legge 40, l’aborto parificato all’esecuzione  capitale (detto anche infanticidio in spregio al codice penale) o addirittura definito  come genocidio impunito di cui si chiede la moratoria.
 
 L’occhio pubblico invade gli individui, controlla e  costringe la libertà di scelta di ognuno, fa del concepito e della sua vita  materia di pubblico dominio.
 Qui ripropongo un quesito, secondo me, importante e  poco esplorato: esso riguarda le ragioni della difficoltà della legge a  contenere i corpi e a risolvere, con apposita regolamentazione, il conflitto di  sesso sulla riproduzione. In particolare, alcune disposizioni sollecitano  interrogativi su legge e corpo.
 Si potrebbe sostenere che il corpus legislativo  non preveda il corpo sessuato.
 Nel libro primo che tratta delle persone, il nostro  Codice civile si limita vietare, con prescrizione sobria, gli atti di  disposizione del corpo che cagionino una diminuzione permanente dell’integrità  fisica.
 Il diritto appare complessivamente fondato sulla  presupposizione dell’assenza dei corpi (sessuati), formula regole generali e  astratte che compiono un percorso immediato dal soggetto apparentemente  neutro/astratto (il legislatore) alla generalità dei soggetti regolati.
 Il soggetto legislatore (maschile) apparentemente  astrae dal proprio corpo/mente per dettare la norma universalmente valida.
 In realtà, è la volontà che nasce dal suo  corpo/mente quella che conforma la regola, mentre la donna vi è regolata. Non a  caso un corpo compare a più riprese nella legge per esservi normato: il corpo  femminile. Ma il legislatore, per normarlo, viola i principi cardine  dell’ordinamento da lui stesso costruito.
 
 Una santa alleanza fra esponenti di istituzioni a  prevalente o esclusiva composizione maschile (maggioranze parlamentari italiane  e gerarchie vaticane) ha prodotto, in tempi passati e recenti, regole sul corpo  femminile che violano in modo palese persino il le previsioni della nostra legge  fondamentale: gli artt. 2, 3, 32 e 33 della Costituzione.
 Il progresso scientifico, il prodotto della ricerca  scientifica ha reso possibile l’uso di nuove tecnologie riproduttive che, però,  non sono rese disponibili per ampliare, con nuove possibilità di scelta, gli  spazi della deliberazione autonoma  e  della responsabilità individuale (ratio sottostante l’art. 33 Cost.).
 Non hanno reso possibile una migliore e tutela del  diritto alla salute (art.32 Cost.) determinando un ampliamento delle  possibilità di scelta individuale, ampliando la tutela dei diritti fondamentali  del soggetto femminile, hanno, al contrario, causato una grave lesione dei  diritti individuali e della sfera privata attraverso la negazione della  libertà/responsabilità della donna, operata principalmente e dichiaratamente  attraverso la legge 40/2004 sulla PMA, ma anche attraverso la reinterpretazione  attuale della troppo lodata legge 194/1978 che contiene in sé, a parere di  molte, tutte le premesse per una lettura regressiva e anticostituzionale delle  sue disposizioni.
 Iniziando dalla più esplicita legge 40/04, due  aspetti interconnessi la rendono inquietante: la soggettività giuridica  dell’embrione, strumentale alla negazione di libertà/responsabilità  riproduttiva femminile e la correlata unicità del modello  famigliare-genitoriale che viene imposto.
 
 Il senso del complesso normativo appare quello di  ridurre, nuovamente, il rapporto fra i sessi ad uno scambio impari, avente ad  oggetto il corpo della donna, contraddicendo ogni elaborazione di diritto  asimmetrico, ma non diseguale.
 In effetti, questo disegno si manifesta fin dal  primo articolo che proclama la volontà legislativa di “assicurare i diritti  del soggetto concepito”. In tal modo e per la prima volta, il  concepito-embrione diviene soggetto giuridico e si palesa nel sociale come  centro di imputazione di diritti prioritari, potenzialmente configgenti con  quelli della madre, in contrasto con i principi attuali del nostro ordinamento  che riconosce alcuni diritti solo al momento della nascita.
 
