Questo testo - bozza
al 18 aprile 2006 - rappresenta una base di discussione
in atto nell' Associazione
IPAZIA di Firenze cofondata da Il Giardino dei ciliegi e da Associazione
Rosa Luxembourg e non un documento formato.
Lo pubblichiamo allo scopo di mettere a fuoco problematiche utili da pensare
anche dall'opposizione e per lavorare verso una diversa gestione del potere
(come sono in parte riuscite a Bologna). Maria
Grazia Campari
La
Città: bene comune
a
cura di Associazione Ipazia di Firenze
Sulla soglia
del nuovo millennio, la dimensione urbana entra nuovamente in crisi. La
città del welfare, incarnazione di un ideale di governo e progettazione
dello spazio urbano volto a produrre integrazione sociale e a scongiurare
gli effetti negativi prodotti dalle leggi di mercato, è stata travolta,
sotto i colpi della delocalizzazione e del ridimensionamento produttivo
(downsizing), dell'evaporarsi delle politiche pubbliche e della corsa
alla privatizzazione. Come conseguenza non si ha solo la ridefinizione
delle gerarchie economiche locali, ma anche un'accelerata mutazione dell'organizzazione
spaziale della città. I siti industriali si svuotano ma vengono
consegnati nuovamente alla speculazione edilizia con la conseguente sistematica
edificazione.
Nel contesto della mondializzazione le città conducono una politica
economica senza esclusione di colpi l'una nei confronti dell'altra, tendendo
a rapportarsi fra loro come imprese private in concorrenza. In questa
realtà fatta di integrale adesione agli interessi economici egemoni,
è comprensibile che le risorse a disposizione delle amministrazioni
locali trovino nella destinazione pro-business la loro ovvia collocazione.
Così l'Ente locale, mentre diventa sempre più liberista
sul terreno sociale, è fervente interventista sul piano dell'economia
e dei mercati.
Sulla base di posizioni ispirate dalla mondializzazione vi è stata
la resa dichiarata di fronte alla cultura nemica del progetto, urbano
o territoriale che sia, perché lo si considera un ostacolo alle
opportunità da cogliere: costruire è attualmente considerata
esclusivamente una questione privata.
Eppure la città del cemento, della rendita fondiaria, della speculazione
edilizia non è solo lo spazio della rappresentazione del denaro.
Sul territorio non ci sono solo più o meno dense costellazioni
di attività economiche, ma ben più vaste costellazioni umane.
Nella dimensione spazio-temporale le città sono carne, sangue,
grumi di esistenza, memorie, labirinti di strade e corpi: sono storia.
E la marea di vita la s'incontra andando per la città. Lo spazio
plasmato dalla speculazione non può più essere in grado
di dire no alla vita, e l'economia è rimessa al suo posto come
semplice mezzo della vita umana e non il suo fine ultimo.
La crisi della città moderna - cui le forze del mercato (immobiliare
ma non solo) rispondono con nuove cementificazioni, con nuovi insediamenti
spesso blindati, sprechi di risorse naturali e umane e soffocamento urbano
- può essere affrontata solo a condizione che il potere decisionale
torni in mano pubblica.
(questa parte dovrebbe bastare, a nostro avviso, come cappello introduttivo;
abbiamo eliminato la prima pagina e messo la prima frase in fondo. Ci
sembrava un modo coerente di introdurre la proposta)
2.
E' inevitabile che qualunque proposta faccia riferimento ad una lettura
della realtà sulla base di assunti qui esplicitati in estrema sintesi.
Premesso
¨ che la cronaca dell'urbanistica praticata, è la cronaca di
sventramenti, lottizzazioni e cementificazioni in continuo divenire;
¨ che
la città come organismo vivente ad alta complessità biologica
è stato sempre piegato alla speculazione edilizia e alla rendita
fondiaria;
¨ che
il caos edilizio e viario è il presupposto di catastrofi ecologiche
di varia natura;
¨ che
il clima culturale degli anni Ottanta, segnato dall'abbandono della programmazione
urbanistica, a colpi di leggi speciali, di accordi di programma, di cordate
economico-finanziarie, ha piegato il "pubblico" a mero erogatore
di risorse finanziarie e ambientali; (questa frase, forse, andrebbe contestualizzata
o tolta)
¨ che
le città contemporanee sono strette tra il puro saccheggio e la
salvaguardia passiva del patrimonio storico-ambientale;
¨ che
i centri storici sono sempre più un centro commerciale all'aperto,
che si differenzia dai reali (?) centri commerciali solo (?) per la bellezza
degli sfondi; (la frase secondo noi è ambigua, oltre ad essere
inesatta: al massimo potremmo affermare che "i centri storici sono
sempre più solamente un centro commerciale all'aperto" ma
la verità è che i centri storici, che da sempre erano stati
i luoghi naturali degli scambi economici e dei servizi utili alla comunità
residente (con non sono o almeno non sono solamente ristoranti, negozi
di vestiti, e locali notturni, più utili ai turisti che ai residenti,
bensì parrucchieri, alimentari, ferramenta, mesticherie, calzolai
etc.) stanno perdendo velocemente e per sempre questa funzione preziosissima,
e sempre più spesso i residenti devono andarseli a cercare nei
centri commerciali in periferia, quelli sì sempre più simili
ai centri storici, tant'è che molti vi passano il sabato pomeriggio
anche solo per passeggiarci. La conseguenza è che i centri storici
sembrano pieni, ma lo sono solo di turisti, che passano e consumano, ma
non conservano e non rinnovano, mentre i residenti passano il tempo a
spostarsi in macchina ed ad intasare la città, quando con una politica
diversa potrebbero usufruire di funzioni raggiungibili a piedi e della
"bellezza degli sfondi".)
