Fecondazione assistita e principi di libertà

di Maria Grazia Campari


Bruna Esposito

La vicenda della legge sulla procreazione medicalmente assistita si iscrive, secondo me, in una sorta di corto circuito fra pubblico e privato che sembra essere la cifra del tempo attuale.

Da un lato, la privatizzazione della sfera pubblica oblitera le forme generali della democrazia rappresentativa, nega la generalità dei servizi sociali, privatizza i mezzi di informazione; dall’altro lato, l’occhio pubblico invade la sfera deliberativa individuale e si appropria, nelle forme di un controllo costrittivo, delle libertà di scelta di ciascuno rispetto al proprio progetto di vita.

La legge si pone coerentemente in questo solco, operando una grave sottrazione di soggettività, in particolare rispetto alle donne.

Essa introduce spunti di biopolitica volta alla disciplina e al governo del corpo/mente degli esseri umani e nega molti fondamentali principi di libertà iscritti nella nostra Carta Costituzionale.

Questo complesso normativo costituisce, secondo me, evidente conferma dell’opinione assai diffusa secondo cui esistono materie sulle quali è meglio astenersi dal legiferare o, quantomeno, è opportuno astenersi da una normativa minuziosa, ricca di divieti e connesse sanzioni.

L’idea non è nuova, ma non sembra inutile riproporla oggi all’attenzione.

Si potrebbe con qualche motivo sostenere che tale opinione sia stata sostanzialmente condivisa dal passato legislatore il quale, relativamente al soggetto neutro/maschile, cardine del nostro ordinamento giuridico, ha posto una regola assai scarna: si è limitato a vietare atti di disposizione del corpo che cagionino diminuzione permanente dell’integrità fisica, o che siano contrari alla legge, all’ordine pubblico, al buon costume.

Le maglie interpretative sono sempre state piuttosto larghe e le decisioni generalmente consegnate al potere medico, attraverso la formula del consenso dell’interessato.

Le donne, al contrario, fino agli anni settanta del secolo scorso, sono state oggetto di un apparato minuzioso di regole, a causa della loro speciale e asimmetrica capacità riproduttiva.

Per loro, quindi, la sobrietà del legislatore nel disporre sulla relazione di ciascuno con proprio corpo, non aveva corso.

Negli anni settanta, appunto, attraverso leggi di attuazione dei principi costituzionali (parità fra i sessi, diritto alla salute come bene individuale e interesse collettivo) sono caduti i divieti di contraccezione e di aborto e si è instaurata una formale uguaglianza fra i sessi nella relazione col proprio corpo, fondata sul principio di autoresponsabilità.

Ne risultava una prescrizione normativa, per tutti, scarna e funzionale alla tutela del bene della salute.

Via via che la ricerca scientifica e la tecnologia hanno proposto soluzioni che pongono nuovi quesiti sulla relazione di ciascuno con il proprio materiale genetico, il legislatore ha ripreso l’iniziativa in termini di controllo autoritario-patriarcale in particolare sul corpo femminile.

Mentre si allargano le frontiere delle possibilità e alcuni vincoli naturali sono superati da nuove possibilità, le nuove libertà e responsabilità che ne seguono, sono sottoposte a nuove discipline fortemente costrittive.

Questo a me sembra il senso complessivo, la ratio sottostante la legge n. 40/2004 sulla procreazione medicalmente assistita, una legge che appare ridurre, nuovamente, il rapporto fra i sessi ad uno scambio impari, avente ad oggetto il corpo della donna, contraddicendo ogni elaborazione di diritto asimmetrico, ma non diseguale.

In effetti, questo disegno si manifesta fin dal primo articolo che proclama la volontà legislativa di “assicurare i diritti del soggetto concepito”. In tal modo e per la prima volta, il concepito-embrione diviene soggetto giuridico e si palesa nel sociale come centro di imputazione di diritti prioritari, potenzialmente configgenti con quelli della madre, in contrasto con i principi attuali del nostro ordinamento che riconosce alcuni diritti solo al momento della nascita.

Del resto, negli ordinamenti moderni è soggetto giuridico il soggetto psico-corporeo dotato (potenzialmente) di raziocinio e volontà, capace di comportamenti di cui è responsabile. Solo questo soggetto è persona, essere umano in quanto membro della società.

E’ chiaro, allora, che la finzione giuridica di considerare soggetto di diritto un essere non dotato di esistenza autonoma, implica la necessità di un suo rappresentante, terzo rispetto alla donna, un curator ventris destinato a rapportarsi al concepito attraverso il corpo della madre, funzionalizzato a supposti diritti non suoi propri.

