Un'altra narrazione   del lavoro 
          
          di Lia   Cigarini
      
      
      
        Questo scritto   vorrebbe ragionare di politica (di politica delle donne il che non esclude gli   uomini), a partire dal lavoro, anzi a partire dall’idea che il lavoro sia lo   spazio pubblico per eccellenza. La vera polis. Io non mi fermerò ad argomentare   pro o contro questa idea, poiché la dò per ben chiarita da Marisa Forcina   nell’articolo pubblicato in questa stessa rivista. Di conseguenza parto dal   considerare un cambiamento avvenuto nel lavoro, da registrare come un vero   grande cambiamento: quando parliamo del lavoro delle donne, oggi, parliamo di   lavoro in generale, di tutti, uomini e donne, senza specificazioni. Ciò   significa che l’occasionalità e la marginalità che hanno caratterizzato il   lavoro femminile in passato sono scomparse. La maggioranza delle donne è sul   mercato del lavoro. La loro presenza è considerata un fatto stabile e una realtà   ovvia che non si giustifica più come un mero lavoro integrativo del reddito   familiare. Ciò cui stiamo assistendo detto in negativo è un forte indebolimento   dell’antica divisione tra sfera produttiva (maschile) e sfera riproduttiva   (femminile). Tra le conseguenze, una di carattere squisitamente qualitativo ha   attirato da subito la attenzione degli studiosi più avvertiti, vale a dire che   soggettività e relazione, passione e affettività, connotati tradizionali della   sfera privata e riproduttiva dell’esistenza umana, sono diventate risorse   fondamentali nel mondo del lavoro oggi 1). 
        Questo è avvenuto certo per   fattori oggettivi: la recente grande presenza quantitativa delle donne nel   mercato del lavoro, la rivoluzione tecnologica e per finire il fatto che le   donne stanno entrando in tutti i settori di lavoro e, in particolare, in quelli   a veloce evoluzione, terziario avanzato e servizi, nei quali non è implicata la   forza fisica ma l’uso di competenza professionale (le giovani donne sono più   scolarizzate degli uomini), di capacità relazionale e comunicativa, saperi   indubbiamente preziosi nel nuovo modo di produzione dominato dalla informazione   e dalla comunicazione. Ma soprattutto questo è avvenuto per il fatto, tutto   politico, che negli ultimi trent’anni le donne sono state in movimento, vale a   dire hanno preso coscienza che l’essere donna non è un meno ma apre potenzialità   al proprio essere. Al movimento femminista si è risposto da parte della sinistra   enfatizzando la condizione svantaggiata delle donne e fissando l’obbiettivo   della parità con gli uomini e non offrendo un’interlucuzione che fosse   all’altezza delle nuove proposte. Da qui una visione impoverita del movimento   delle donne. 
        Con il suo ultimo libro 2) Alain Touraine ha fatto giustizia di   questa veduta facendo delle donne non le destinatarie di politiche paritarie ma   i soggetti attivi e pensanti della politica per il nostro tempo: «le donne come   attrici collettive creano la posta in gioco e il campo culturale del conflitto   con altri attori sociali [...], in altre parole costruiscono se stesse riparando   ciò che è stato smembrato dalla globalizzazione, dall’esposizione alla deriva   delle forze del mercato». A mio parere Touraine accorcia un po’ troppo le   prospettive: io so che i tempi per le donne saranno lunghi per acquisire proprie   autonome forme di lotta nel mondo del lavoro. Tuttavia egli ha il merito di   sottolineare che il punto di vista delle donne nell’agire politico è   radicalmente differente dal paradigma politico in corso.
          