CONCORDO CON I COMMENTI IN ROSSO, I PROCESSI ECONOMICI CHE INVESTONO I
CENTRI STORICI NON SONO ASSIMILABILI SOLO A QUELLI DEI CENTRI COMMERCIALI.
INOLTRE QUESTA DISCUSSIONE E' MOLTO 'FIRENZE-CENTRICA', FORSE ESTENDIBILE
ALLE CITTA' TURISTICHE. DOVE IL TURISMO E' MENO FORTE SONO GLI STESSI
'CITTADINI' AD ESSERE SOLLECITATI A FREQUENTARE IL CENTRO COME RITROVO
NOTTURNO, SPAZI FIERISTICO, RISTORAZIONE
Considerato
che alla "rendita assoluta" della fase espansiva a macchia d'olio
si è aggiunta la "rendita differenziale" degli anni '80;
che la valorizzazione fondiaria viene determinata dallo sviluppo generale
della città ed è quindi una ricchezza collettiva di cui
si impossessa il solo proprietario; che tale fenomeno è la causa
principale del pesante deficit infrastrutturale soprattutto nei trasporti
pubblici;
Considerando infine che nel nostro paese e nella nostra città ha
sempre dominato la logica dell'opulenza privata e del degrado pubblico,
riteniamo che la generalizzata domanda di servizi collettivi e di trasformazioni
ambientali, sia riassumibile nella più generale questione della
qualità della vita, dove la questione ambientale confluisce.
Se lo spreco di energia è grave, lo spreco di spazio lo è
altrettanto in quanto la quantità di territorio disponibile è
un bene limitato e irriproducibile. (l'abbiamo sottolineato perché
ci sembra un concetto molto importante)
Dobbiamo convincerci che la rigorosa tutela della natura è garanzia
di progresso sociale ed economico; che i vincoli sono un essenziale servizio
pubblico; che la salvaguardia dei valori paesistici, culturali e l'uso
parsimonioso del territorio, sono una priorità assoluta, alla quale
va subordinata qualsiasi ipotesi di trasformazione.
Cosa fare
per riprogrammare e riprogettare lo spazio.
La ragione della de-riflessione urbanistica e architettonica in molti
Paesi come nel nostro, è stata determinata essenzialmente dalla
speculazione edilizia e dalla conseguente rinuncia di gran parte dei ceti
politici agli obiettivi di pianificazione democratica. Questa resa è
dipesa dal fatto che un piano vieta, almeno in linea di principio, mediazioni,
eccezioni, modifiche continue fino al stravolgimento, appoggi clientelari,
deroghe, abusivismi e soprattutto speculazioni. Se poi il Piano oltre
che avere una sua correttezza tecnico-scientifica fosse anche aperto alla
corresponsabilità attuativa e gestionale dei cittadini, difficilmente
qualcuno potrebbe permettersi arbitri, forzature e, quindi, attuare uno
sfruttamento personale su quel bene collettivo che è una città
. Si comprende facilmente, allora perché i piani siano stati visti
da un lato, come il "libro dei sogni" e dall'altro come siano
stati bruciati poiché il "caso per caso" rende possibile
qualsiasi distorsione.
(è qui che secondo noi andrebbe aggiunta una qualche specificazione
riguardo a cosa pensiamo dello strumento "piano regolatore".
Queste sono alcune caratteristiche insite nello strumento del PRG sulle
quali, a nostro avviso, dovremmo riflettere prima di redigere la versione
conclusiva della Carta.
1) E' vero che il piano è un formidabile strumento di tutela, ma
è anche uno strumento rigido ed immobile.
