Le donne 'invisibili'
di Lea Melandri

Caro Adriano, l'intestazione stessa della tua lettera-articolo, uscita su La Repubblica il 31.10.2001, Le donne invisibili, dice che, a rendere "invisibili" le donne, non è solo il burqa. Le ragioni sono molte, non ultimo il fatto che essere donne di cultura, aver pubblicato libri, essere conosciute per il proprio impegno politico, non è un requisito sufficiente per avere accesso ai giornali.

Eppure non c'è dubbio che le donne, anche in assenza di un movimento come quello degli anni '70, hanno continuato a riflettere individualmente e collettivamente. Può darsi che, per stanchezza, si siano rassegnate a restare nei luoghi che esse stesse hanno creato autonomamente, a lato delle istituzioni tradizionali del sapere e della politica, che abbiano privilegiato la costruzione di una socialità tra simili, suscettibile di riprodurre meccanismi noti di potere, dipendenza, frammentazione, ma anche di vederli, analizzarli e, nel migliore dei casi, modificarli.
Può darsi che sul versante pubblico si avverta oggi la stessa frattura che ha reso sempre più difficile incontrarsi nella vita privata, nell'amore e nell'amicizia. Il tentativo di costruirsi come individualità, fuori da ruoli prestabiliti, ha fatto della donna un essere strano e inquietante per l'uomo, che su quei ruoli ha eretto le sue difese, conosciuto i suoi desideri e le sue paure.
L'emancipazione cresce ma, come dici tu, i protagonisti delle foto storiche sono sempre prevalentemente di un sesso solo, e così i commentatori nei dibattiti televisivi e sulle pagine dei giornali, che non siano quelle della pubblicità, dello spettacolo e della cronaca nera. Lì le donne ci sono e, anzi, sovraesposte. Il silenzio non è più l'effetto di un'imposizione dichiarata, ma è sicuramente ancora l'appendice di un comando inconsapevolmente fatto proprio: che le donne devono stare al loro posto, e che, se parlano, devono sapere quello che dicono, sottintendendo che dicono per lo più sciocchezze.
Non sono mancati, anche in passato, uomini che hanno attribuito alle donne doti eccezionali -Bachofen, Michelet, Mantegazza, le hanno esaltate come riserva di umanità, pace e incivilimento-, ma si trattava sempre di virtù legate alla funzione materna e al sacrificio di sé per il bene dell'altro. Difficile ammettere semplicemente che possono, nella loro singolarità, avere pensieri con cui ci si può confrontare, pensieri che si possono scambiare. Eppure sono molte le donne che leggono, scrivono, dialogando con le opinioni degli uomini, riconoscendo di portarsi dentro gli stessi modelli, una visione del mondo che, comunque si sia formata, oggi possiamo interrogare e modificare. Non sembra che gli interlocutori se ne siano accorti, non dico gli uomini in generale, ma nemmeno i diretti interessati. Devo dare atto che tu sei uno dei pochi che nominano il rapporto tra i sessi ed è questo, oltre a una lunga amicizia, che mi spinge a tentare qualche risposta alla tua "lettera".
Parto dall'affermazione che le donne occidentali oggi hanno la libertà di disporre del loro corpo, mentre le donne afgane rappresenterebbero l' esempio più vistoso di un corpo che subisce una violenta cancellazione. È' vero, non c'è nessuna legge né di Dio né degli uomini che imponga di esporre le loro nudità a vallette televisive, aspiranti miss, casalinghe vogliose di abbellire con le loro grazie i calendari. Ma pur con la cecità o la fascinazione che la bellezza femminile induce, è difficile sottrarsi al pensiero che queste parate anatomiche abbiano sgradevoli richiami all'animalità e alla schiavitù. La violenza invisibile, che portiamo impressa nostro malgrado nella memoria del corpo, nel modo di sentire e di pensare noi stesse e il mondo, non può essere paragonata a quella che viene da fuori, ma vederla e analizzarla è importante proprio per capire come sia stato e sia tuttora possibile sopportare l'altra, anzi, talvolta non riconoscerla nemmeno come violenza.
Le donne che ho incontrato nella mia infanzia consideravano normale essere picchiate da mariti e figli, normale non denunciarli. E non era solo paura. Alcune donne afgane, istruite, nel corso di una intervista televisiva si dicevano meravigliate che i giornalisti occidentali fossero così preoccupati del loro burqa: non lo consideravano un impedimento o una aggressione. Altre, col burqa, hanno manifestato in Pakistan a favore del regime dei Talebani. Nessuno ignora, d'altra parte, che le mutilazioni genitali alle bambine, in molti paesi africani, avvengono col consenso delle madri. Le stesse monache forzate del Medio Evo, come dice Ida Magli nel suo libro Storia laica delle donne religiose (Longanesi 1995), hanno cercato di far propria una condizione imposta e, assolutizzando il loro martirio, approdare a una qualche forma di libertà.
