Capodanno 2006

di Giulia Ciarpaglini, Francesca Cigala, Monica Farnetti, Francesca Mellone

Molte persone quest’anno festeggiano il Capodanno due settimane esatte dopo la data convenzionale del 31 dicembre. Il 14 gennaio 2006 queste persone si ritrovano infatti, chi a Milano e chi a Roma, per ingombrare le strade e le piazze della loro speranza e della loro allegria.

Si festeggia la fine di un anno cupo, che ha visto il tentativo di vanificare da una parte il percorso di libertà femminile di cui la legge 194 è un’importante espressione, dall’altra valori, come i Pacs, la cui progressiva acquisizione nulla, ma proprio nulla, avrebbe dovuto ostacolare. E la festa è una festa proprio perché questi infelici trascorsi hanno destato non solo e non tanto un bisogno di difesa di quei valori stessi, quanto piuttosto un desiderio di rilancio del pensiero che li accompagna, li sostiene e li fa vivere.

È inammissibile infatti che intorno a questi temi si discuta così malamente, che su di essi si consumino riti di mediazione d’apparato o fra apparati, che il loro senso diventi appannaggio di una politica di cui nulla si salva o può venire buono: né le logiche né i linguaggi, né la povertà d’immaginazione né gli eccessi – quando ci siano – di mal riposta passione, né tanto meno la totale mancanza di un contatto vero e sapiente con le cose in cui Stato e Chiesa ficcano spudoratamente il naso.

L’eccentrico Capodanno, oltre a squinternare simbolicamente il calendario, proprio questo vuole dire: che nessuno può arrogarsi il diritto di interferire nella sovranità che ciascuno/a ha sul proprio corpo e la sua varia, meravigliosa e terribile vicenda; che il corpo di chi genera oppure non vuole oppure non può più generare è e resta intoccabile al di là di qualsiasi agire strumentale; che l’autodeterminazione, ancor più dell’indignazione, è ciò che induce e invita alla festa; che, infine, sbaglia chi pensa di lavorare ai fianchi una popolazione senza più bagaglio di pensiero e di fermento, modificando o negando leggi esistenti o desiderate.

È vero che da sempre ogni civiltà ha contato – lo sapesse o meno – sulla sua componente femminile, ed è vero che in Italia recentemente le donne sono sembrate essere venute un po’ meno. Ma è altresì vero (pensiamo al giugno 2005 e al referendum sulla fecondazione assistita) che mai come ora le donne hanno dovuto agire in un clima tanto refrattario, se non ostile, alla loro storia politica e al loro pensiero (oltretutto in presenza di una carta costituzionale sostanzialmente stravolta insieme al sistema di garanzie che portava in sé).

Si è tentato di blandirle, e di esaltarne le capacità di intuizione, intelligenza e realizzazione, proprio al fine di svuotare contenuti e forme che quella politica e quel pensiero avevano segnato. Ma se alle donne è mancato finora il tempo di organizzarsi, di rimettere in circolo il loro sapere, di inventarsi le parole per far fronte all’inaudito presente e di riaccendere intorno a sé il naturale desiderio di bellezza e di grandezza che sempre accompagna la crescita di un mondo, ecco però che questo tempo si viene recuperando.

Succede infatti che molte donne abbiano ricominciato a pensare. Non solo, ma che molti uomini si siano sentiti a loro volta chiamati in causa, e abbiano riconosciuto che ne va anche della loro vita. E succede che donne e uomini così riuniti abbiano per paradosso avvertito un gran senso di solitudine – una solitudine di generazione, di ruolo, di rappresentanza -, e abbiano deciso di porvi rimedio.

Poiché hanno capito che faccenda seria sia quando gli attrezzi (culturali, etici, espressivi…) di una generazione si rivelano inutili alla generazione successiva, come sia grave che su certi problemi ci si senta chiamate/i in causa se e solo se ci sia smaccatamente di mezzo la propria esperienza o la propria fede (non importa se religiosa o politica), e come sia amaro che su questioni vitali per le singole persone si trovi più facile rispondere per delega: di un partito, sindacato, gruppo o movimento che sia.

Forse è un bene per una civiltà che la sua fine sia o sia stata così vicina. Che tante acquisizioni e tanti saperi si siano rivelati solo incerti o supposti. E che valori intoccabili o creduti conquistati una volta per sempre siano stati invece con malagrazia revocati e toccati. E’ “umano” infatti anche questo, addormentarsi un po’ sui traguardi raggiunti, reputarli inviolabili e perdere tensione.

Ma è per l’appunto l’essere umano, con la sua responsabilità, la sua libertà e – perché no – la sua felicità ad essere rimesso in gioco e in questione dagli attuali governanti. Ed è oltremodo umano che i governati cambino gioco e questione, rilancino la posta di ricchezza simbolica e si accingano a far festa a un futuro migliore. Augurando felice anno nuovo a chi condivida la stessa speranza e la stessa allegria.


Catania, 15 gennaio 2006