In particolare non rispecchia le caratteristiche dinamiche del territorio,
se con questa parola intendiamo un'unità spaziale che però
è il risultato complesso di fattori culturali, sociali ed economici;
tutti fattori dipendenti in ultima analisi dalla popolazione che lo abita,
la quale si modifica nel tempo, non solo in termini numerici, ma soprattutto
in termini di distribuzione qualitativa. In fondo è quello che
affermiamo anche noi nella parte finale, quando diciamo che "La presenza
di comunità immigrate costringe a ripensare radicalmente la progettazione
dello sviluppo urbano" e che i "I nuovi insediamenti devono
offrire luoghi di incontro e socialità per nuovi modi di vivere
la città multietnica": riproponendo uno strumento statico,
anche se rinnovato ed in grado di assorbire la condizione attuale, non
facciamo altro che reiterare l'errore iniziale di credere che questa condizione
sia eterna . Non è così, probabilmente, cambierà
ancora, ed ancora negli anni a venire.
2) E' uno strumento di contrattazione individuale.
Attraverso l'unico strumento delle "osservazioni" (per di più
a posteriori) il Comune apre una specie di "trattativa privata"
che mette il cittadino di fronte alla possibilità di contrattare
solo sul singolo appezzamento o su ciò che lo riguarda egoisticamente
molto da vicino. Questo fa sì che emergano solo interessi particolari
e bisogni individuali (dei piccoli proprietari come dei grandi developers)
ai quali l'amm. Pubblica al massimo può contrapporre od imporre
delle fantomatiche motivazioni di "utilità collettiva".
Ma la verità è che, non presentando alcuna fase procedurale
durante la quale chiamare i singoli a ragionare come comunità (attraverso
forum, community meetings etc.) sullo sviluppo globale del loro territorio,
non permette agli interessi individuali di maturare (attraverso il confronto,
il dialogo, l'informazione) e di comporsi in un disegno comune che arriverebbe
così a rispecchiare, senza doverlo imporre, una "Città
come Bene Comune".
3) Il PRG, per come è stato concepito, non è uno strumento
in grado di correggersi.
Ed in questo, è in contrasto con il concetto stesso di sviluppo
sostenibile, che prevede sì che le scelte iniziali debbano essere
chiare, i principi condivisi e gli obbiettivi rispettati, ma che i processi
debbano essere flessibili ed in grado di assorbire nuove informazioni
man mano che la situazione si sviluppa: è il concetto di feedback
che è particolarmente interessante nei processi di progettazione
urbana sostenibile, perché prende atto del fatto che le condizioni
possono variare in corso alla realizzazione, e che vadano continuamente
monitorate per trovarvi soluzione senza però compromettere scelte,
principi, obiettivi.
Resta invece ferma la convinzione che tutti i processi in atto (in particolare
quelli che riguardano accordi, programmazione negoziata, contrattazioni
con privati) debbano essere assolutamente trasparenti e sottoposti continuamente
al giudizio pubblico; pubblico che, ogni volta che si renda necessario,
deve essere coinvolto attivamente anche nelle scelte a monte del processo
Questa probabilmente è la pecca più grave dello strumento
delle "varianti", che essendo fatte a posteriori ed in maniera
"poco trasparente" (per essere gentili), non solo non sono sottoposte
al vaglio pubblico, ma spesso, sono anche incoerenti con gli obiettivi
generali di piano, quando non smaccatamente in contrasto.)
L'impegno
dev'essere dunque la riaffermazione della politica di piano per dotare
l'Italia della fondamentale legge che consenta finalmente di sottrarre
alla taglia della rendita fondiaria terreni e immobili, separando il diritto
di proprietà da quello di costruzione. Se per 40 anni l'assenza
di una pianificazione territoriale ha lasciato - con la speculazione -
via libera al degrado e al peggioramento delle condizioni di vita, il
recupero della pianificazione dovrebbe essere il fulcro di una nuova politica
amministrativa, per tre ragioni:
1 - restituire certezza di diritto a tutti gli operatori, indipendentemente
dai legami che si costruiscono, di volta in volta, con gli amministratori;
2 - avere lo strumento indispensabile per governare con risorse scarse;
3 - avere una nuova idea di città per praticare una svolta autentica
nella vita civile.
