Intorno a un cerchio
Una riflessione sui corsi dell 'Università delle donne con il gruppo di Cernusco

di Donatella Bassanesi

 


Maria Morganti



…e pescare nel cerchio
dove volano e si versano i pensieri pensati
e le sensazioni percepite in quel cerchio in mezzo al quale
spira una dolce aria di voglia di crescere e dove fluttua
tutto ciò che non siamo ancora in grado di fermare.

Ilaria Dello Strologo


Noi usiamo il registratore, vorremmo riprodurre comunicare cosa avviene nei nostri corsi. Ma la registrazione non rende cosa avviene qui dentro. La trascrizione appiattisce. "La registrazione esatta di una conversazione che era sembrata brillante dà poi un'impressione di povertà: manca infatti la presenza degli interlocutori, mancano i gesti, le fisionomie, il sentimento di qualcosa che sta per sopraggiungere, di una continua improvvisazione. Oramai la conversazione non esiste più: essa è, livellata" M. Merleau-Ponty, Segni, Milano, 1967, p. 84).

Ci sono momenti alti, intuizioni da cui diversamente ciascuna è colpita, immagini. A volte, l'effetto è trascinante. Prende forma tra di noi come un segreto. Sono momenti irriproducibili. Possiamo dire che noi qui commentiamo. E "Il commento proietta lo spirito in tutte le direzioni, evoca un passato cospicuo, concentra una massa imponente di sogni e di paura" (G. Bachelard, Psicanalisi dell'aria, Como, 1988, p. 98).

Ripensare a quel che è avvenuto, scriverci attorno allunga questo tempo, lo modifica, lo svela, lo mostra come possibilità. Sono riflessi che ci spostano verso il futuro, producono qualcosa che ci chiede di intervenire, ci interroga. E l'interrogazione va oltre la richiesta di spiegazione. Non si tratta semplicemente di spiegare, un aprire ciò che è chiuso (un togliere le pieghe). È piuttosto una domanda di chiarificazione, come un illuminare spazi-luoghi diversi che intervengono mutando la prospettiva, alterano l'impianto fissato, insistono evidenziando punti nodali che tornano ripetutamente fino a diventare parole-chiave, strumenti interpretativi di un discorso che, insieme, si va facendo. Ciò che avviene, che è avvenuto è per ognuna diversamente. Mai veramente si compie, piuttosto tende al compimento. Qualcosa passa inosservata.

Qualcosa ha avuto per noi importanza, si è impressa, pesa, ci inquieta, torna e ci interroga. Occupa dell'altro tempo. Va oltre il tempo. Il tempo così si dilata, non è il tempo dell'orologio uniformemente uguale, scorre diversamente per ognuna. E c'è dell'altro. I ritorni, insistenze intorno a, nel momento in cui vengono comunicati diventano patrimonio comune, di tutte. Mostrano a tutte qualcosa. In quanto ri-velazioni indicano qualcosa, che tuttavia torna sempre a velarsi - lascia aperta la domanda, dà nuovo senso all'interrogazione: così la domanda viene sempre come seconda, rimane aperta, non richiede risposta. Questo insistere corrisponde a un pensiero che viene formandosi collettivamente. E insieme, per ognuna uno spazio-tempo, un luogo quantitativamente e qualitativamente diverso.

Un lavoro che è un intreccio, nel quale l'impianto teorico è sostenuto da voci, un contro-canto, non marginale. Perché sono le singole ragioni, ragionamenti, pensieri che sostengono le proprie ragioni. Momenti che sono i motori: allargano spazio e tempo. Fanno emergere figure non-tranquillizzanti e definite.

Sono voci narranti che s-velano e ri-velano. È un narrare (comunque imperfetto, approssimativo ma significativo) di quello che è avvenuto e avviene tra di noi, un'intuizione di cui più tardi, riflettendo, riusciamo a capire la portata. Si tratta di un ri-pensare come un ri-percorrere e un ri-scrivere leggendo tra le righe. C'è tra di noi un tra le righe che sta nel soggetto. Per ognuna ri-ragionare, di ognuna con una diversa esperienza. Non si tratta di giudicare, ma di segnalare. Riuscendo a seguire ogni percorso soggettivo vedremmo come si intrecciano i fili (come noi costituiamo i fili di un intreccio). Il gruppo agisce come un discorso collettivo, parola in comune. Il gruppo così dice se stesso, è io narrante, agente, azione. Nel parlare-agire il gruppo diventa creatore-creatura, nasce, si fa esistente.

