Ci piacerebbe raccontare della nostra generazione
Di fronte a chi le vorrebbe "o sotto accusa o sotto tutela", le donne
prendono la parola. Necessariamente al plurale
di Giulia Barcali, Eleonora Forensa, Francesca Foti, Elisabetta Piccolotti*
Le donne più ne parli meno contano. La necessità di uscire da questo
intenzionale e colpevole paradosso nato dal dibattito politico degli
ultimi mesi su questioni dirimenti come i diritti civili, la maternità, la
legge 194, la laicità dello stato comincia a diventare esigenza diffusa e
a riconnettere reti e discorsi di donne. “Usciamo dal silenzio” -
l’appello che sta dando vita ad iniziative e assemblee in tutta la
penisola in vista di un manifestazione nazionale per l’autodeterminazione
delle donne - ne è una dimostrazione, così come lo è stata, pur nella sua
debolezza, la campagna sui referendum abrogativi della legge sulla
fecondazione assistita.
Alle due mani, destra
e sinistra, che le vorrebbero "o sotto accusa o sotto tutela", come ha
scritto Ida Dominijanni (“il
manifesto” 1 dicembre), le donne provano a rispondere con una presa di
parola necessariamente al plurale. Necessariamente perché proviene da
soggettività diverse, da diverse tendenze del pensiero femminista e anche
da diverse generazioni di donne. Ma necessariamente anche perché
all’utilizzo, a fini di campagna elettorale, dell’esposizione dei corpi e
delle vite femminili nel dibattito pubblico si può rispondere soltanto a
partire da questa riconnessione.
Alcune hanno già
buttato il sasso nello stagno: di questo paradosso Lea Melandri, su questo
giornale il 10 dicembre, ha provato a rintracciare i segnali anche e
soprattutto all’interno e dall’interno del movimento femminista. Ha
scritto così: "La mia impressione è che, nonostante si continui a
scrivere, parlare e incontrarsi, ci sia comunque un grande silenzio: per
tutto ciò che delle vite, dei rapporti con l’uomo e con le altre donne,
non si riesce più a nominare".
Ci piacerebbe allora cominciare a “dire”, magari collettivamente, della
nostra generazione, nata negli anni dei referendum sul divorzio e
sull’aborto, che non ha vissuto il protagonismo politico di quella
precedente, che non ha contribuito alla costruzione di un punto di vista
di genere, parziale e per questo anche dirompente.
A partire da questo
dato di fatto si modulano oggi le forme dello spazio politico per le
giovani donne, strette tra il problema dell’”attualizzazione” del
movimento femminista precedente, la disgregazione del tessuto sociale e
produttivo delle nostre città - che da tempo interroga la sinistra nel suo
complesso e le sue forme organizzative - e la neutralizzazione ad opera
del mercato e del consumo. Senza dimenticare ovviamente il ritorno furioso
dell’oscurantismo cattolico.
Eppure le giovani donne sembrano non avere l’esigenza di organizzare lo
specifico femminile. Nei luoghi della politica del movimento, nelle
mobilitazioni (lo racconta molto bene Beatrice Busi in “Queer” del 6
novembre scorso) esse lavorano in armonia con i ragazzi ed i giovani
impegnati in comuni battaglie. Tale comunione di intenti e di pratiche può
trovare in parte una spiegazione nei processi materiali che caratterizzano
il nostro presente, dalla precarietà alla femminilizzazione del lavoro.
D’altra parte, allargando la visuale dal movimento alla società in
generale, sembra determinarsi la stessa armonia fra i sessi, dentro la
quale si può riscontrare un’unica competizione: la corsa al glamour.
Nell’immaginario collettivo, la liberazione del corpo femminile sembra
soddisfatta dall’ostentazione della sua capacità seduttiva, dal desiderio
di essere oggetto di possesso altrui, dal poter divenire icone, ma nulla
di più di un prodotto omologato.
Un precipizio, nella
perdita di senso, che la cultura cattolica si candida a colmare,
presentandosi molto più attrezzata e disinvolta nella discussione sulla
riproduzione e sulla vita in termini valoriali, etici e morali rispetto
alla “cultura laica” (nel caso in cui si voglia, con una forzatura, dare
al termine laicità un qualche significato definitivo).
E’ in questo spazio di conflitto - com’altro lo si può definire, se si
prende atto della violenza delle parole criminalizzanti delle gerarchie
vaticane e delle destre? - che irrompe lo specifico femminile e diviene
patrimonio irrinunciabile anche delle giovani donne.
Libertà, autodeterminazione, corpo, emancipazione, desiderio: tutto torna
ad avere senso quando si riattivano pratiche di genere che articolano
queste parole in problemi e risposte politici, e perciò problemi pubblici,
di tutti e tutte. E’ così nelle assemblee di questi giorni sulla difesa
della 194, nel rifiuto dell’ipocrisia degli assegni di maternità (per 6
mesi o una tantum, che cambia?), ma è così anche sulla
battaglia per i Pacs e più in generale per il riconoscimento delle
molteplici forme di relazione sentimentale. Se la politica interpreta la
sessualità e il corpo come luogo di incursioni predatrici all’insegna del
disciplinamento, allora tutte le soggettività che rispondono con un
diniego sono a pieno titolo parte di una pratica politica liberatoria. La
manifestazione del 14 gennaio per i Pacs a Roma allora è anche nostra,
come lo sarà quella a Milano a
difesa della 194. Basterebbe spostare di pochi giorni una data per
realizzare il desiderio collettivo di essere ad entrambe e di partecipare
alla risposta rumorosa e polifonica a chi ci vorrebbe tutti e tutte
represse, ordinate, disciplinate.
*Giovani Comunisti/e
questo articolo è apparso su
Liberazione del
18 dicembre 2005
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