Se l’embrione è soggetto dotato di diritti autonomi e indipendenti dai diritti della donna, allora quest’ultima diviene soggetto-assoggettato ad un disegno altrui, incapace di liberta di scelta e di responsabilità rispetto al proprio progetto di vita.

L’impianto illiberale di queste norme risponde a logiche autoritarie di stampo pre e anti costituzionale, come vedremo.

Prima va dato conto del fatto che la proposta in esame non nasce in un vuoto di progettualità, ma, al contrario , trova un preciso contesto legittimante anche nella precedente legislatura durante la quale, la Camera dei Deputati aveva già approvato norme che, nel disciplinare le tecniche di procreazione medicalmente assistita, assicuravano in particolare, quindi in modo preminente, la tutela dei diritti del concepito.

Il testo non concluse il suo iter in Senato, anche grazie alla strenua opposizione di molte donne attive nella società civile e di alcune (pochissime) presenti nelle istituzioni rappresentative.

Nell’anno 2002, l’attuale maggioranza, ha rivisto l’argomento proponendolo all’esame del Parlamento con una relazione della presentatrice Dorina Bianchi la quale indicava esplicitamente come finalità della legge la soluzione del problema della sterilità/infertilità dei soggetti adulti (aspiranti madre e padre) e il diritto a nascere del concepito la cui tutela era collocata fra i diritti inviolabili dell’uomo garantiti dall’art. 2 della Costituzione italiana.

La relazione, inoltre, rispondendo alle obiezioni imperniate sul contrasto fra codeste previsioni e l’esito negativo del referendum abrogativo della legge sull’aborto, precisava che l’embrione in provetta si troverebbe in condizioni diversa dall’embrione nell’utero materno, ciò che consentirebbe un trattamento difforme.

Una opinione che appare del tutto incongrua.

Secondo questa tesi, per il fatto di essere in vitro, il concepito avrebbe i diritti umani (anzi, dell’uomo) che la Dichiarazione Universale del 1948 riserva, invece, alla persona, precisando che “tutti gli essere umani nascono liberi ed uguali in dignità e diritti”, quindi guardandosi bene dal retrodatare i diritti rispetto all’evento nascita.

Eppure, come abbiamo visto, proprio la richiamata impostazione della relazione si ritrova nel primo articolo della legge, che prefigura la possibile contrapposizione fra diritti della madre e diritti del concepito e risolve il conflitto a favore di quest’ultimo.

Sul tema, non si può evitare un riferimento, per così dire obbligato, alla proposta di modifica dell’art. 1 del Codice Civile (proposta del Forum delle Famiglie, già Movimento per la Vita, sostenuta anche da Giuliano Amato) che attende di essere esaminata dal Parlamento.

Secondo i proponenti, la capacità giuridica dei soggetti che per il codice vigente si acquista con la nascita, dovrebbe essere retrodatata al momento del concepimento: anche qui la finzione giuridica rende l’embrione soggetto, titolare di diritti propri e, in questo caso, chiaramente, ogni embrione sia concepito in vitro che nell’utero materno.

Di fronte a questi attacchi liberticidi, non sarà ripetuto mai abbastanza che gli ordinamenti giuridici moderni possono prendere in considerazione unicamente il soggetto psico corporeo, dotato di potenziale raziocinio e volontà.

Solo questo soggetto è persona, cioè “essere umano in quanto membro della società”. Tale non è il concepito.

Il pensiero corre immediato, guidato dal principio di non contraddizione, alla questione cardine: se l’embrione è persona o progetto di vita destinato ad essere completato, l’aborto è fatalmente rimesso in discussione, ne consegue la sostanziale sotterranea ripresa, al di là delle proclamazione formali, di un intento negatorio della responsabilità femminile sulla procreazione.

La fondatezza di questa ipotesi appare, come spesso capita, confermata dal diritto vivente, che si esprime nelle decisioni del Tribunali. Una delle più significative in tal senso è la sentenza n. 8465/2001 con la quale il Tribunale Amministrativo del Lazio tratta ampiamente, prima della legge in esame, dello statuto dell’embrione e della sua sacralità nell’attimo stesso dalla fecondazione, per negare legittimità al provvedimento amministrativo di autorizzazione alla commercializzazione in Italia della c.d. “pillola del giorno dopo”.

E facile comprendere che, in tal modo, non è solo compromessa la legge che ammette l’aborto, molto di più e molto più in profondità viene compromesso.