(su questa
parte siamo perfettamente d'accordo, ma appunto, per quanto detto prima,
forse dovremmo ridefinire attraverso quale strumento va attivato il "recupero
della pianificazione". A questo proposito, è interessantissima
la nuova e recentissima Legge Regionale n.1/2005 della Toscana (l'abbiamo
mandata in allegato sia nella forma completa che in quella della circolare
riassuntiva per le amministrazioni) che di fatto abolisce del tutto lo
strumento del PRG, subordina tutti i piani (strutturali, attuativi etc)
al piano territoriale regionale, e li sottopone tutti ad un vaglio che
ne assicuri la sostenibilità. Per ora i commenti sono positivi,
secondo noi ne dovremmo tenere conto nella Carta)
(da qui in
avanti la Carta diventa più specifica e comincia ad affrontare
alcuni problemi da cui emergono le singole proposte. Forse si potrebbe
strutturare il resto del documento per sezioni, ognuna riferita alla singola
proposta e con all'interno le argomentazioni correlate. Leggendolo ci
è sembrato che emergessero quattro proposte in particolare (correggici
Ubaldo se eventualmente abbiamo male interpretato alcuni passaggi):
1) la
proposta di piano "metropolitano"
(che eventualmente alla luce della legge regionale 1 potrebbe trovare
una collocazione intermedia tra il piano territoriale e quelli strategici)
1 - Mentre bisognerebbe ripristinare e ampliare l'indipendenza dei comuni
minori per valorizzare pienamente la loro specificità collettiva,
si tratta di dare alle grandi città l'assetto metropolitano richiesto
da quella macchia edificata continua, chiamata "città dispersa".
Ciò non attraverso una procedura unificata ma secondo modelli istituzionali
pensati a misura di ciascuna area, poiché ogni città è
un caso a sé. Il Piano della città metropolitana è
necessario non solo per ragioni di unitarietà del sistema ecologico
e ambientale, ma principalmente perché tende a consolidarsi un
vasto bacino di pendolarità determinato dal trasferimento di nuclei
familiari, da trasformazioni dei modi di produrre e da processi di terziarizzazione,
che superano i cristallizzati confini comunali.
2) la
proposta di separare il profitto edilizio dalla rendita sul suolo attraverso
l'acquisto pubblico temporaneo delle aree da trasformare
2 - C'è un modo tradizionale che assegna all'amministrazione pubblica
il compito di stabilire le regole per gli interventi altrui, e di gestire
in proprio una parte minore del suolo, cioè le vie di comunicazione
e gli impianti necessari a disimpegnare i terreni privati. I difetti di
questo metodo - lo squilibrio finanziario, derivante dalle spese pubbliche
a fondo perduto che valorizzano i terreni privati - emergono già
a cavallo dell'800/900, e conducono a un secondo metodo, che assegna all'amministrazione
pubblica il compito di acquisire temporaneamente i terreni da trasformare,
corredarli delle opere pubbliche e rivenderli in pareggio economico ai
vari operatori pubblici e privati.
Olanda, Paesi Scandinavi, Gran Bretagna hanno applicato su larga scala
questo secondo metodo soprattutto nel secondo dopoguerra, mettendo in
pratica l'acquisto pubblico temporaneo delle aree da trasformare, per
eliminare il sovrapprezzo speculativo sulla casa e rendere progettabile
il nuovo costruito. In Italia mentre l'articolo 18 delle legge urbanistica
1150/1942 offriva la possibilità di attuare i Piani Regolatori
mediante l'esproprio delle aree di espansione, non si è riconosciuto
il ruolo dell'intervento fondiario pubblico , già sperimentato
in Europa da mezzo secolo, al fine di separare il profitto edilizio dalla
rendita sul suolo. Pertanto nel nostro paese il saggio della rendita ricavata
dalla compravendita delle aree può crescere indefinitivamente il
costo dell'area può incidere sul prezzo dell'alloggio in misura
del 50%, 100%, il 200% e anche più.
Per rimediare all'aumento dei prezzi che mette la casa fuori dalla portata
di vaste masse, non osando agire sulla causa si è preferito correggere
alcuni effetti con esiti micidiali: si ha un mercato dell'affitto inaccessibile;
si è favorito in ogni modo l'accesso alla casa in proprietà
come surrogato a una casa in affitto introvabile; si è costruito
un patrimonio di case pagate col denaro pubblico che rimane quantitativamente
insufficiente (sotto il 10%) e che comunque oggi viene donato agli immobiliaristi.
Ecco perché a fronte agli innumerevoli esempi di urbanistica contrattata,
ossia privatizzata e speculativa, frutto avvelenato degli anni Ottanta
(per Firenze è sufficiente ricordare Novoli e il progetto Castello-Ligresti)
- l'impegno dovrebbe essere la riaffermazione della politica di piano
per dotare l'Italia della fondamentale legge che consenta di sottrarsi
alla taglia della rendita fondiaria.
(argomentazione correlata)
Nel 1951 i 47 milioni di abitanti avevano a disposizione 37 milioni di
stanze, e si riteneva che ne mancassero 10 milioni per arrivare al rapporto
ottimale di una stanza per persona. Oggi sono disponibili circa 100 milioni
di stanze per una popolazione che si è stabilizzata poco sopra
i 50 milioni, oltre il 25% delle quali non occupate. L'Italia, in continua
emergenza sfratti, ha un patrimonio edilizio di stanze per abitante fra
i più alti del mondo. Dunque i nuovi provvedimenti dovrebbero correggere
non le quantità, ma la loro difettosa distribuzione.
