Qualche numero per fare chiarezza
di  Chiara Martucci

 
Marina Abramovic

Le ragioni dell’assenza delle donne dai luoghi decisionali, e in particolare dalla sfera pubblica, sono molte e di diversa natura. Prima di addentrarci nell’analisi di alcuni di questi fattori, conviene però sgombrare il campo da un paio di false credenze diffuse.

La prima. Spesso, si ritiene che la politica rappresenti una vistosa eccezione ad un processo che vede invece l’affermazione delle donne in tutti gli altri settori della vita produttiva del paese. Ma questo non é vero: in Italia la percentuale di donne ai vertici delle posizioni decisionali si assesta su un misero 10% sostanzialmente in ogni ambito della vita sociale, economica e professionale.

Qualche esempio. Ai vertici della Magistratura, nonostante le magistrate siano oggi il 40%, le donne sono sostanzialmente assenti: nessuna tra i presidenti di sezione della Corte di Cassazione, nessuna tra i presidenti di Corte d’Appello, solo il 2,5% dei presidenti di Tribunale. La punta massima é rappresentata da un 13,1% di donne fra i presidenti di Sezione dei tribunali. E non si tratta di un’eccezione: degli 83 Rettori delle Università italiane, solo due sono donne; ancora due (su un totale di 74) sono le direttrici di quotidiani e non ce n’é nessuna fra i direttori dei TG nazionali. Le dirigenti sono meno del 15% anche nel settore del pubblico impiego e, anche in questo caso, si tratta di un settore a massiccia presenza femminile. Nel settore privato  la situazione non migliora; anzi. Le donne consigliere di amministrazione nelle 50 maggiori imprese italiane rappresentano solo l’1,3% del totale.

Un’altra idea diffusa, tanto rassicurante quanto inesatta, é che le donne siano poche nella rappresentanza nazionale e invece più presenti a livello locale, (forse perché, come sostiene il Presidente del Consiglio: “le signore” non hanno piacere a lasciare marito e figli per trasferirsi a Roma). Tuttavia, neanche questo é corretto: i componenti dei consigli regionali vedono una presenza femminile dell’11,5% e le presidenti regionali sono solo 2 su 20. Anche a livello comunale, dove é maggiore la presenza femminile, la percentuale di consigliere supera di poco il 17% e sono meno del 10% i sindaci donna. La politica non é quindi che l’aspetto più visibile di un fenomeno di segregazione verticale diffusa. (Cfr. “Donne e politica” a cura di ASDO)

 
Non è solo questione di numeri...

In Italia lo squilibrio tra i sessi nell’accesso alle sedi decisionali pubbliche si presenta più grave che altrove: con l’8,1% di donne al Senato e l’11% alla Camera, si colloca agli ultimi posti tra i paesi europei e le democrazie consolidate nel mondo. Nel confronto fra paesi, il nostro si contraddistingue anche per la scarsca attenzione al problema. Come sottolinea Bianca Beccalli, il fenomeno della scarsa rappresentanza delle donne nelle assemblee elettive sembra avere una curiosa sorte nel dibattito italiano: “compare all’improvviso con toni scandalistici, come nella recente vicenda delle ‘quote rosa’; scompare senza venire collegato ad altri temi di fondo e paralleli relativi all’equità di genere e alla divisione sociale del lavoro” (“Donne e istituzioni politiche”, Giappichelli, 2006).

Se si guarda ai sondaggi e alle dichiarazioni, sembrerebbe esserci un consenso diffuso circa la necessità e l’opportunità di aumentare il numero delle donne in politica. Il fatto della sottorappresentanza femminile viene considerato un deprecabile elemento di “deficit democratico” e si dichiara un orientamento positivo verso le candidate (una ricerca Censis lo quantifica al 40%). Peccato che queste dichiarazioni di intenti vengano puntualmente contraddette dagli effettivi risultati elettorali.

Come mai al momento del voto uomini e donne sembrano perplessi all’idea di esprimere una preferenza per una donna? O, come si chiede Francesca Molfino nel suo “Donne, politica e stereotipi” (Baldini, 2006): perchè l’ovvio non cambia?

Questa resistenza affonda le sue radici nel permanere di uno “strato roccioso” – una stratificazione e cristallizzazione di stereotipi, usi e costumi radicati sui ruoli e le responsabilità di uomini e donne nella famiglia e nella società – che ostacola il processo di riequilibrio della rappresentanza politica. Storicamente, la gestione della res publica é stata considerata l’attività umana più tipicamente virile; la sfera pubblica si é costituita proprio per distinzione dalla sfera privata – la casa – regno delle donne. Coerentemente, le istituzioni politiche hanno a lungo resistito ad includere le donne, i loro interessi e prospettive, sia impedendo loro l’accesso alle tradizionali attività politiche, sia scoraggiandole dal definire le loro attività come politiche. Il fatto che il principio di uguaglianza sia stato formalmente allargato alle donne non ha, di fatto, alterato la realtà di uno spazio pubblico pensato al maschile.

Dall’ originaria contrapposizione tra donna e individuo-cittadino deriva quello che la politologa Carol Pateman ha definito il dilemma di Wollenstonecraft: o le donne, per essere accettate nella sfera politica, diventano come gli uomini, oppure rivendicano qualità femminili, che però sono considerate di scarso valore rispetto alla cittadinanza.

Il senso di estraneità delle donne dalla “politica maschile” ha dunque molte e fondate ragioni, ma sembra essere in definitiva l’altra faccia della medaglia del radicato monopolio degli uomini nella sfera pubblica. Non si può infatti sottovalutare il fatto che quello della politica rappresentativa é un “gioco a somma zero”: tenuto fisso il numero dei seggi disponibili, l’ingresso di una donna significa necessariamente l’uscita di un uomo. Non c’é da stupirsi che i beneficiari di questo sistema tendano a mantenere lo status quo.

 
È ora di cambiare registro!

È stato calcolato che, procedendo a questi ritmi, si arriverebbe ad un riequilibrio della rappresentanza fra circa 200 anni. Pur essendo vero che “aggiungere le donne” alla politica significa molto di più di un semplice cambiamento quantitativo, difficilmente ci potranno essere trasformazioni di tipo qualitativo, finché le donne resteranno il 10% in tutti i luoghi in cui si prendono le decisioni che coinvolgono tutti e tutte. L’esempio di altri paesi dimostra come spesso il raggiungimento della cosiddetta “massa critica” del 30% si riveli una condizione necessaria per alterare e superare le dinamiche e i meccanismi di esclusione (infantilizzazione, super-controllo, stigmatizzazione..) normalmente attivati nei confronti delle “minoranze morali”. Misure correttive (di natura temporanea, o anche costituzionale) possono costituire strumenti preziosi per interrompere questo circolo vizioso millenario.

Emerge allora un’urgenza di cabiamento, di segnali tangibili di volontà di superamento dell’attuale situazione di stallo. Anzichè dividersi e polarizzarsi alle due estremità del dilemma, sembrerebbe più opportuno inaugurare una strategia combinata, che utilizzi massicciamente e in modo integrato tutti gli strumenti e i saperi che abbiamo a disposizione: dai meccanismi istituzionali che favoriscano il requilibrio della presenza femminile, alla decostruzione dei miti fondativi della concezione dominante della sfera pubblica, alla valorizzazione di modalità “altre” di intendere e praticare la politica.