La captive
di Virginia Cranchi




Nel film di Chantal Akerman, tre persone abitano in un grande appartamento borghese di Parigi, pieno di corridoi, penombre e scappatoie: una vecchia egoista, un ragazzo suo nipote, una ragazza.
Il ragazzo tiene la ragazza in cattività nelle stanze semibuie. Vuole conoscerla e possederla profondamente: gesti, sentimenti, pensieri, corpo e intelligenza. La complimenta, la contempla mentre dorme o fa la doccia, la inquisisce presso le amiche di lei, la spia, tenta di coglierla in fallo, le rivolge infinite domande: il loro rapporto sembra un lungo interrogatorio "dove sei andata, cosa hai fatto, con chi hai parlato, a chi hai telefonato?"

La ragazza, mite, non si scompone. Risponde sempre "Se vuoi", "Come vuoi". Parla con piacere delle sue piccole faccende. Risponde a ogni domanda, senza mai uno scatto di irritazione o di noia. Lui è in preda a un'ossessione disperata: sa che di lei, da lei, non saprà mai tutta la verità, che non sarà mai il padrone di lei, appena il carceriere. Lei è lieve, serena: sa che lui non riuscirà piú a sapere tutto, a scoprire che lei ama le donne, a non essere ingannato. Lui finge di volerla lasciare, sperando di ottenere la rivelazione di una qualche menzogna. Lei si getta in mare, muore.

L'ispirazione di Proust, l'illusorietà del possesso e della padronanza, l'ossessione amorosa, l'insaziabilità del desiderio sono raccontati benissimo, con opaca perfetta eleganza atemporale, con ritmo lento ma non tedioso.

Nel 1975, quando uscì "Jeanne Dielman, 23, Quai du Commerce,Bruxelles", ritratto esemplare di una casalinga-prostituta, ci si attendeva molto da Chantal Akerman, regista belga, ora cinquantaduenne, legata alla Francia e agli Stati Uniti. Dopo oltre un quarto di secolo, dopo "un ondeggiare nevrotico da un tema all'altro, da un racconto a una sperimentazione, da un tentativo di normale fiction a una totale dissoluzione del tessuto narrativo", si è smesso di aspettare.