Ma la crisi degli alloggi continua e gli sfratti continuano a fare emergenza,
gli affitti (mercato quasi interamente privato e anche quando è
pubblico osserva le stesse regole) e i prezzi delle abitazioni sono tali
che ampie fette di cittadini sono fuori mercato. Queste dinamiche hanno
determinato un pesante aggravio per i bilanci familiari: mentre nel 1980
la spesa per l'abitazione non superava il 10% del reddito familiare, nel
1998 incideva per il 25%.
A ciò va aggiunto la decisione rovinosa della legge del dicembre
del 1993 che prescrive agli enti pubblici di vendere la metà delle
case in loro proprietà. Essa s'inserisce nella logica delle privatizzazioni
delle imprese di proprietà pubblica e fa parte del proposito -
condiviso praticamente da tutti - che lo Stato ceda all'iniziativa privata
i beni accumulati nei cinquant'anni passati. Aver inserito una parte rilevante
del patrimonio di edilizia residenziale pubblica nell'indirizzo ideologico
neoliberista dimostra come la classe politica rinuncia a correggere la
divergenza fra domanda e offerta prodotta dal sovraprezzo speculativo
sulle aree edificabili mediante un'offerta alternativa di aree edificabili
pubbliche agevolando in tal modo la stessa produzione edilizia. Si tratta
quindi di una politica della difesa del mercato immobiliare che spiega
i conflitti ricorrenti fra politica edilizia e politica urbanistica.
Per impostare la politica nazionale delle aree fabbricabili basterebbe
separare le circostanze dell'acquisto pubblico dalle destinazioni progettate.
L'acquisto dei terreni da trasformare spetta alle amministrazioni comunali
e va inserito nel ciclo dell'urbanizzazione pubblica preventiva in pareggio
economico. Per questo ciclo non occorrono finanziamenti ma anticipi di
cassa, che i Comuni, le Regioni, lo Stato possono erogare per le vie consuete.
Collocando l'intervento pubblico nel campo della manovra fondiaria, si
avrebbe il controllo della produzione edilizia complessiva attraverso
la fornitura di aree fabbricabili pubbliche in pareggio economico; si
libererebbe il mercato edilizio dalla speculazione fondiaria; si consentirebbe
un controllo generale sull'assetto del territorio da parte delle comunità
locali. Occorre perciò una riforma organica del quadro legislativo,
che manca da 50 anni e che dovrebbe essere uno dei grandi temi del prossimo
dibattito politico.
2)a il nuovo
piano deve tenere conto ed evitare in futuro l'arretrato di infrastrutture
e servizi derivante dalla non acquisizione delle aree (questo punto è
strettamente correlato al 2) come giustamente Ubaldo ha sottolineato,
quindi forse si può lasciare assieme in un'unica proposta)
Il secondo problema è come smaltire gli effetti di 50 anni di malaurbanistica
realizzata. Dal dopoguerra in poi si sono costruiti sui suoli privati,
solo nell'edilizia residenziale, circa 10 miliardi di metri cubi (calcoli
1995), che al costo del 1995 di 400.000 lire al metro cubo sono costati
circa 4 milioni di miliardi e hanno fatto lievitare il valore dei terreni
urbanizzati fino a una cifra pressappoco equivalente. Questa somma, prelevata
dagli acquirenti delle case, è stata incamerata dai mercanti di
aree. E' mancato invece il finanziamento delle opere pubbliche, che si
sono dovute pagare a fondo perduto, e sono rimaste in buona parte ineseguite.
Esiste quindi nelle disastrose periferie delle città grandi e piccole
un enorme arretrato di infrastrutture e servizi che dovrebbe essere colmato
. Quindi occorre un intervento straordinario delle Regioni e dello Stato.
Si potrebbe pensare a un piano decennale finalizzato all'adeguamento dei
servizi rispondendo così ad una fortissima domanda popolare. Infatti,
le periferie disordinate e ossessive, realizzate negli scorsi 50 anni,
sono il luogo di residenza consolidato della maggior parte della popolazione
italiana, e proprio per questo devono essere migliorate nell'unico modo
possibile: completando o ricreando la rete dei servizi e degli spazi liberi.
Con i nuovi
Piani di Roma, di Firenze, ad esempio, siamo in presenza di un piano dell'offerta
verso il mondo economico che spiega il gigantesco dimensionamento dei
piani stessi: milioni di metri cubi di cemento in città che perdono
abitanti. Sono quindi Piani che abbracciano la cultura neoliberista cancellando
coloro che nella città vivono soffrendo le contraddizioni per le
carenze dei servizi, per la mancanza di case a prezzi accessibili, per
il traffico, e via dicendo.
