Donne italiane e migranti «non viste»
di Manuela Cartosio

 

Il rapporto tra donne migranti e donne native è il grande assente nelle riflessioni femminili seguite all'uccisione di Hina Saleem, agli stupri commessi da extracomunitari e, da ultimo, al suicidio della vedova indiana Kaur che ci ha «affidato» i due figli prima di buttarsi sotto il treno (e poco cambia che il secondo marito avesse 37 e non 70 anni). Il richiamo «E le femministe che dicono?», pur se sgrammaticato, malevolo e ignorante, ha avuto il merito di mettere in piazza un rovello fin qui confinato nella pubblicistica femminile: «Il multiculturalismo è un male per le donne?».

Sì, lo è, se scade in un relativismo culturale indifferente, se chiude gli occhi di fronte alla non libertà delle donne in diverse comunità straniere, segnatamente quelle di religione islamica e con forti legami di clan. E però, aggiungono «le femministe», non sono solo i padri pachistani a tagliare la gola «per ragioni d'onore» alle figlie trasgressive e ribelli, non sono solo i nordafricani a stuprare le donne. I delitti contro le donne vengono sussunti sotto l'ampio mantello di un patriarcato declinato diversamente nel tempo e nello spazio, ma in ultima istanza identico.

Giusta o sbagliata che sia questa reductio ad unum, l'analisi guarda ai patriarchi, omette le donne migranti e soprattutto svicola sul complicato o inesistente rapporto tra loro e noi. Parlo in prima persona. Perché io, che pure mi occupo di queste cose per mestiere, ho scoperto solo qualche giorno fa che oltre la metà delle donne violentate a Milano sono straniere? Perché io, che pure mi picco di sapere qualcosa di Brescia, solo «dopo Hina» ho realizzato che i film e i romanzi anglo-pachistani potrebbero essere ambientati in Val Trompia?

Mi sono data due risposte. Le donne immigrate invisibili e segregate come le pachistane non le vogliamo vedere perché ci riportano a una condizione di «vittima», spesso connivente, che ci siamo scrollate di dosso solo l'altro ieri. I diritti non si insegnano, ci diciamo, ognuna se li deve conquistare. Anche questo è vero, ma rischia di diventare un alibi che delega tutta la fatica dell'incontro-scontro a operatrici socio-assistenziali, insegnati, ginecologhe, mediatrici culturali.

Le donne migranti latino americane o slave, invece, le vediamo benissimo. Stanno nelle nostre case, ci sostituiscono nei lavori di cura, accudiscono i nostri bambini e i nostri vecchi. Ci risolvono un sacco di problemi, ma ce ne pongono uno enorme con noi stesse: essere non solo «padrone» di altre donne (e già sarebbe una bella gatta da pelare), ma anche ladre di affetti. Siamo parte attiva in quel grande esproprio di affetti di cui parla il rapporto della Nazioni Unite diffuso ieri sulle donne migranti.

I soldi (non tantissimi) che paghiamo a badanti e colf diventano rimesse che tengono in piedi l'economia dei paesi poveri. Ma non compensano la cura sottratta alle loro famiglie e dirottata sulle nostre, la lunga assenza, i matrimoni saltati per aria, le sindromi d'abbandono dei figli. Oltre che diseguale, come tutti i rapporti salariari, il nostro rapporto con colf e badanti straniere è, salvo rarissime eccezioni, un viluppo di sensi di colpa e di bugie.

Se non si scioglie questo nodo, non ci sarà inclusione delle migranti nel movimento delle donne. Stiamo parlando di un fenomeno di massa. Il mezzo milione stimato di badanti fotografa solo il presente. Nell'arco degli ultimi dieci anni milioni di donne italiane hanno usufruito del lavoro delle migranti. Ragazze, vogliamo parlarne?

 


questo articolo è apparso su
il manifesto del 7 settembre 2006