Padri davanti a un bivio

di Stefano Ciccone


Regina Silveira

 

Oggi la Francia si divide  sull’allattamento al seno, sull’impegno delle donne nel loro dovere sociale di maternità. La Marianna che con il seno scoperto guidava i rivoluzionari sulle barricate, viene infatti rappresentata serena, col pancione e col cappello Frigio candido a testimonianza della sua purezza e assenza di desiderio.
In ogni caso la donna è a servizio della Patria, è territorio da difendere dall’invasione degli altri, portatori di una animalità che contrasta con la nostra civile capacità di autodisciplinamento degli istinti maschili.
Forse qui è un nodo irrisolto, il nesso tra desiderio e soggettività. È necessario rimuovere socialmente l’idea che la madre possa essere portatrice di desideri per potersi dedicare totalmente alla cura e all’accoglienza. Ogni sua pulsione di desiderio è colpevolizzata e considerata fonte di pericolo.

Le madri cattive si sottraggono all’obbligo dell’oblatività, del sacrificio di sé, per mantenere un proprio progetto di vita, di realizzazione nel mondo, o semplicemente per attribuire al proprio corpo una dignità che vada oltre la missione della riproduzione.
Al contrario per ogni uomo questa pulsione, questa propensione alla realizzazione professionale, alla progettualità, all’emancipazione dallo spazio privato della cura è un obbligo: la misura della propria virilità, della propria autorevolezza e autonomia come uomo e come cittadino.
C’è un’altra dimensione dell’inaffidabilità femminile che riguarda l’essere preda delle emozioni, l’incapacità a emanciparsi dal corpo. Così il sapere medico e la norma dovranno vigilare e regolare questa pericolosa eccedenza.

Ad essa si contrappone il mito maschile della razionalità, dell’indipendenza dai legami e dalle relazione nella costruzione delle proprie scelte etiche.
Il silenzio del corpo maschile, la capacità di tacitare dolore, emozioni, dipendenze, è alla base della presunta autorevolezza etica degli uomini ma al tempo stesso della loro estraneità a se stessi.
Una gabbia che ha imprigionato per generazioni le relazioni tra uomini e tra padri e figli. Se guardiamo bene, dunque, quando è in gioco una rappresentazione del corpo femminile e quando si ripropone lo stereotipo del materno come destino per le donne si sta anche riproponendo un discorso che riguarda direttamente gli uomini: la costruzione sociale dell’identità maschile su un modello di virilità che imprigiona le nostre vite e le nostre relazioni.

Proprio il tema della paternità e della maternità sono stati alla base di forme maschili di rivalsa contro il cambiamento e contro la nuova libertà femminile. Il disagio maschile di fronte al cambiamento di ruoli e relazioni tra i sessi si è trovato spesso ambiguamente alleato con culture politiche reazionarie.
La rivendicazione del diritto alla paternità contro l’aborto e il diritto delle donne a decidere del proprio corpo, la rivendicazione dei padri separati contro l’assegnazione dei figli alle madri sono stati esempi in cui alla difesa di “valori” come la famiglia o la “vita” si è associata una rivalsa maschile contro l’arbitrio femminile alla base della scelta irragionevole di lasciarci o di non voler avere un figlio con noi.

Difendiamo la fissità di ruoli e modelli identitari che si rivelano un vicolo cieco in fondo al quale c’è la miseria della sessualità e delle relazioni che abbiamo conosciuto nelle generazioni precedenti di uomini. L’inaffidabilità femminile torna come stereotipo utile a sostenere l’intromissione sulle scelte e i processi procreativi.
La medicalizzazione della gravidanza quasi resa una patologia in cui il medico determina quali siano i comportamenti leciti della madre a tutela della salute del figlio, l’intromissione delle associazioni antiabortiste nei consultori per “assistere” le donne tentate dalla scelta di interrompere la gravidanza, l’ostilità delle gerarchie ecclesiastiche a tutte le soluzioni farmacologiche che potrebbero “banalizzare l’esperienza dell’aborto. È bene che le donne soffrano abortendo, che vivano il disagio e il peso dell’intervento chirurgico perché altrimenti ricorrerebbero all’aborto con la spensieratezza che le contraddistingue.

Anche la polarizzazione tra naturale e artificiale cambia di segno se la leggiamo attraverso la costruzione sessuata dei saperi, delle regole e delle rappresentazioni sociali. Tutta culturale è la costruzione del mito dell’istinto materno come guida naturale ai comportamenti femminili nella cura che ne rimuovono appunto responsabilità e libertà di scelta.
Così la tecnologia può essere occasione di libertà dalla fissità dei ruoli sessuali o strumento per espropriare le persone dalla possibilità di autodeterminare l’esperienza del proprio corpo, di negare la dimensione relazionale delle nostre scelte attribuendole a criteri oggetivi, astratti e neutri.

La sconfitta del referendum sulla legge 40, giocato più sull’ambigua parola d’ordine della libertà della ricerca che sulla libertà di scelta delle persone e inciampato sulla diffidenza sociale verso il ricorso alla tecnologia per soddisfare un “desiderio” di genitorialità spesso coatto e socialmente costruito, dimostra che se non si fa riferimento alla libertà delle persone come soggetti sessuati e concreti ogni discorso sulla sessualità, la riproduzione e i corpi risulta subalterno e inadeguato.

La sessualità femminile ridotta a sessualità di servizio speculare al desiderio maschile e alla cura e accoglienza della prole si congiungono nella rimozione della soggettività e del desiderio femminile.
Come uomini vogliamo donne che si prendano cura, che assecondino i nostri desideri, che crescano i nostri figli, che rispondano docilmente al ruolo di madre, che siano spendibili nel mercato tra uomini di favori e poteri. Ma questo scenario non descrive un deserto nelle nostre relazioni, nella nostra sessualità, nell’incontro con i nostri figli e figlie? Siamo sicuri di voler rinunciare alla nostra libertà per questo simulacro di potere?


apparso sul settimanale Gli altri del 26 febbraio 2010

 

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