Respinte

Due lettere di Eleonora Cirant e di Emma Baeri

 

Sul sito www.zeroviolenzadonne.org potete leggere un testo di quelli che vi ribaltano lo stomaco per giorni interi. E' il rapporto di Be Free, cooperativa che si occupa di accoglienza alle donne vittima di tratta e si intitola "Dossier sull'esperienza di sostegno a donne nigeriane trattenute presso il Cie di Ponte Galeria e trafficate attraverso la Libia". Il dossier descrive in modo dettagliato il tragitto dal Niger, dove le donne sono adescate dalle Maman che ne individuano i punti deboli e che le inducono a partire con l'illusione di un miglioramento delle condizioni di vita.

Sono identificate le tappe attraverso l'Africa fino al "soggiorno" in Libia. Qui le donne sono trattenute in bordelli, costrette a prostituirsi senza preservativo, violentate ripetutamente, usate come schiave, per mesi e mesi, o anche anni. Torturate se cercano di proteggersi durante gli atti sessuali pagati dai clienti da uno a due dinari. Le gravidanze interrotte a suon di bastonate sul ventre. Infine messe su un gommone e spedite in Italia, direzione Lampedusa, direzione prostituzione coatta. E poi magari intercettate da una motovedetta italiana, re-imbarcate anche se mezze morte di sete e di fame e rispedite in territorio libico, dove le aspetta quello che già sappiamo.

Tutta questa violenza si pianta lì, sotto il plesso solare, come una nube plumbea. Si mette accanto ai gesti quotidiani, privandoli di senso, alimentando una rabbia muta che morde dentro. Per un accidenti di caso io sono qui e le mie sorelle sono là. La mia carne gode e la loro è straziata. Io sono amata, loro sono brutalizzate. In una fantasia vedo gli uomini potenti, loro che hanno appunto il potere concreto di cambiare le cose, tutti schierati davanti a me. Io ho un mano un'arma. Li guardo negli occhi uno a uno prima di prenderela mira e sparare. Vederli implorare di non togliergli la vita e poi osservarli mentre stramazzano al suolo. Fantasie di violenza che aprono una contraddizione in una come me, che ha orrore delle armi e che non ha mai sferrato un pugno o dato uno schiaffo.

Monta la violenza e io non posso farci niente, e questo mi opprime. Posso fare? Faccio, qualcosa faccio. Faccio cose residuali. Sembra che il mio potere sia solo la parola. Ma poi anche alla controinformazione si finisce per abituarsi ed essere aggiornate si traduce in un dolore sordo, continuo, di sottofondo. Con la minuscola associazione che insieme a uno sparuto gruppo di donne professioniste dei servizi sociali abbiamo costituito, cerchiamo fondi per un centro di accoglienza per le donne vittime di tratta, un luogo che non sia il soffocante abbraccio assistenziale, ma dove ci si possa scambiare un sapere. Quelli esistenti, perlopiù gestiti da istituzioni ecclesiastiche, sono stracolmi e in difficoltà nel gestire storie di vita intrise di violenza. Dateci i soldi per questo, invece di buttarli nel cesso dei Cie.

Rabbia, ancora rabbia muta che morde dentro.In India vestono un sari rosa shoking le donne riunite da Sampat Pal Devi. Vanno in giro armate di bastoni per dare una lezione a mariti, fratelli e padri violenti. Convincono a suon di sprangate che picchiare una donna non è giusto. La polizia non osa intervenire, vuoi per le troppe code di paglia, vuoi perché questa sorta di ronde al femminile sono molto amate e popolari da gran parte della popolazione femminile.Nel mio paese gli annunci di persone omosessuali aggredite, insultate, accoltellate o picchiate sono quotidiani. Uno stillicidio, ogni giorno.