La domanda che ci poniamo a questo punto è: come può il gruppo manifestare la sua esistenza al di là di se stesso?
Il gruppo può mostrarsi fuori (che è poi vedersi dal di fuori)?
Il gruppo può descriversi. Ma solo attraverso le descrizioni (i racconti, le riflessioni) di singole.
Cosa vuole dire riflettere attraverso la scrittura?


Prima di tutto la scrivente è una. Dominante sarà perciò la sua soggettività. E tuttavia quella soggettività sta all'interno di un farsi a più, cioè di un molteplice. Inoltre scrivere è un modo di tornare sulle cose, un pensare interrogante, quello che più si interroga, perché lo scritto è qualcosa di altro da sé che ti osserva in qualche modo dal di fuori. Si tratta di un vedersi dal di fuori, un'attitudine a giudicarsi piuttosto che giudicare qualcosa che sta al di fuori di sé. Lo scritto che è perciò altro da sé ma che parte da sé, che porta a un continuo sdoppiamento (e anche una scoperta, una parte di sé che non riconosce l'altra). Qualcosa cambia. Ma con il passaggio dall'esperienza alla riflessione sull'esperienza - dall'ordine degli eventi a quello dell'espressione - non si cambia mondo.

Scrive Merleau-Ponty: "I medesimi dati che prima erano subiti divengono ora sistemi significanti. Scavati, lavorati dall'interno, liberi infine dal peso che ce li rendeva dolorosi o ci feriva, divenuti trasparenti o perfino luminosi, e capaci di rischiarare non solo gli aspetti del mondo che somigliano loro, ma anche gli altri, essi continuano a essere presenti nonostante la loro metamorfosi" (M. Merleau-Ponty, Segni, Milano, 1967).

Franca: Non è qualcosa di simile alla psicoanalisi?
Donatella: In un certo senso. Ma nella psicoanalisi c'è un referente esterno che è lo psicoanalista.
Ilaria: Potrebbe essere anche pericoloso, risvegliare qualcosa che poi non potremmo gestire.
Donatella: Ma no…tenete presente che il nostro obbiettivo primo è che ciò che avviene tra di noi non sparisca. E d'altra parte il lavoro di ripensamento è necessario in qualsiasi forma espressiva: ogni forma espressiva è un pensare e un ripensare. Non c'è interprete ultima.
E si potrebbe anche dire che ognuna, nel momento in cui scrive (più ancora di quando parla), si assume una responsabilità verso il gruppo, lo interpreta attivamente (non gli si affida passivamente), agisce (ogni forma di pensiero è azione, per Hanna Arendt).
Così un percorso conoscitivo si tende verso lo svelamento: di ciò che non si sapeva prima, che ora ti pare di intravedere.
Perché ciò che non conosci sta oltre il limite.
E il limite disegna un oltre, un possibile.
Mi dispiace che oggi non ci sia Giuliana. Lei più volte è tornata sulla questione del limite.
Se tu non segni un limite stai nell'indefinito, nell'imprecisato. E come se tu non mettessi a fuoco. Lo stesso pensiero di infinito è in relazione con il limite, cioè col finito.
Una zona d'ombra segna il limite. Contemporaneamente indica qualcosa che ci riporta all'interno (verso il centro del cerchio che noi complessivamente costituiamo, e verso il nostro personale centro), e segnala la presenza di qualcosa che sta fuori, che abbiamo dietro le spalle, percepiamo come un riflesso ed è il nostro futuro (il futuro che ci sta alle spalle e che perciò non vediamo).