Si palesa una negazione per le donne dell’habeas corpus, così come si è venuto determinando nell’esperienza femminile che si forma sul dato della generazione, nella relazione fra soggetti, nel riconoscimento dell’altro e nel rispetto delle esistenze in gioco.

Il messaggio illiberale si chiarisce ulteriormente con le disposizioni della legge, irragionevoli sul piano giuridico, che prevedono il divieto di revoca del consenso della donna all’impianto dell’embrione dopo la fecondazione dell’ovulo, anche in caso di accertata malattia.

Previsione che trova un pendant nel divieto di produzione di embrioni in numero superiore a tre e nell’obbligo del contemporaneo immediato impianto di tutti e tre gli embrioni nel corpo della donna, indipendentemente dalla constatazione di patologie anche gravi.

Azioni queste che, se non direttamente dannose, possono essere nella maggior parte dei casi, inidonee allo scopo dichiarato dalla legge e persino, in taluni casi, destinate a pregiudicare lo stesso diritto alla vita della donna.

In ogni caso, tutte le disposizioni menzionate contrastano visibilmente con il diritto alla salute, cioè il diritto ad essere curati secondo i ritrovati della scienza e i canoni dell’arte medica, previsto dall’art. 32 della Costituzione.

Per di più, l’obbligo di impianto degli embrioni contrasta anche con le disposizioni della Convenzione di Oviedo (acquisita al nostro ordinamento con L. n.145/2001) che sancisce il principio generale del consenso agli interventi sanitari e riconosce alla persona interessata la libertà di ritirare in ogni momento la propria adesione al trattamento.

Questo complesso normativo, fortemente costrittivo, giunge persino a prefigurare, come è stato osservato, forme di servitù personale (l’obbligo di gravidanza) che sono inconcepibili nei moderni ordinamenti.

Altra disposizione discriminatoria, quindi fortemente sospetta di incostituzionalità (artt. 2 e 3 Cost), è quella che consente l’accesso alla fecondazione assistita solo a famiglie o coppie eterosessuali stabili, con divieto di fecondazione cd. eterologa, ciò che pone il nostro Paese fuori dal panorama europeo.

Per questa via, un unico modello di famiglia è previsto come legittimo e conoscibile dal diritto. L’ obiettivo è chiaramente quello di eternalizzare la coincidenza fra famiglia giuridicamente rilevante e famiglia tradizionale, fondata sulla divisione dei ruoli fra i generi e sulla naturale dedizione della donna al servizio degli altri componenti del nucleo.

Viene in tal modo ulteriormente negata, per legge, la libertà del proprio codice morale e la responsabilità rispetto a rapporti interpersonali diversificati che, invece, costituisce la trama del dettato costituzionale.

La libertà di scelta rispetto al proprio progetto di vita, è, infatti, un’articolazione del diritto alla libertà di pensiero e al libero svolgimento della personalità, ricompresi nella previsione ampia dell’art. 2 della Costituzione.

Mentre la libertà di ricerca scientifica (anch’essa negata da questa legge e invece tutelata dall’art. 33 in relazione all’art. 32 della Costituzione) acquista il preciso significato di una legittima aspettativa individuale e collettiva a vedere tutelata la salute alla stregua dei risultati progressivamente acquisiti dalla scienza e dalla tecnica.

Tutte previsioni parimenti frustrate dalla legge in esame, praticamente in ogni suo articolo.

Ciò che chiarisce perché questa legge sia stata considerata non emendabile con interventi correttivi parziali, limando i cosiddetti punti scandalosi. Perché è l’intero impianto che mostra la violazione del principio pluralistico, la discrasia fra la finalità dichiarata e quella effettivamente assunta, la grave lesione di principi cardine dell’ordinamento costituzionale ancora vigente.

Questa legge andrebbe, invece, sostituita facendo ricorso ad un diritto minimo: pochi articoli garantisti rispetto al bene della salute riproduttiva; sulle questioni medico- farmacologiche, regolamenti ad hoc, facilmente mutabili con l’evoluzione scientifica e miranti alla tutela della salute e della dignità dei cittadini contro l’invasività dei procedimenti scientifici e, in ultima analisi del mercato.

Per ottenere l’affermazione di un’etica pluralista in luogo di quella di Stato, oggi imposta, occorreranno dibattiti allargati, riflessioni, azioni che producano la cancellazione delle previsioni anticostituzionali (referendum abrogativi, ricorsi alla Corte Costituzionale per i numerosi profili di illegittimità) e pratiche politiche che favoriscano una diversa produzione di senso, per un’interpretazione dell’habeas corpus che valorizzi la libertà/responsabilità femminile.


Questo articolo è apparso su Alternative - giugno 2005