Passività e attività, necessità e libertà, viste attraverso il vissuto personale, non sono così separate come si immagina. Questo, sono d'accordo con te, non può voler dire giustificare il disinteresse per le donne di altre culture con la considerazione che anche noi siamo, in qualche modo, oppresse. La specularità qui non vale, e anche l'affermazione di Fatema Mernissi, che il chador delle occidentali è la "taglia 42", è suggestiva più che convincente. Non è la stessa cosa; tuttavia le due forme di imposizione non sono così lontane l'una dall'altra come sembra e andrebbero viste in ciò che le accomuna, sempre che se ne abbia la forza e la capacità.
Aggiungo, e in questo so di scostarmi dal parere di molte amiche, che neanche l'"autodeterminazione" della donna in fatto di procreazione mi sembra libertà, quando vuol dire pretesa di fare figli in ogni modo possibile, e non solo il diritto di interrompere una gravidanza indesiderata. Sia nel caso della seduzione che della maternità, le donne sembrano aver fatto proprio il giudizio di valore, di potenza e di libertà che gli uomini vi hanno attribuito. Nell'illusione di poter volgere queste doti a proprio vantaggio, è passato in secondo piano il fatto che , proprio a partire da queste attrattive, l'uomo ha giustificato il suo dominio, il suo diritto all'autodifesa, l'imposizione di misure di controllo o di cancellazione.
E veniamo alla guerra. Innanzitutto un chiarimento: tu rilevi che negli articoli di alcune donne viene messa in evidenza la "specularità" tra Bush e Bin Laden, il presidente di uno Stato democratico e il capo di un'organizzazione terroristica, ma la spieghi riduttivamente, come se si riferisse al fatto che sono entrambi maschi. Dirò che cosa intendevo io scrivendo, in un articolo uscito su Il manifesto il 5.10.2001, che "il Bene e il Male paradossalmente si somigliano". La specularità è quella che si legge nell'organizzazione più arcaica del rapporto col "diverso": dietro l'apparente complementarità degli opposti -civiltà/barbarie, normalità/follia, ecc.-, traspare evidente la sovrapponibilità o l'interscambiabilità dei due poli.
Bush e Bin Laden si rimandano, quasi con le stesse parole, l'immagine di Bene e Male, Dio e Satana, si accusano reciprocamente di terrorismo, dicono entrambi di essere in guerra. Ma anche le "ragioni" che adducono per combattere il nemico, per chi non conoscesse il contesto politico economico e sociale in cui si muovono, e sono certamente i più, possono suonare equivalenti: difesa dei propri valori culturali, riparazione per l'offesa ricevuta, giustizia resa a chi ha subìto umiliazioni. L'unica differenza è che l'appiattimento della giustizia sulla vendetta è ferocemente dichiarato da chi, come Bin Laden, dice di voler "fare assaggiare " all'America un po' del terrore che essa ha seminato nel mondo.
Ma siamo così sicuri che questa logica apocalittica, che rende interscambiabili il bene e il male, che fa procedere il castigo sul filo della stessa spada del crimine, ci sia estranea, estranea alle nostre guerre "giuste", al nostro modo di vedere e agire i conflitti? La pena di morte assomiglia molto, come è già stato notato da più parti, alla volontà di ripagare il delitto con la stessa moneta.
Forse oggi siamo in grado di riconoscere che quello che è parso per lungo tempo "necessario" era dovuto alla permanenza, e all'irruzione nella storia, di riflessi arcaici restii a lasciarsi portare alla coscienza. Anche il dominio maschile può essere letto in questa chiave, come esito delle paure primordiali di un figlio rispetto all'organismo unico che l'ha generato, come desiderio che quel corpo resti dimora per il suo ritorno. Ma quando la "necessità" si allenta, la consapevolezza fa un salto, comincia a vedere altre vie, fuori dalla stretta della sopravvivenza: morte tua, vita mia.
Oggi io vedo alcuni di questi scarti della coscienza farsi strada, pur tra mille ostacoli, in uomini e donne. Molti commentatori hanno parlato, dopo l'11 settembre, di "autocoscienza dell'Occidente", del bisogno di fermarsi a riflettere per dare ai pensieri un altro andamento. Dire "no alla guerra" oggi, in qualsiasi forma si manifesti, significa per me essenzialmente due cose: non ignorare che le guerre sono state fino ad ora strumento di dominio e, contraddittoriamente, via obbligata di molte lotte di liberazione; riconoscere nel medesimo tempo, alla luce di nuove consapevolezze, che le guerre hanno anche impedito di affrontare a fondo i conflitti, di risalire alle cause dell'odio che le muove, di prevenirle, di creare le condizioni per una migliore convivenza umana. Ci sono stati tanti e straordinari cambiamenti nella storia dell'umanità, perché non dovrebbe cambiare anche l'idea di ciò che è "reale" e "possibile"?