Usciamo dal silenzio
di Lea Melandri


Rachel Ruysch

Care amiche,

sono certa che la manifestazione del 14 gennaio 2006 a Milano sarà grande e vivace. La quantità di commenti e proposte che sono arrivate al sito esprimono una condivisione di pensieri e sentimenti di cui alcune di noi avevano perso memoria e che altre, più giovani, forse non hanno mai conosciuto. I giornali diranno che “le streghe sono tornate” e coloriranno gli articoli col solito repertorio folcloristico, qualche esponente della sinistra attenta a ogni sussulto sociale si affretterà a collocare le “donne” a fianco di altri temi epocali, come la pace, il lavoro, l’ambiente, zone calde dello scontro col liberismo, si dirà addirittura convinto che nessuno meglio delle donne -ignorate fino al giorno prima o aggiunte frettolosamente ai margini dell’agenda politica sotto la voce “questioni di genere”- possa guidare il passaggio da un sistema di dominio alla “convivenza con la complessità del mondo vitale”. Dipende solo da noi impedire che una manifestazione riuscita resti solo l’evento entusiasmante di una giornata, e che i politici pensino di cavarsela con un omaggio cavalleresco che non sposta né le loro coscienze né i loro poteri.

Il rapporto uomo-donna, dentro il quale vanno collocati la sessualità, le gravidanze indesiderate, l’aborto e la maternità, ha radici antiche, primordiali, ma non per questo appartiene all’ordine della natura, o a un privato disgiunto dalla vita pubblica. Se la lontananza nel tempo è presa ancora come pretesto di una sua impenetrabile astoricità, ragione buona per non occuparsene, in modo opposto ma speculare la sua incidenza in tutto ciò che siamo e facciamo quotidianamente, nelle relazioni personali e sociali, nei rapporti amorosi e lavorativi, finisce per diventare invisibile come l’aria che respiriamo. Come spiegare altrimenti il fatto che una notizia, che dovrebbe far arretrare qualunque priorità –quella che indica gli omicidi da parte di mariti, padri, amanti, come la causa prima di morte delle donne- passa quasi inosservata per i politici, relegata in cronaca dai giornali, fatta materia di ordinaria patologia per gli esperti?

L’indignazione, la noia, il dissenso profondo che ci fa uscire oggi dal silenzio hanno più innervature di quanto si crede nell’esperienza di ognuna, e hanno soprattutto una storia collettiva che non dovremmo dimenticare. Sarebbe un errore pensare che sia solo un nuovo Medioevo o una seconda Controriforma a minacciare la nostra libertà, che l’autoritarismo patriarcale sia oggi una manovra delle gerarchie religiose e delle forze più conservatrici del nostro paese. Il dominio maschile controlla da un tempo immemorabile i corpi e i pensieri delle donne, così come dà forma alle maschere del femminile e della virilità. Far sì che non rimanga una “evidenza invisibile”, un dato ovvio e trascurabile, l’intreccio di amore e violenza a cui finiamo per adattarci inconsapevolmente ogni giorno, dipende dalla capacità che avremo di costruire nei luoghi, e in tutte le relazioni in cui ci troviamo a vivere e a operare, una sorta di osservatorio critico permanente, momenti collettivi di riflessione tra donne e con uomini disposti a interrogarsi come tali.

Perché l’uscita dal silenzio non significhi rientrarvi subito dopo, dovremmo fare della manifestazione non una iniziativa eccezionale per difendere libertà e diritti minacciati, ma l’inizio di una pratica politica quotidiana e duratura, improntata alla consapevolezza di quanto pesi il rapporto tra i sessi sulla realizzabilità di una convivenza umana meno distruttiva.

Ben ritrovate e a presto!

intervento pubblicato sul sito http://www.usciamodalsilenzio.org