La nostra libertà, contro la violenza

di
Stefano Ciccone, Jones Mannino, Marco Deriu



Prendere parola contro la violenza, come uomini, rappresenta oggi un fatto particolarmente significativo e importante. Perché significa rompere con il silenzio, con le complicità, con le giustificazioni, e anche con il tentativo di relegare la questione della violenza ad un problema degli altri, delle vittime o degli estranei. Perché riconosciamo che questa violenza attraversa gli spazi quotidiani, domestici, le relazioni, nelle forme più diverse, fisiche, sessuali, psicologiche, strutturali.

Abbiamo deciso di prendere la parola non per assolvere a un ovvio dovere, ma per il nostro desiderio, per la nostra libertà, per la ricchezza delle nostre vite e delle nostre relazioni. Il 14 ottobre scorso, questa parola maschile, cresciuta in anni di dialogo tra uomini, in piccoli gruppi, in una ricerca a volte faticosa, a volte dolorosa, nel nostro immaginario, nei nostri desideri, nella percezione del nostro corpo, è divenuta parola pubblica, assunzione di responsabilità che chiede a noi, e alle donne, agli uomini, alla politica, un cambio di scenario.
 

Alle donne vogliamo dire, che non cerchiamo plauso o approvazione ma che desideriamo costruire una relazione in cui il nostro differire, la nostra ricerca di costruzione di uno spazio di libertà, possa incontrarsi con la libertà femminile. Una libertà che, sappiamo, ci ha interrogato e ha messo in discussione ruoli, poteri e privilegi, ma che ci ha offerto contemporaneamente una grande occasione di libertà per le nostre vite e per i nostri desideri e di ricchezza per le nostre relazioni.

Non ci interessa un confronto tra due identità, o tra un pensiero critico, quello femminile e un sistema di poteri maschili. Riteniamo possibile inaugurare una relazione politica libera e conflittuale tra soggettività che riconoscano il proprio desiderio e quello dell’altra. Soggetti mai risolti una volta per tutte, che riconoscano di non essere trasparenti a se stessi, ma anzi di portare con sé tutte le complicità e le ambiguità che derivano dalla storia cui apparteniamo. Soggetti radicati nei corpi, che riconoscano nel proprio corpo, nei propri desideri, nel proprio immaginario un terreno di conflitto.


Chiediamo agli uomini, innanzitutto a quelli che scelgono la politica come terreno di trasformazione e liberazione, di non fermarsi all’ovvia denuncia della violenza. Vogliamo dire che non riusciamo più a credere alla volontà di trasformazione se resta contro un “Potere” astratto ed estraneo e diventa complice dei tanti piccoli poteri e delle disparità che segnano le nostre relazioni quotidiane. Ogni tentativo di ridurre la politica alla competizione per il potere, ad una parola neutra sul mondo, ci appaiono oggi sempre più vuoti di senso.

Non ci è più possibile guardare un tavolo di soli uomini, o un virile schieramento di uomini pronti allo scontro in piazza, non ci è possibile ascoltare la supponenza di un esperto che pontifica in televisione o da una cattedra universitaria, senza provare fastidio, senza domandarci in che misura siamo riusciti a svincolarci da questi modelli e da queste pratiche. I saperi, i pensieri politici, anche quelli radicali e antagonisti, la capacità di stare al mondo e di sapere come va il mondo che gli uomini hanno inteso incarnare fino ad oggi non ci bastano più, non riescono a esprimere la nostra esperienza di vita, anzi troppo spesso la occultano a loro stessi e a noi.
 

Non riusciamo più ad entusiasmarci sentendoci forti nei riti collettivi maschili. E non perché abbiamo perso una passione nel cambiamento e nel conflitto, ma al contrario perché vogliamo portarla fino in fondo, anche contro le pigrizie, le liturgie e le complicità che segnano anche la politica che si vuole di trasformazione. Allo stesso modo non accettiamo la proposta di chi ci chiede di “dominare i nostri istinti”, di esercitare la virtù virile dell’autocontrollo per risolvere il problema della violenza, perché questa richiesta rimanda a un idea della nostra sessualità come istinto basso e primordiale che nel migliore dei casi va limitato o contenuto.

Al contrario vogliamo liberare il nostro desiderio, la nostra sessualità, l’esperienza del nostro corpo dalle rappresentazioni che l’hanno reso estraneo a noi, luogo incompatibile con l’intimità, con la delicatezza, con l’ascolto e l’incontro. A partire dal nostro percorso scegliamo e chiediamo di non essere più un fenomeno (da guardare con curiosità, stupore, ironia, diffidenza o ammirazione) ma di essere riconosciuti nella nostra soggettività per rendere possibile un’interlocuzione, una reciprocità e anche un conflitto, dunque per entrare nel merito delle questioni.
 

Oggi, 25 novembre, e negli anni futuri, indosseremo un piccolo fiocco bianco, non solo per impegnarci a non compiere violenza contro le donne e anzi per contrastarla ove si presentasse, ma anche per allargare quegli spazi e occasioni di libertà che si aprono sia per le donne che per gli uomini.

Crediamo infatti che costruire una relazione diversa tra i sessi significhi essere capaci di accogliere la differenza e la pluralità dei desideri in tutti gli aspetti della nostra vita: dalle relazioni affettive, agli ambienti di lavoro, agli spazi della politica. E siamo convinti per questo che nella nostra libertà ci sia una risorsa per sconfiggere la violenza.
 


questo articolo è apparso su Liberazione del 25 novembre 2006