Andrò alla fiaccolata che si va organizzando nella mia città e di solito non manco un pride. Divulgo comunicati stampa, video, denunce, controinformazione. Non mi sposo, pur amando ed essendo riamata da una persona di sesso diverso dal mio, non mi sposerò finché nel mio Paese anche le persone omosessuali non potranno farlo. Microscopici tentativi far aderire l'azione alla convinzione. Ma la rabbia rimane muta e il peso dell'impotenza non viene scalfito da quel detto buddhista che recita: "Puoi fare qualcosa? allora perché ti inquieti? Non puoi fare niente? Allora perché ti inquieti?". Monta l'inquietudine, invece, e con essa la voglia di difendersi rispondendo violenza a violenza. Che cosa succederebbe?

Eleonora


Mie care [Eleonora e Maria Bacchi, ndr], scrivo a entrambe perchè entrambe avete aperto il gioco di questa comunicazione femminista di fine estate. Già, femminista: torna quest'aggettivo "desueto" a qualificare pensieri impensati, parole inaudite. Avere il coraggio di tirar fuori il proprio immaginario di violenza esponendosi al ludibrio dei, delle, bempensanti, è un gesto rivoluzionario. Ci troviamo ogni giorno di più di fronte alla reiterazione  gratuita di questo reato dispari (perchè solo gli uomini lo commettono), che fonda tutte le altre violenze ( anche quelle apparentemente più distanti dallo stupro fisico di una donna, per esempio il dibattito politico, l'omofobia, il razzismo eccetera), un preteso "destino naturale" degli uomini alla violenza che ha stratificato in ciascuna donna un immaginario barbaro che la violenza del tempo presente fa a volte emergere in noi per fortuna non solo come impotenza frustrata ma anche come inusuale forma di resistenza, e per questo - spero - con qualche nuova speranza. Così è stato per i lucidi, furibondi, civilissimi, pensieri di Eleonora.

Giusto stamattina parlavo al telefono con un mio amico, che in un attimo di estrema disperazione e di improvvisa consapevolezza mi ha detto: " Se metto in fila tutto quello di barbaro che sta succedendo nel mondo ( guerre, distruzione del pianeta, speculazioni finanziarie, violenze efferate) è evidente che sono solo uomini quelli che decidono, programmano, agiscono, questa barbarie. Hai ragione tu, c'è una questione di genere che nessuno nomina". Ho impiegato venticinque anni perchè questa consapevolezza emergesse in lui, ma ovviamente non mi basta. Lui stesso, alla mia richiesta "perchè non scrivi una lettera a "La Sicilia", ha taciuto imbarazzato.