        Lavoro e   differenza 
          
        La stessa particolare sofferenza delle donne a causa   della rigidità dell’organizzazione del lavoro e dell’impresa, mette oggi più   cose in gioco e in movimento di quanto non esprima ormai la categoria di   sfruttamento economico che pure esiste. Faccio un esempio: le donne sono   letteralmente fatte a pezzi dai tempi del lavoro fuori casa e del lavoro di   cura. Ciò da una parte le costringe a interrogarsi sulla percezione di tempo e   spazio, sulle aspettative di vita, sulla percezione del denaro e sul senso del   la-voro; dall’altra parte il fatto che le donne portino al mercato le relazioni   di cura rende visibile ciò che eccede il profitto e quindi rende possibile   l’inizio di un cambiamento dell’organizzazione del lavoro. E mette in   discussione le forme di lotta e di organizzazione maschile. 
        Si tratta   infatti di bisogni molto differenziati, difficili da esprimere nell’assemblea   sindacale, e per la loro varietà non sono sintetizzabili nella contrattazione   collettiva. So che è difficile comunque negoziare sull’organizzazione del lavoro   nell’impresa, ma in questo momento ci si può almeno impegnare e lottare per una   cultura (teoria) del lavoro che non trascuri le differenze e le valuti per se   stesse: sono libertà per la singola donna e il singolo uomo e sono contributo   alla civiltà. 
        A questo punto voglio precisare che il parziale superamento   della divisione tra sfera produttiva e sfera riproduttiva non ha annullato lo   specifico legame che le donne hanno con la vita e con il lavoro di cura. Esse   studiano con passione e vogliono lavorare restando tuttavia legate al simbolico   e alle pratiche della riproduzione dell’esistenza umana. Un gruppo di giovani   donne, interrogate sulle loro priorità tra lavoro fuori casa e lavoro di cura,   hanno risposto rifiutandosi di fissare alcuna priorità. Questa risposta è citata   come un esempio di ambivalenza, ma io credo che si possa anzi si debba leggerla   altrimenti: come un doppio sì al lavoro e alla maternità, e cioè come   l’affermazione di un altro modo di pensare il lavoro. Ecco perché sostengo che   il lavoro con impronta femminile ha un significato più ampio e più profondo di   quello pensato dagli uomini, o, per meglio dire, è, nel suo fondamento, lavoro   come congiungimento tra produzione e riproduzione. Ed ecco perché anche nel   lavoro, oltre che nella sessualità, la proposta di pratica politica delle donne   è così radicalmente diversa da quella maschile. 
  È una politica che si   appoggia sulle forme di vita: pensiamo al femminismo degli anni Sessanta e   Settanta, che ha teso a modificare la relazione tra donna e uomo, relazione che   è una forma di vita, forse la principale. E per ottenere questa modificazione ha   usato come leva la narrazione che le donne hanno fatto della loro esperienza   anche la più intima, esperienza e sapere che non avevano luogo nei paradigmi   interpretativi correnti. Io sostengo che ora siamo in presenza di un accumulo di   esperienze lavorative in gran parte mute, non elaborate per la novità della cosa   in sé e per ragioni storiche; in passato la cultura lavorista non ha prestato   attenzione al lavoro delle donne se non come questione secondaria e subordinata. 
        Cristina Borderias, storica e studiosa del lavoro, ha il merito di essere   stata una delle prime a interrogare i concetti tradizionali dell’esperienza   individuale e collettiva delle donne al lavoro e c’è riuscita nella maniera più   semplice e impegnativa: ascoltando i racconti delle lavoratrici 3). 
        