Occorrerebbe quindi una politica che parta da una seria valutazione quantitativa
e qualitativa della domanda. Un PRG non può certo risolvere tutti
i problemi. Infatti se da oltre un decennio assistiamo alla cancellazione
del concetto stesso di edilizia pubblica, non è certo l'urbanistica
che può invertire il corso della deriva. Per questo servirebbe
una reale politica di sinistra che abbia a cuore il destino di tutti coloro
che non hanno la capacità di accedere al mitico mercato. Ma il
Piano urbanistico e gli studi che lo sostengono avrebbero almeno il dovere
di evidenziare le esigenze e le aspettative della popolazione, così
da fornire agli amministratori gli strumenti di conoscenza critica indispensabile
a definire le politiche, ma queste informazioni non ci sono. E allora
i milioni di metri cubi di cemento hanno motivazione nell'atteggiamento
culturale con cui si è impostato il lavoro: si voleva fare il piano
dell'offerta e questo si è fatto.
a) Non è
più ammissibile spendere risorse per rimediare a carenze che non
hanno mai fine, poiché si accettano, perpetuandoli, i meccanismi
che producono all'infinito queste stesse carenze.
b) Non è più accettabile finanziare a fondo perduto le opere
di urbanizzazione primaria e secondaria - strade, impianti, scuole, biblioteche,
mercati, giardini, impianti sportivi - il cui corrispettivo arriva ai
proprietari dei terreni circostanti sotto forme di valorizzazione delle
aree. Le opere pubbliche di interesse locale devono essere prodotte gratuitamente
dal ciclo dell'urbanizzazione pubblica, quindi essere incluse nel prezzo
di costo dei terreni e pagate dagli operatori prima degli interventi.
In termini economici si tratta di operare affinché le spese per
le opere pubbliche d'insediamento siano pagate in anticipo attraverso
il pareggio del ciclo di urbanizzazione o riurbanizzazione delle aree.
L'amministrazione dovrebbe intervenire direttamente nel processo di trasformazione,
riservandosi il passaggio essenziale: la fornitura delle aree fabbricabili
ai vari operatori. Il controllo dell'occupazione di nuove aree, mediante
l'acquisto pubblico preventivo,
c) Tuttavia le grandi quantità di nuove aree fabbricabili sono
del passato e l'offerta residua non potrà che essere limitata.
Oggi il problema più rilevante è dato dalle cosiddette aree
di trasformazione ossia dalla trasformazione delle aree già edificate
- in particolare delle aree industriali dismesse - ma nessuna amministrazione
è stata finora capace di applicare a queste aree l'acquisto pubblico
preventivo, per ricondurle a un disegno generale. In tale contesto alla
rendita assoluta si è aggiunta la rendita differenziale, che trova
terreno propizio nei "piani della terza generazione" basati
sulla contrattazione con la proprietà fondiaria. Nascono tante
trattative isolate dove l'esigenza di collocare per ogni terreno, opportunità
pubbliche e contropartite private annulla la possibilità di una
manovra unitaria.
(questi tre punti sono perfetti come conclusione delle proposte 2) e 2)a)
3) proposta
di trasformazione ecologica della città
Se si facesse un sondaggio, i cittadini risponderebbero che il problema
più grave è il traffico. Ed in effetti il traffico rende
la città particolarmente invivibile. Tuttavia questo è anche
un problema che, se si avesse coraggio, si potrebbe risolvere più
facilmente di come in generale si pensa. Perciò questo non è
il problema più grave. Quello più grave perché di
natura strutturale è il problema del verde .
Sotto i colpi della delocalizzazione e del ridimensionamento produttivo,
del ripiegamento delle politiche pubbliche e della corsa alla privatizzazione,
e degli scempi ad essi ascrivibili, l'operazione più significativa,
come critica diretta alle ragioni dell'economia vigente e all'impianto
concettuale che vi presiede, può essere la messa in campo di una
diversa pianificazione urbanistica, sociale e culturale del territorio,
affinché si cominci ad agire sulle cause e non sugli effetti dei
vari degradi. La nuova stagione dei diritti deve comprendere il diritto
alla città PER TUTTI I CITTADINI, VECCHI E NUOVI, NATIVI E MIGRANTI,
sulla base del concetto della Città come bene comune. [SEMPLICE
AGGIUNTA PER PROVARE AD EVITARE DI 'SEPARARE' I MIGRANTI E LE CULTURE
ALTRE IN UNA SEZIONE A LORO RISERVATA]
Affinché non s'identifichi il ruolo dell'Ente locale come semplice
accompagnatore politico-istituzionale degli interessi economici occorre
rompere con la spirale di impoverimento e di esclusione, con una nuova
politica degli investimenti dell'Ente Locale, una politica per la riqualificazione
e ristrutturazione urbana contro la periferizzazione sociale e culturale,
significa - rivoluzionando le priorità di bilancio - cercare di
distribuire sul territorio qualità sociale.
