Marina Forti, Il cuore di tenebra dell’India, inferno sotto il miracolo

Manuela Cartosio

 

 

Il “cuore di tenebra” che campeggia nel titolo dell’ultimo libro-reportage sull’India di Marina Forti non è solo una citazione letteraria, un omaggio a Conrad. E’ il rovescio, la faccia nascosta, dell’India shining, l’India splendente, slogan della campagna elettorale del 2004 del Bharatiya janata party, allora al potere. Tornato in sella il partito del Congresso di Sonia Gandhi, quello slogan è rimasto il marchio pubblicitario del miracolo economico che ha piazzato l’India tra i Bric – i paesi emergenti -  e ha fatto versare fiumi d’inchiostro sulla Tigre, l’India appunto, che insegue il Dragone,  la Cina.

Lo scorso agosto un grande black out ha lasciato al buio 21 dei 28 stati che compongono l’India. Dei 700 milioni di abitanti dei 21 stati solo 320 milioni hanno risentito direttamente del  black out . Tutti gli altri  non sono collegati alla rete elettrica. Il sospetto che lo splendore propagandato abbia provocato un grande abbaglio, un auto inganno collettivo si è insinuato anche in chi è convinto che la crescita delle disuguaglianze tra ricchi e poveri, la devastazione dell’ambiente, la corruzione dilagante, gli slum, i milioni di adulti e bambini sottoalimentati  siano il prezzo da pagare alla crescita del pil e alla formazione di una classe media in grado di consumare. Marina Forti, inviata del manifesto e assidua viaggiatrice nel subcontinente indiano, in questo abbaglio non è mai caduta. Non ha mai dimenticato che nella “più grande democrazia del mondo” (un miliardo e 200 milioni di abitanti) il numero dei miliardari indiani sarà pure raddoppiato, ma il 69% della popolazione vive con meno di 2 dollari al giorno e il 35% con meno di 1 dollaro.

In questo libro, Forti si occupa dei più poveri tra i poveri, gli adivasi , gli “abitanti originari”, i “tribali”, quasi 100 milioni di persone che vivono nelle zone montagnose di alcuni stati del Nordest - Jharkhand, Chhattisgarh, Orissa – i più ricchi di risorse minerarie: carbone, ferro, bauxite. La coincidenza geografica tra tribal belt e mineral belt è all’origine della “strana guerra” oggetto del reportage. Da una parte, le ragioni di uno sviluppo, promosso dallo Stato dopo l’indipendenza e proseguito poi dal capitale privato, che divora e consuma acqua, foresta, terra; dall’altra, la cultura spirituale e materiale delle popolazioni native che traggono sostentamento e identità da quei tre elementi – Jal, Jungle, Zameen – li usano con il rispetto dovuto ai beni comuni, si oppongono alla privatizzazione e agli espropri di rapina. Per certi versi, nell’ex perla dell’Impero sta succedendo quel che in Inghilterra avvenne tre secoli fa con le enclosures, le recinzioni delle terre comuni che costrinse i contadini a inurbarsi, li trasformò in salariati, vera forza motrice della rivoluzione industriale e del capitalismo moderno. Il parallelo storico però è zoppo: nelle miniere, nelle acciaierie, nelle fabbriche gli adivasi espulsi dal loro habitat sono pochi, relegati alle mansioni più umili  e servili, restano marginali, non entrano nei raghi di una classe operaia ancora percentualmente esigua in India. “Se Gandhi fosse vivo, sarebbe dalla parte degli adivasi”, afferma un difensore dei loro diritti. Un Marx redivivo forse non lo sarebbe. Di certo non sono dalla parte dei nativi  i sindacati: in sintonia con le multinazionali, li considerano un intralcio sulla strada del progresso e dello sviluppo. La classe media urbana li disprezza come un imbarazzante residuo del passato.

Una decina  d’anni fa alla mappa delle miniere e delle popolazioni tribali si è aggiunta la mappa della ribellione armata e la guerra strana è diventata “sporca”. A occupare la scena sono stati i maoisti, detti anche naxaliti perché si rifanno alla rivolta per la redistribuzione della terra avvenuta nel 1967 nel villaggio di Naxalbari, nel Bengala occidentale. Individuano nei nativi “la forza trainante della rivoluzione”, si battono anche con le armi contro l’esproprio delle terre, hanno reclutato militanti tra i giovani adivasi. Il governo centrale e quelli locali hanno strumentalmente enfatizzato la minaccia dei naxaliti pur di reprimerli con ogni mezzo, incendi, violenze, stupri, omicidi spacciati per scontri a fuoco, spesso appaltati a una milizia paramilitare, la Salwa Judum. I maoisti, da parte loro, hanno gonfiato i confini delle cosiddette “zone liberate” e  per finanziarsi non hanno disdegnato metodi mafiosi, come imporre il pizzo alle industrie minerarie  in cambio di protezione. I nemici, in sostanza, hanno collaborato per far credere che l’unico imprenditore politico della questione tribale siano i maoisti.
Non è così, obietta Marina Forti e il suo reportage dà voce a movimenti, associazioni, attivisti disarmati che si battono nei villaggi e nei tribunali per i diritti degli adivasi. In questo senso il suo libro è più ricco, variegato e istruttivo del diario tenuto nella foresta da Arundhati Roy In marcia con i ribelli, recentemente tradotto da Guanda, costato alla scrittrice indiana l’accusa di fiancheggiatrice della lotta armata e di un partito fuorilegge.

Sia in India che in America le lotte degli indigeni in difesa della Madre Terra sono l’unico bastione contro lo sfruttamento speculativo e insensato di risorse naturali finite e non rigenerabili.  I moderni benecomunisti ne traggono conferme per il loro credo.  I veterocomunisti prendono atto con costernazione che l’unico comunismo possibile oggi sembra essere quello delle origini, come se la storia avesse fatto il suo il suo giro e fossimo tornati alla partenza. I vetero, comunque, una domanda la fanno,  flebilmente, come si conviene a chi ha sulle spalle il macigno del fallimento del comunismo novecentesco: non c’è il rischio di idealizzare troppo la Natura e il Primitivo? Trovano la risposta di Marina Forti  a pagina 153: “Si può sottoscrivere o meno la visione delle popolazioni indigene come portatrici di una speciale armonia con la natura, o di un inalienabile diritto di proprietà sulle terre e le risorse che vi sono racchiuse. Resta però il fatto che gli adivasi sono la parte più sfruttata e oppressa della popolazione indiana, e l’industria mineraria è solo l’ultima delle sciagure che si è abbattuta su di loro”.
Pur essendo una fonte di parte non la pensa diversamente il direttore generale di un’impresa che costruisce oleodotti: “Il problema comincia quando per estrarre minerali entri nell’habitat di qualcuno. Gli adivasi erano là. Hanno la loro vita. Noi arriviamo, e per cacciarli via dalla zona su cui abbiamo messo gli occhi cominciamo a trattarli da criminali. E tutto va a favore nostro, la polizia è con noi: così, quelli prima o poi prendono il fucile. Chi sono i naxaliti se non villagers a cui non sono lasciate alternative. Insomma, questo conflitto è il risultato di uno squilibrio sociale di proporzioni gigantesche.”
Il veterocomunista prende, incarta e porta a casa.

 

Marina Forti,
Il cuore di tenebra dell’India, inferno sotto il miracolo
Bruno Mondadori, 2012, 165 pagine, 16 euro

 

9-01-2013

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