        Narrazione
        
        Io penso dunque che la narrazione è la pratica   adatta per rompere il quadro paradigmatico (dove si procede facendo del lavoro e   dei lavoratori oggetti di analisi e studio anziché farli parlare in prima   persona) con un’esperienza nuova e che nel contempo riflette la prossimità alla   vita della politica delle donne. Sono consapevole che la narrazione come tale   non rende conto pienamente né dei fatti né della soggettività. Il punto è un   altro: si tratta della forma politica e simbolica che ha permesso alla   soggettività (femminile) di attivarsi, di interpretarsi da sé e di dare conto   della differenza sessuale come dimensione di umanità che la cultura del lavoro   tendeva a ignorare. 
        D’altra parte, mi chiedo, quale altro modo è pensabile   per disfare i paradigmi interpretativi che non danno conto dell’esperienza   femminile del lavoro?
        La narrazione, naturalmente, ruota intorno a un nucleo   di esperienze che una vuole condividere con quelle che l’ascoltano, ed è essa   stessa la scoperta di questo nucleo e della sua condivisione. Elaborare un nuovo   «lessico» sul lavoro, elaborare categorie, fa parte di questo processo narrativo   che aspira all’interpretazione, alla significazione, all’azione politica. In   questi ultimi dieci anni quindi, alcune di noi, per capire che cosa stava loro   capitando e che cosa stava capitando nel mondo del lavoro, hanno ripetuto il   gesto del femminismo delle origini di riunirsi in gruppi per parlare del lavoro   interrogandone il senso a partire da sé insieme ad altre donne e ripensarlo da   capo. 
        Indubbiamente, grazie alla cosiddetta femminilizzazione (una parola   ormai in uso che adotto per farmi capire), c’è stato un disgelo del tema del   lavoro di cui pochi ormai parlavano come centrale per la società. Infatti decine   di gruppi e associazioni, in partenza formati da giovani donne, poi misti, si   sono costituiti e comunicano attraverso la rete o in incontri più tradizionali.   È una scelta quella del piccolo gruppo che potremo chiamare tipicamente   femminile e che domanda di essere interrogata. Ripeto che, secondo me, questa   scelta di partire dal racconto dell’esperienza per conoscere e modificare il   contesto in cui si vive, oltre che mostrare la preferenza delle donne per le   forme della vita quotidiana, rappresenta l’unico strumento a disposizione   della/del singola/o per appropriarsi dell’idea che una/o può lavorare senza   accettare passivamente le condizioni date e può acquisire la necessaria   competenza simbolica per essere fedele al suo vissuto e sostenere i suoi   interessi. A me sembra anche che per questa via (pratica della narrazione e   guadagno di competenza simbolica) si realizzi una soluzione di continuità   rispetto a quel discorso maschile che caratterizza la tradizione lavorista   orientata verso l’emancipazione e l’inclusione delle donne alla pari nella   organizzazione maschile del lavoro. 
        Attraverso la narrazione del lavoro   femminile che è – come ho detto all’inizio – racconto delle nuove forme del   lavoro tout-court, incomincia ad esprimersi una cul-tura originale del lavoro   che ha fatto superare a molte l’orizzonte limitato della parità. Io penso che,   se si allargherà la riflessione sul lavoro tenendo ferma la barra della   differenza, altre mediazioni e costruzioni della tradizione lavorista maschile   ca-dranno. 
        Come sappiamo, negli anni Settanta e Ottanta la rottura della   continuità del discorso sulle donne è avvenuta attraverso la separazione dalla   politica maschile con il formarsi di gruppi e luoghi di sole donne che così   hanno creato sapere, linguaggio e pensieri. Si tratta, oggi, di ripensare il   senso del lavoro di donne e uomini. La dirompenza di allora torna ad agire   adesso. Il fattore dinamico è sempre lo stesso ed è la differenza sessuale. La   formula da me preferita per dare conto di ciò che sta capitando adesso rispetto   allora, è quella che ho già delineato prima, portare tutto al mercato:   soggettività e relazioni, passioni e affettività, figli e amore, ecc. Non   separare cioè la sfera relazionale dal mondo del lavoro, come si è fatto finora. 
        
        Nuove strade per il cambiamento
        
        Anche alcuni teorici del   lavoro oggi scrivono della differenza sessuale come creativa di nuove strade per   chi cerca il cambiamento, altri parlano della necessità di «interiorizzare gli   interessi e le competenze femminili e di trattenerle», altri ancora parlano   delle donne come possibili autrici della ricomposizione dell’esperienza   collettiva e individuale che è stata lacerata, e altro ancora. Ciò significa che   proprio alcuni uomini attenti a ciò che succede nel lavoro e con la volontà di   trovare una strada per modificare le cose esistenti, mettono al centro la   differenza sessuale e le sue pratiche politiche. Oggi assistiamo così a un   movimento non meno dirompente di quello degli anni Settanta ma in senso inverso,   per cui la dirompenza non è più dovuta come allora al fatto di donne che si   separano dalla società maschile, ma al movimento di un loro portarsi al centro. 
        In questo movimento ci incontriamo con quegli uomini che sono critici delle   risposte che oggi si danno ai problemi del lavoro. 
        
        Versione rivista   della relazione tenuta al 12mo Simposio dell’Associazione internazionale delle   filosofe (IAPH), Roma 31 agosto-3 settembre 2006. Pubblicata sul n.6 del 2006 di "Critica   Marxista"
          
        Note
        1 - Cfr. Christian Marazzi, Il posto dei   calzini, Bellinzona, Casagrande Editore, 1994.
        2 - Cfr. Alain Touraine, Le   monde des femmes, Paris, Fayard, 2006. 
        3 - Cfr. Cristina Borderias, Strategie   della libertà. Storie e teorie del lavoro femminile, Roma, Manifestolibri, 2000.