Quando nel 1982 due donne catanesi - Sebastiana e Carmela si chiamavano - giustiziarono il marito di una di loro che aveva violentato la figlia dell'altra, e ne scaraventarono il corpo nell'atrio della questura andandosi subito a costituire, noi del Coordinamento per l'Autoderminazione inserimmo sul volantino di quell'otto marzo un occhiello che diceva: "Solidarietà per Sebastiana e Carmela. Non siete sole. Le donne di Catania hanno capito". Cosa avevamo capito, pur tra mille contraddizioni? Che quelle donne avevano risposto con un gesto barbaro a un gesto "pre-istorico", storicamente "barbaro", cioè pre-civile, fuori dalla polis, da quel patto che, a partire dalla Grecia classica, fonda le società moderne: da queste, ieri come oggi, noi, in carne e ossa siamo escluse; sovranità sul proprio corpo e inviolabilità sono ancora "diritti fluttuanti", e noi donne quindi ancora oggetti, non soggetti di cittadinanza, natura da dominare, da normare strettamente, visto che siamo, letteralmente, a-normali. Fu proprio questa esperienza a indurmi ad alcune riflessioni su immaginario e immaginazione, violenza e giustizia, giustizialismo e garantismo, nell'esperienza storica femminile, proprio a partire dallo stupro.
Ne scrissi su "Lapis" - ricordo, ancora fresca di un corso di formazione sulla cittadinanza per quadri della CGIL, che Annarita Buttafuoco aveva organizzato alla Certosa di Pontignano nell'estate del 1994. In quella circostanza proposi alle corsiste il laboratorio "Se fossi una legislatrice", invitandole a indicare le pene per un loro eventuale stupratore; le sollecitai ad azzerare artificialmente le loro coscienze garantiste, democratiche, per consentire l'emergere di pensieri, immagini, sensazioni "deculturizzate", per dirla con Carla Lonzi. Ne venne fuori un immaginario di una violenza arroventata, sadica, inimmaginabile, quasi che quelle donne, nel girare la "corda barbara" si fossero d'un colpo liberate di una corazza scomodissima, la corazza garantista. Pene atroci quindi:  squartamento, marchio, evirazione, morte, azzeramento dei diritti, bando, umiliazioni continue meglio della morte, e altro indicibile; naturalmente, pene inflitte da un tribunale di sole donne. Subito dopo, le invitai a girare la "corda civile", e a interrogare la loro immaginazione di giustizia. Seppure con prudente scetticismo, cominciarono a parlare di educazione, di scuola, di mezzi di informazione, di laicità e tolleranza.
Conclusi allora, e ne sono tuttora convinta, che la partita tra giustizialismo e garantismo è una partita sempre aperta nella vita - pensieri, sentimenti, gesti - di ogni donna, perchè è proprio essa il cuore del nesso differenza-eguaglianza, ancora tutto da governare  nella nostra costituzione civile, simbolica, culturale. Come rendere giustizia alla nostra differenza? Come garantire la nostra eguaglianza? Quando Eleonora dice del calvario delle donne nigeriane, come non sentire vibrare furiosamente la corda barbara? Come non sentire che solo il pensiero di una violenza altrettanto barbara può immaginare di rendere minimamente giustizia a tanta barbarie? Come non pensare il pensiero del mio amico mettendo in fila tutti i passaggi di potere che si attivano prima e dopo, attorno e oltre, la storia di quelle donne, e sadicamente, lucidamente, individualmente, guardare in faccia il nostro immaginario e pensare di farne strumento di una giustizia che deve ancora esserci resa? Non a caso la furia civile di Eleonora parte dai corpi di quelle donne-corpinostri e da lì risale ai responsabili qui e là di un sistema di potere maschile ancora compatto, che ancora ritiene "naturale", che quello scempio avvenga, che non distingue i corpi delle migranti da quelli dei migranti, il "di più" e  il differente viaggio che essi raccontano.

Ho sempre creduto nel potere salvifico delle parole (soprattutto nelle parole della poesia e della politica, entrambi luoghi della possibilità, dell'invenzione, del cambiamento), ma temo anche la loro evanescenza. Per questo, se continuo a nutrirmi soprattutto delle parole vitali delle donne, penso che sia sempre più urgente dare voce ai pochi "uomini di buona volontà" affinchè parlino da uomini agli altri uomini, rompendo la solidarietà di genere. Per questo sono convinta che i luoghi misti, pur in buona fede, sappiano intervenire su tutto ma non su questo discorso radicale, imprevisto : gli uomini, la loro sessualità, il loro potere in tutte le sue manifestazioni e forme. Penso quindi che il separatismo maschile debba avere oggi, subito, un luogo e un tempo per poter entrare nella questione delle questioni: la "questione maschile", in fondo un'avventura esaltante, che gli uomini "veri" dovrebbero intraprendere con passione. Il separatismo a noi è servito ( e ci serve ancora) per smontare il nostro "destino naturale".

Come trovare le vie per far circolare questa urgenza? Perchè anche le donne di qualche potere non ne parlano? Forsequesto  è un pensiero molesto anche per loro? Quali assetti millenari esso scalfirebbe, anche nelle relazioni d'amore? Vi abbraccio mie care, sempre grata per il gran lavoro che fate, e per volermene affettuosamente mettere a parte.

Emma

09-09-2009


 

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