 Del resto, negli ordinamenti moderni è soggetto  giuridico il soggetto psico-corporeo dotato (potenzialmente) di raziocinio e  volontà, capace di comportamenti di cui è responsabile. Solo questo soggetto è  persona, essere umano in quanto membro della società.
 E’ chiaro, allora, che la finzione giuridica di  considerare soggetto di diritto un essere non dotato di esistenza autonoma,  implica la necessità di un suo rappresentante, sociale, terzo rispetto alla  donna, un curator ventris destinato a rapportarsi al concepito  attraverso il corpo della madre, funzionalizzato a supposti diritti non suoi  propri.
 Se l’embrione è soggetto dotato di diritti autonomi  e indipendenti dai diritti della donna, allora quest’ultima diviene  soggetto-assoggettato a fini non suoi, incapace di libertà di scelta e di  responsabilità rispetto al proprio progetto di vita.
 Altro aspetto negativo è la conferma legale  dell’assenza di pluralismo nel diritto di famiglia che connota, per obbedienza  ecclesiastica, per amore del principio di autorità, il nostro Paese e lo  conduce a negare tutele anche minime alla coppie di fatto, a negare loro la  possibilità di adozione, a negare le unioni omosessuali; una situazione che  riverbera effetti negativi e condiziona il grado di libertà delle donne in famiglia  e nella società.
 
 Anche nella formazione della legge 194/78 la  dottrina cattolica ha proiettato ombre pesanti.
 Come noto, fu necessario negli anni settanta del  secolo scorso, intervenire sul Codice Penale che prevedeva l’aborto fra i reati  contro la stirpe.
 L’iter  prese avvio da una sentenza della Corte Costituzionale (18.2.1975 n. 27) che  statuì la legittimità dell’aborto affermando prevalente la salute e la vita  della donna sulla vita del nascituro.
 La  dottrina cattolica, al contrario, propugnava il concetto per cui la madre aveva  il dovere di esporsi al pericolo di vita in favore del nascituro.
 
 A  seguito della raccolta di 550.000 firme per il referendum abrogativo del reato  di aborto, fu promulgata la legge 194/78 che aveva anche il segnalato scopo di  evitarlo e che, di fatti, mantenne il reato di aborto per le interruzioni di  gravidanza operate al di fuori delle strutture pubbliche (o accreditate) e  delle procedure previste.
 L’impianto  di questa legge risente, quindi, della valenza negativa attribuita  all’interruzione di gravidanza , in omaggio all’idea cattolica della sessualità  femminile unicamente volta alla maternità.
 
 In  effetti, il primo articolo ribadisce questo valore e dichiara la finalità di  tutela della vita umana fin dal suo inizio (non la qualità ma la pura  esistenza).
 Anche  i successivi articoli (2-5) si conformano a questa ideologia, sottolineata  nella relazione di maggioranza alla legge, mediante la previsione di consultori  che intervengano sulla gestante in difesa della gravidanza.
 Attraverso  una procedura complessa si produce una situazione di controllo pubblico non  solo sulle modalità dell’intervento (caso unico nel panorama legislativo  conosciuto) ma anche sui motivi stessi che legittimano la richiesta.
 In  più, la legge contiene al suo interno una clausola, per così dire, di  dissolvenza che ne consente la disapplicazione: la previsione della possibilità  di obiezione di coscienza dei sanitari, anche di quelli addetti alle strutture  legittimate in via esclusiva alla interruzione della gravidanza.
 
 La  legge fa dipendere dallo Stato la pratica dell’aborto: l’intervento non può  essere eseguito in strutture private, costituisce reato. Inoltre, la legge  medicalizza l’intervento, ma, contemporaneamente, concede ai medici il potere  di astenersi dal fornire la relativa prestazione.
 Un  complesso normativo con pecche evidenti rispetto all’etica costituzionale, recuperato  alla civiltà giuridica da una prassi interpretativa spesso (ma non sempre) più  aderente ai principi fondamentali dell’ordinamento.
 
 Come  è noto, le interpretazioni risentono dell’aria dei tempi e oggi nel nostro  Paese si sta facendo un uso retrogrado delle credenze religiose, un uso diretto  a creare dipendenza e sudditanza soprattutto a carico delle donne, con la  pericolosa tendenza a trasferire il dogma religioso nelle leggi dello Stato.
 Occorre  contrastare questa deriva che, servendosi dell’immaginario religioso, finisce per  bloccare la libertà e la crescita democratica; occorre ribadire che nessuna  volontà esterna fosse anche quella della stragrande maggioranza dei consociati  può soverchiare quella degli interessati: il governo del corpo e della vita  appartiene alla libera determinazione di ciascuno.
 
 Per  questo la laicità è dovere e interesse delle donne, agente di civilizzazione della  società nel suo complesso perché strumento atto a garantire ognuna/o  nell’unicità della sua libertà e responsabilità verso se stessa/o e verso tutti  gli altri
           pubblicato in parte da Queer inserto di   Liberazione del 6 aprile 2008 7-04-2008   home   |