Caccia alle donne

di Mariuccia Ciotta


Shirin Neshat

«Interrogatori di donne indagate per aborto». Il titolo della notizia diramata ieri è già una vertigine, una frattura del linguaggio e del senso comune a proposito dell'interruzione di gravidanza.
È già una criminalizzazione, già un sequestro della parola femminile. Il suicidio del ginecologo di Genova ha innescato un processo a catena dalle conseguenze nefaste che sta portando alla sbarra anni di lotte e di conquiste femministe, ma non solo.

È una cultura della dignità umana che si sta sbriciolando nel silenzio pavido della politica che in pieno fervore elettorale non osa toccare argomenti ad alta «sensibilità etica» per non alienarsi il favore ecclesiastico.
E che se ne sta a distanza mentre avviene il massacro di quei principi della società laica che Ratzinger vorrebbe sostituire con gli unici «valori umani» accreditati, quelli religiosi.

Indietreggia la barriera etica di fronte al cambio di termini, alla sostituzione del «feto» con «bambino».
Per cui le donne sarebbero assassine inconsapevoli, minorate da salvare, povere vittime «costrette» a sopprimere una vita per l'incapacità di affrontare la maternità. E l'insistenza sul «dolore» che accompagnerebbe sempre e comunque l'aborto è diventato un grimaldello per sollecitare sensi di colpa, vergogna.
E per accreditare l'idea del concepimento come inizio della vita umana, «verità» sulla quale si espande la propaganda del paladino pro-life - ex sostenitore della guerra di civiltà, che ha vissuto la moratoria per la pena di morte come una sconfitta - arrivato a toni di violenza indecenti, dalle cliniche-Auschwitz all'aggressione della «show-girl» di Genova, che avrebbe «ucciso un bambino per un reality-show».
I giornali registrano. Non si limitano a segnalare la violazione della 194 che non consente l'aborto in una struttura privata. Né si interrogano sui limiti di una legge che permette di abortire solo nel servizio pubblico.
Si beano della polemica e vanno a caccia delle signore che hanno abortito «clandestinamente» nell'ambulatorio privato del medico suicida. Una di loro, nell'anonimato, ha dichiarato che, se uscirà il suo nome, si ucciderà, seguendo la sorte del ginecologo.

La verità è che l'aborto, pubblico o privato, sta ridiventando un reato in Italia nella macchina mediatica che sforna identikit delle indagate. L'età, il colore dei capelli, lo stato civile, l'adultera, la moglie «ripudiata» dal marito...
Una persecuzione per anticipare lo scoop dei nomi, pronti a comparire in prima pagina tra l'eccitazione generale, e già nelle edicole di Genova compaiono locandine con la presunta identità della più dannata tra le matricide, la «starlette».
Si devono fermare. Chiunque pubblicherà i nomi delle persone coinvolte dovrà rispondere di violazione del codice deontologico dei giornalisti e soprattutto di fiancheggiamento del vero crimine, il desiderio sfrenato di controllo dell'unica vita in campo, quella delle donne.


Questo articolo è apparso su il manifesto del 15 marzo 2008

 

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