Le donne di Cavalese

di Vittorio de Savorgnani


Marianne von Werefkin

Abito ai piedi della famosa Foresta del Cansiglio, a cavallo tra Veneto e Friuli, che ormai da 22 anni è diventata anche il luogo del mio lavoro. Ma per me il Cansiglio è molto di più. I miei nonni materni erano cimbri (comunità proveniente dall’altipiano di Asiago alla fine del ‘700 e, prima ancora, dalla Baviera); da loro ho assorbito, fin da bambino, l’idea del bosco come un luogo importante, vivo, pieno di presenze, fonte di vita e lavoro ma anche pericoloso e misterioso. Una visione primitiva ed emotiva  ma che, anche attraverso il timore per ciò che è sconosciuto, non poteva che generare rispetto. Del resto la paura per la foresta fa parte della nostra memoria ancestrale e la prova di questo antico sentire la possiamo trovare  in alcune parole che usiamo comunemente, pur senza la coscienza della loro origine: selvatico  o selvaggio  è ciò che proviene dalle selve, mentre chi non fa parte della nostra comunità e viene da un altro luogo, anche se questo è un termine d’uso dialettale, è definito come foresto, dunque sempre la foresta di mezzo.

Nel 2004 ho compiuto mezzo secolo di vita e circa 5 anni fa ho capito che questo mio bagaglio di conoscenze, acquisito per lo più inconsapevolmente, attraverso i nonni, i boscaioli, i pastori dell’altopiano del Cansiglio, andava  fissato in qualche modo. Ricordavo storie e racconti sentiti da un mucchio di gente, per lo più anziani, che se n’erano andati  senza lasciare traccia alcuna. Così ho incominciato a scrivere, senza alcuna pretesa di ricerca antropologica, ma solo per amore e rispetto di quelle generazioni che ci hanno preceduto, affrontando esperienze  di vita dure ma anche, molto spesso, avventurose e affascinanti. Una dimensione che  abbiamo perso quasi del tutto, ossessionati, anche giustamente, dal bisogno di garanzie e sicurezze.

Dopo un anno di notti trascorse a scrivere e correggere, ne è uscito un libro che ho intitolato Cansiglio nostra Signora, pubblicato tre anni fa, nel quale non solo ho riportato le leggende e le storie raccolte, ma ho inserito anche esperienze personali e l’interpretazione di eventi attuali.  E qui vengo al perché di questo mio intervento. Mentre stavo raccogliendo materiale per il libro, era ancora viva e dolorosa la memoria dell’incidente del Cermis, avvenuto il 3 febbraio del 1998, quando un aereo militare americano, di una pattuglia in volo di addestramento, tranciò la fune della cabinovia provocando 20 morti.

Ma quella squadriglia era partita dalla base USA di Aviano (Pordenone), proprio sotto la Foresta del Cansiglio… Così mi sono interessato alla funivia del Cermis, al suo tragico record di incidenti, visto che il 9 marzo del 1976 una sua cabina era precipitata provocando 42 morti. Raccogliendo articoli dalla stampa sono venuto a conoscenza della leggenda della “maledizione del Cermis” che sarebbe stata pronunciata da 15 donne della Val di Fiemme, accusate di stregoneria, arrestate, torturate, condannate e poi bruciate tra il 14 gennaio ed il 20 aprile del 1505. Ho ritrovato tutta la loro tragica storia in Processo per magia di M. Antonietta Serena e Nino Berruti, da cui si capisce come delle semplici donne siano diventate “streghe” perché in quel periodo in ogni luogo, in ogni valle, ci dovevano essere degli esempi drammatici ed intimidatori per riportare il popolo sulla “retta via”. Dieci donne bruciate, cinque morte sotto tortura, ma in un periodo in cui, in tutta l’Europa, i processi  dell’inquisizione si contarono a decine di migliaia e a centinaia di migliaia i morti.

Ma ho anche scoperto che, da qualche anno, questo tragico evento era rinnovato con una specie di rievocazione teatrale, nei primi giorni dell’anno ed ho voluto assistervi venendo a Cavalese sia nel 2002 che nel 2003. La prima volta sono rimasto molto coinvolto dalla rievocazione, complice l’ambientazione notturna, la partecipazione emotiva degli attori e la  drammaticità degli eventi. Invece la seconda volta tutto mi è apparso sotto una luce diversa ed ho provato fastidio ed un senso di ribellione: si stava ricordando un evento luttuoso che aveva provocato dolore e morte ed uno strascico di terrore durato per secoli, ma lo si stava riproponendo in modo folcloristico e strumentale, con lo spirito della sagra di paese organizzata nel periodo di maggior presenza turistica. Era evidente che la scelta del periodo era funzionale a far rientrare l’evento nella lista degli intrattenimenti mondani per i turisti dello sci invernale, nel periodo delle ferie natalizie. Sarebbe come organizzare la rievocazione della tragedia del Vajont come uno spettacolo per i turisti estivi… I fatti di Cavalese non sono recenti come  il crollo della diga bellunese, sono passati 5 secoli, ma sempre di morti si tratta e soprattutto a quelle vittime innocenti non è stata ancora resa giustizia.

Per questo mi è sembrato ipocrita ed ingiusto sentire, per due volte, il commentatore fuori campo ripetere “..noi non giudichiamo la storia..”. Ma come è possibile? Sarebbe come leggere Il diario di Anna Franck e poi rifiutarsi di giudicare…

E’ mia opinione che gli abitanti di Cavalese dovrebbero rifiutarsi di trasformare una pagina  dolorosa della loro storia in un richiamo turistico o, almeno, avere il coraggio di riconoscere che quelle donne sono state delle vittime innocenti. O si ritiene che questo possa “disturbare” i turisti togliendo truculenza alla narrazione e dando alla rievocazione un taglio troppo “politico”? Troppo comodo e da opportunisti nascondersi  dietro l’imparzialità storica in nome dell’industria turistica!

Il mio augurio è che si formi un gruppo di abitanti di Cavalese desiderosi di capire quello che è veramente accaduto nella loro valle e desiderosi di rendere giustizia, anche dopo secoli: lo stesso Santo Padre, Giovanni Paolo II, ha avuto il coraggio di chiedere pubblicamente scusa per le violenze e gli omicidi dell’inquisizione, possibile che a Cavalese non si senta il bisogno di riabilitare quelle vittime innocenti?

Innanzitutto bisognerebbe smetterla di definirle streghe e, caso mai, definirle “le donne di Cavalese” e bisognerebbe, è mia opinione, dedicare loro una festa di riabilitazione e riconciliazione, in primavera o in estate, per e tra gli abitanti della Val di Fiemme.

Nella rievocazione invernale, sotto l’esile crosta dell’evento turistico, sembra di sentire ancora la nera energia dell’inquisizione: ma come si fa a divertirsi a sentire le urla strazianti delle donne quando viene pronunciata la condanna, al Banco della Rason? Come si fa a non sentire lo strazio, anche se di finzione si tratta, quando si levano alte nella notte le fiamme dei roghi?

Vien quasi da pensare che se dopo cinque secoli il ricordo del processo è ancora così vivo in valle, forse la comunità fiemmazza prova ancora, anche se non lo vuol riconoscere, una qualche forma di rimorso su cui farebbe bene a ripensare e sarebbe una prova di grande umiltà, intelligenza e sensibilità umana e storica.

 

15/02/2005