Una opportunità in questo senso sembrava fornita dalla svolta che
le grandi città stavano disarmando sia per quantità di popolazione
sia perché restano liberi ampi spazi dismessi, costituiti da fabbriche,
officine, magazzini, negozi, ecc. frutto dei nuovi modi del produrre,
del lavorare, del vivere. Gli spazi abbandonati avrebbero potuto assurgere
a risorsa primaria per la collettività e non sono mancate formali
dichiarazioni in proposito. Tuttavia nulla di tutto questo è però
accaduto e si è continuato a coltivare lo spazio urbano a cemento.
Non vi sarà nessuna nuova qualità del vivere se non si esce
dalle logiche capitalistico-speculative ed è vano pretendere di
avere ragione dei vari inquinamenti (dall'inquinamento dell'aria a quello
estetico) se non se ne combatte la causa prima, e cioè l'uso distorto
che da decenni le amministrazioni vanno facendo del territorio.
I vari "dismessi" possono invece ancora essere un occasione
a condizione che si pensi all'aumento degli spazi aperti nella città,
di ridurre le densità edificabili, controllare le destinazioni,
pensare anche a demolizioni e ad un recupero a cubatura zero, vuoti strategici
per la penetrazione del verde in città.
Come deve essere pensata la città in questa prospettiva? A questa
domanda non si può dare risposta restando all'interno di una pianificazione
urbana tradizionale, ma implica mutamenti profondi in molti settori dell'organizzazione
sociale. Dalla critica dell'economia della crescita quantitativa, dalla
compatibilità tra economia dell'uomo ed economia della natura,
conflitto fra indicatori della crescita e del benessere, ai vincoli posti
all'economia dai limiti biofisici (effetto serra, buco dell'ozono, piogge
acide) ai limiti economici (disoccupazione strutturale) e dai limiti sociali
(nuovi bisogni e nuovi valori . Le regole del nuovo progetto di città
si esprimono in nuovi concetti transdisciplinari che producono nuovi indicatori
sociali (benessere sociale contro crescita quantitativa) e nuovi standard
che interpretano le funzioni biologiche ed ecologiche del mondo vivente:
regole legate alla capacità dei sistemi di assorbire inquinamento,
rumori, variazioni climatiche, ecc.
Al di là delle grandi catastrofi (Chernobyl, Bhopal, Seveso), con
i fenomeni macrobiologici, i mutamenti climatici, la crescente desertificazione,
la riduzione della fascia di ozono, è la stessa vita quotidiana
ad essere soggetta a un progressivo deterioramento direttamente legato
al degrado dell'ecosfera. Questo si configura come un "secondo sfruttamento"
dei cittadini, poiché la distruzione della natura e della Città
appartiene alla logica del medesimo sistema economico e sociale. Come
abbiamo una natura depredata, spogliata, inquinata così abbiamo
uomini e donne depredati, spogliati, inquinati. Il sistema economico è
distruttivo ecologicamente e socialmente. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza
biologica sono strettamente legate. I limiti del patrimonio-natura non
pongono soltanto il problema di equità inter-generazionale nella
distribuzione delle disponibilità, ma anche un problema di equità
tra gli attuali esseri viventi.
All'attuale città che produce rifiuti, inquinamento, dissipazione
di risorse, distruzione di ambiente naturale, occorre sostituire una città
del riuso, del recupero, ossia una città caratterizzata per la
quota sempre più bassa di materia ed energia destinata al proprio
mantenimento. Al modello aziendalistico dell'Ente Locale che si manifesta
concretamente nella pratica della concertazione che esalta solo la logica
degli affari, va contrapposta l'idea della città come organismo
vivente biologico ed ecologico. La questione ambientale impone la fine
dei consumi di suolo e l'abbandono della concezione riduttiva del verde
urbano, inteso come occasionale e inutile arredo urbano, per passare alle
acquisizioni della biologia dei sistemi viventi che indicano come il verde
assolva funzioni vitali per la produzione di ossigeno, per assorbire l'inquinamento
acustico, per abbattere le polveri, per temperare il micro clima .
Mettere al centro la città a misura di vita, significa tradurre
in politica la riconversione ecologica della città che investe
non solo i modi di vivere e consumare ma anche le modalità dell'edificare
e/o ristrutturare gli edifici pubblici e privati secondo i criteri dell'edilizia
bio-compatibile, tenendo presente come gli elementi della natura siano
potenti alleati contro inquinamento atmosferico e acustico e contro lo
spreco di energia. Una strategia dunque che va oltre i metri cubi di cemento
e dove i valori ambientali come vettori, diffusori di qualità,
possono liberare i cittadini e le stesse attività economiche dalla
rendita fondiaria che li soffoca. Tutto questo ha nel verde il suo asse
primario.