Dina: Io vorrei osservare come noi ci mettiamo in cerchio dal tempo dell'autocoscienza. Possiamo fare una relazione tra prima e adesso? Vorrei capire cosa vuole dire adesso (adesso quando, forse, una certa ricerca degli agi ci ha fatto dimenticare le cose concrete). Il cerchio è lo stesso, però a me pare che cambiano i tempi, gli argomenti, i ragionamenti.
Donatella: È vero noi abbiamo costruito uno spazio di rapporto che è circolare. Una linea che delimita quello che sta dentro e quello che sta fuori (come spazio delimitato è dotato di forza centripeta, ma come centro irraggiante è dotato di forza centrifuga).
Si più pensare così la linea del cerchio come luogo di incontro (o punto di equilibrio) tra un movimento (o tempo) rivolto all'interno e un movimento (o tempo) rivolto all'esterno. Un trapassare tra essere e non-essere.
D'altra parte noi riflettiamo il tempo in cui siamo. Siamo riflesso del presente: interroganti-interrogate.
Se dovessimo definire il nostro pensiero oggi, si potrebbe dire che è meno semplificato rispetto ai nostri inizi. Allora, come uscite da una sorta di mutismo antico, tutte tese a raccontarci, cercavamo identificazioni, approvazioni. Adesso siamo più in una condizione di ascolto, sono meno frequenti le identificazioni (in positivo o in negativo), è un pensare che va oltre il nostro affanno quotidiano.
Dina: Possiamo permetterci questo. È un lusso. Questo che si fa serve a noi, non serve ad altre donne.
Donatella: È un privilegio ma anche un impegno (verso le altre), affinché uno spazio-tempo di riflessione possa chiamarsi una conquista (per tutte).
Ilaria: È una crescita.
Donatella: L'impegno di tutte (a riflettere, a tornare sulle questioni che emergono, a lasciare una traccia pubblicando una dispensa…) fruttifica. Così si allarga il cerchio (e cresce l'albero).
Non basta perciò sentire di aver fatto una cosa interessante. Così serve solo a noi - ma poi non serve neanche a noi perché se il cerchio non si amplia ci sentiamo in colpa verso le altre, quelle che non possono…
Direi che l'autocoscienza è stata una pratica che ha cambiato qualcosa complessivamente. È stata molto generalizzata. Non portava firma, non c'era un'autrice a cui riferirsi. Senza-madre e anonima, è stata un modo di porsi, di farsi interrogare e di interrogare quel momento. Le singole vite ne sono rimaste scosse, i ruoli sono stati sottoposti a revisione critica. L'autocoscienza ha certamente prodotto una tensione ad-tenzione critica verso noi stesse, verso le questioni legate al potere.
Oggi per noi si tratta di percorrere quel doppio movimento che è necessario ad ogni iniziare. Distanziarsi da e andare verso.

La domanda che potremmo porci è: cosa corre tra di noi?
Formalmente c'è una maestra, ci sono delle corsiste.
Ornella, tu l'anno scorso avevi raccontato di essere arrivata a scuola con un vestito rosso e che la preside incrociandoti ti aveva detto: "come stai bene vestita di rosso!…" e tu non ti sei più vestita di rosso a scuola, perché, dicevi, devono emergere gli studenti, l'insegnante non deve primeggiare.
La maestra tradizionalmente si mette davanti come a tirare il gruppo, di lei il gruppo vede le spalle, lei il gruppo non lo vede.
Se io mi penso come maestra mi vedo dietro di voi. Mettendomi dietro penso di poter vedere dove il gruppo va, posso cercare di tenerlo insieme. Questo significa anche uscire dal tracciato in precedenza fissato, non mettersi nella posizione di chi vuole convincere della giustezza di quel che va dicendo. Senza la rete di un tracciato a cui attenersi può capitare di sentirsi spiazzate, generalmente porta qualcosa di nuovo, qualcosa nasce.
Ma per vedersi in faccia bisogna mettersi contro, anche eventualmente contrastare, bisogna avere dei momenti a tu per tu.
Ornella: Io dico che il rapporto col maestro è un rapporto problematico. E con ogni persona (ognuno di noi è maestro) può esserci un rapporto di questo genere. Quando ci si pone l'obbiettivo di superare il maestro si può rimanerne schiacciati, o esaltati. Preferirei piuttosto: prendere dall'altra persona, non tanto contrapporsi, fare tesoro di quello che hai preso.
Donatella: Ma mettersi contro significa prima di tutto vedere la faccia dell'altro, riconoscerla come diversa, è vedersi reciprocamente. Io adesso con te sono di fronte, cioè contro, non necessariamente mi oppongo e facciamo la rissa.
Rosanna: posso osare mettermi di fronte. Può essere un contro che non è uno s-contro e in-contro.
Maria: Qui noi abbiamo lo spazio di una settimana in cui continuiamo a pensarci e ripensarci, uno spazio nostro per riflettere. Tu puoi solo dare degli stimoli. Il confronto ci porta a superare noi stesse (e anche il maestro-la maestra). Avendo un confronto fra tutte avviene qualcosa di diverso, di più.
Donatella: Sì quello del ripensamento è un margine di libertà, è vedersi in un mutamento possibile
Rosaura: Che ci sia scontro o no, credo importante ci sia una verità di emozione. È guardarsi in faccia, è ascoltare. Allora scopriamo che la ricchezza non sono le certezze ma l'incontro e lo scontro e la voglia di crescere come ha scritto Ilaria. E la voglia di crescere è una cosa che mi dà una gioia…