Eppure non
c'è dubbio che le donne, anche in assenza di un movimento come
quello degli anni '70, hanno continuato a riflettere individualmente e
collettivamente. Può darsi che, per stanchezza, si siano rassegnate
a restare nei luoghi che esse stesse hanno creato autonomamente, a lato
delle istituzioni tradizionali del sapere e della politica, che abbiano
privilegiato la costruzione di una socialità tra simili, suscettibile
di riprodurre meccanismi noti di potere, dipendenza, frammentazione, ma
anche di vederli, analizzarli e, nel migliore dei casi, modificarli.
Può
darsi che sul versante pubblico si avverta oggi la stessa frattura che
ha reso sempre più difficile incontrarsi nella vita privata, nell'amore
e nell'amicizia. Il tentativo di costruirsi come individualità,
fuori da ruoli prestabiliti, ha fatto della donna un essere strano e inquietante
per l'uomo, che su quei ruoli ha eretto le sue difese, conosciuto i suoi
desideri e le sue paure.
L'emancipazione
cresce ma, come dici tu, i protagonisti delle foto storiche sono sempre
prevalentemente di un sesso solo, e così i commentatori nei dibattiti
televisivi e sulle pagine dei giornali, che non siano quelle della pubblicità,
dello spettacolo e della cronaca nera. Lì le donne ci sono e, anzi,
sovraesposte. Il silenzio non è più l'effetto di un'imposizione
dichiarata, ma è sicuramente ancora l'appendice di un comando inconsapevolmente
fatto proprio: che le donne devono stare al loro posto, e che, se parlano,
devono sapere quello che dicono, sottintendendo che dicono per lo più
sciocchezze.
Non
sono mancati, anche in passato, uomini che hanno attribuito alle donne
doti eccezionali -Bachofen, Michelet, Mantegazza, le hanno esaltate come
riserva di umanità, pace e incivilimento-, ma si trattava sempre
di virtù legate alla funzione materna e al sacrificio di sé
per il bene dell'altro. Difficile ammettere semplicemente che possono,
nella loro singolarità, avere pensieri con cui ci si può
confrontare, pensieri che si possono scambiare. Eppure sono molte le donne
che leggono, scrivono, dialogando con le opinioni degli uomini, riconoscendo
di portarsi dentro gli stessi modelli, una visione del mondo che, comunque
si sia formata, oggi possiamo interrogare e modificare. Non sembra che
gli interlocutori se ne siano accorti, non dico gli uomini in generale,
ma nemmeno i diretti interessati. Devo dare atto che tu sei uno dei pochi
che nominano il rapporto tra i sessi ed è questo, oltre a una lunga
amicizia, che mi spinge a tentare qualche risposta alla tua "lettera".
Parto
dall'affermazione che le donne occidentali oggi hanno la libertà
di disporre del loro corpo, mentre le donne afgane rappresenterebbero
l' esempio più vistoso di un corpo che subisce una violenta cancellazione.
È' vero, non c'è nessuna legge né di Dio né
degli uomini che imponga di esporre le loro nudità a vallette televisive,
aspiranti miss, casalinghe vogliose di abbellire con le loro grazie i
calendari. Ma pur con la cecità o la fascinazione che la bellezza
femminile induce, è difficile sottrarsi al pensiero che queste
parate anatomiche abbiano sgradevoli richiami all'animalità e alla
schiavitù. La violenza invisibile, che portiamo impressa nostro
malgrado nella memoria del corpo, nel modo di sentire e di pensare noi
stesse e il mondo, non può essere paragonata a quella che viene
da fuori, ma vederla e analizzarla è importante proprio per capire
come sia stato e sia tuttora possibile sopportare l'altra, anzi, talvolta
non riconoscerla nemmeno come violenza.
Le
donne che ho incontrato nella mia infanzia consideravano normale essere
picchiate da mariti e figli, normale non denunciarli. E non era solo paura.
Alcune donne afgane, istruite, nel corso di una intervista televisiva
si dicevano meravigliate che i giornalisti occidentali fossero così
preoccupati del loro burqa: non lo consideravano un impedimento o una
aggressione. Altre, col burqa, hanno manifestato in Pakistan a favore
del regime dei Talebani. Nessuno ignora, d'altra parte, che le mutilazioni
genitali alle bambine, in molti paesi africani, avvengono col consenso
delle madri. Le stesse monache forzate del Medio Evo, come dice Ida Magli
nel suo libro Storia laica delle donne religiose (Longanesi 1995), hanno
cercato di far propria una condizione imposta e, assolutizzando il loro
martirio, approdare a una qualche forma di libertà.
Passività
e attività, necessità e libertà, viste attraverso
il vissuto personale, non sono così separate come si immagina.
Questo, sono d'accordo con te, non può voler dire giustificare
il disinteresse per le donne di altre culture con la considerazione che
anche noi siamo, in qualche modo, oppresse. La specularità qui
non vale, e anche l'affermazione di Fatema Mernissi, che il chador delle
occidentali è la "taglia 42", è suggestiva più
che convincente. Non è la stessa cosa; tuttavia le due forme di
imposizione non sono così lontane l'una dall'altra come sembra
e andrebbero viste in ciò che le accomuna, sempre che se ne abbia
la forza e la capacità.
Aggiungo,
e in questo so di scostarmi dal parere di molte amiche, che neanche l'"autodeterminazione"
della donna in fatto di procreazione mi sembra libertà, quando
vuol dire pretesa di fare figli in ogni modo possibile, e non solo il
diritto di interrompere una gravidanza indesiderata. Sia nel caso della
seduzione che della maternità, le donne sembrano aver fatto proprio
il giudizio di valore, di potenza e di libertà che gli uomini vi
hanno attribuito. Nell'illusione di poter volgere queste doti a proprio
vantaggio, è passato in secondo piano il fatto che , proprio a
partire da queste attrattive, l'uomo ha giustificato il suo dominio, il
suo diritto all'autodifesa, l'imposizione di misure di controllo o di
cancellazione.
E veniamo
alla guerra. Innanzitutto un chiarimento: tu rilevi che negli articoli
di alcune donne viene messa in evidenza la "specularità"
tra Bush e Bin Laden, il presidente di uno Stato democratico e il capo
di un'organizzazione terroristica, ma la spieghi riduttivamente, come
se si riferisse al fatto che sono entrambi maschi. Dirò che cosa
intendevo io scrivendo, in un articolo uscito su Il manifesto il 5.10.2001,
che "il Bene e il Male paradossalmente si somigliano". La specularità
è quella che si legge nell'organizzazione più arcaica del
rapporto col "diverso": dietro l'apparente complementarità
degli opposti -civiltà/barbarie, normalità/follia, ecc.-,
traspare evidente la sovrapponibilità o l'interscambiabilità
dei due poli.
Bush
e Bin Laden si rimandano, quasi con le stesse parole, l'immagine di Bene
e Male, Dio e Satana, si accusano reciprocamente di terrorismo, dicono
entrambi di essere in guerra. Ma anche le "ragioni" che adducono
per combattere il nemico, per chi non conoscesse il contesto politico
economico e sociale in cui si muovono, e sono certamente i più,
possono suonare equivalenti: difesa dei propri valori culturali, riparazione
per l'offesa ricevuta, giustizia resa a chi ha subìto umiliazioni.
L'unica differenza è che l'appiattimento della giustizia sulla
vendetta è ferocemente dichiarato da chi, come Bin Laden, dice
di voler "fare assaggiare " all'America un po' del terrore che
essa ha seminato nel mondo.
Ma
siamo così sicuri che questa logica apocalittica, che rende interscambiabili
il bene e il male, che fa procedere il castigo sul filo della stessa spada
del crimine, ci sia estranea, estranea alle nostre guerre "giuste",
al nostro modo di vedere e agire i conflitti? La pena di morte assomiglia
molto, come è già stato notato da più parti, alla
volontà di ripagare il delitto con la stessa moneta.
Forse oggi siamo in grado di riconoscere che quello che è parso
per lungo tempo "necessario" era dovuto alla permanenza, e all'irruzione
nella storia, di riflessi arcaici restii a lasciarsi portare alla coscienza.
Anche il dominio maschile può essere letto in questa chiave, come
esito delle paure primordiali di un figlio rispetto all'organismo unico
che l'ha generato, come desiderio che quel corpo resti dimora per il suo
ritorno. Ma quando la "necessità" si allenta, la consapevolezza
fa un salto, comincia a vedere altre vie, fuori dalla stretta della sopravvivenza:
morte tua, vita mia.
Oggi
io vedo alcuni di questi scarti della coscienza farsi strada, pur tra
mille ostacoli, in uomini e donne. Molti commentatori hanno parlato, dopo
l'11 settembre, di "autocoscienza dell'Occidente", del bisogno
di fermarsi a riflettere per dare ai pensieri un altro andamento. Dire
"no alla guerra" oggi, in qualsiasi forma si manifesti, significa
per me essenzialmente due cose: non ignorare che le guerre sono state
fino ad ora strumento di dominio e, contraddittoriamente, via obbligata
di molte lotte di liberazione; riconoscere nel medesimo tempo, alla luce
di nuove consapevolezze, che le guerre hanno anche impedito di affrontare
a fondo i conflitti, di risalire alle cause dell'odio che le muove, di
prevenirle, di creare le condizioni per una migliore convivenza umana.
Ci sono stati tanti e straordinari cambiamenti nella storia dell'umanità,
perché non dovrebbe cambiare anche l'idea di ciò che è
"reale" e "possibile"?
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