Le ragioni per procedere in questo modo stanno nel ridurre l'impatto sulla
biosfera "locale". La crisi ambientale e la questione climatica,
che mette a rischio migliaia di esseri umani, non sono solo una questione
estiva che riguarda gli anziani (del resto invisibili per il resto dell'anno)
e non risolvibile con le risibile soluzioni dei supermercati e delle caserme
dei Vigili del fuoco. Il riscaldamento locale è dovuto all'urbanizzazione
intensa e continua. Rinfrescare le città è il problema poiché
sulle aree coperte in prevalenza da cemento e asfalto si forma la cosiddetta
"isola di calore", che surriscalda l'aria rispetto alla campagna
circostante. Uno studio scientifico (2002) dell'Agenzia federale per l'ambiente
Usa, dimostra che piantare 10 milioni di alberi a Los Angeles, permetterebbe
di ridurre la temperatura estiva di 4 gradi. Le strategie di riforestazione
urbana sono le prime da mettere in atto per produrre brezza termica anche
in assenza di vento. Nelle conoscenze dell'ambientalismo scientifico vi
sono dunque gli elementi per dei veri e propri piani per la riduzione
del caldo in città.
Una città dopo l'automobile significa non la fine del trasporto
privato individuale ma il suo contenimento e la sua subordinazione alle
esigenze del trasporto pubblico di massa, della salute e del benessere
collettivi, oltre che rappresentare quella struttura qualitativa benefica
anche alla stessa produzione di merci. Ecco perché più che
il potenziamento del sistema viario è importante la sua classificazione
funzionale e una rigorosa politica dei parcheggi rimuovendo gli errori
gravissimi che si stanno compiendo in materia. Ma soprattutto è
centrale che la politica della mobilità sia integrata a quella
del verde e della qualità ambientale.
Una volta si parlava di isola pedonale per il Centro, oggi non basta più
dal momento che in tutta la città sono superate le soglie a rischio
di inquinamento. Ci vuole un arcipelago pedonale e una rete mista di itinerari
pedonali e ciclabili (l'abbiamo voluto sottolineare, perché è
una proposta molto bella) che unifichino tutti gli spazi verdi della città
e della conurbazione, componendo una struttura portante del disegno urbano
metropolitano.
Proviamo immaginare, diceva Walter Tocci per Roma, che nel deserto fatto
di lamiere di automobili, di relazioni interdette, di ingorgo e aria irrespirabile
possano sorgere delle oasi, dei luoghi che si possa passeggiare, giocare,
respirare e chiacchierare. Allora l'idea è creare 10, 20 spazi
completamente liberati dalle automobili e restituiti alle forme di vita
più semplici. Non si tratta di fare grandi opere ma una manutenzione
del tessuto urbano: rifare la pavimentazione a misura dei pedoni, togliendo
marciapiedi e asfalto; ecc. Da queste zone, da queste nuove piazze potrebbero
partire almeno una strada interamente riservata ai mezzi pubblici (elettrici)
tale da consentire un collegamento facile con i centri o un'altra piazza
e quindi rendere fattibile la limitazione al traffico ben al di là
della singola e solitaria isola pedonale. Nella piazza rinnovata possono
essere accessibili tutti i moderni mezzi di comunicazione, che potrebbero
consentire di fruire collettivamente di determinati spettacoli e manifestazioni
di vario tipo, o, perché no anche seguire in diretta alcune sedute
del consiglio di quartiere e del comune.
Cominciamo dal proprio quartiere, e dalle aree dismesse a costruire una
città nuova.
4) proposta
per una città accessibile ovvero una città della cura
QUESTO 4 PUNTO NON SEMBRA IN RAPPORTO CON QUANTO SEGUIVA PROVO A RISCRIVERE
4 (o 5)
Elogio dei margini: per una città plurale
Nel suo libro
La città imprevista (Elèuthera, 2003), Paolo Cottino racconta
alcune pratiche di dissenso rispetto all'utilizzo convenzionale di svariati
spazi urbani milanesi; occupazioni di edifici abbandonati, mercatini autogestiti
e vendita in strada, orti cittadini sono alcune delle esperienze che immigrati,
pensionati, disoccupati sperimentano a partire dai loro desideri e bisogni,
dalla loro quotidianità e posizione subalterna. La descrizione
di queste pratiche di riutilizzo e trasformazione degli spazi urbani -
luoghi solitamente marginali, oppure centrali ma 'problematici' secondo
le accezioni del senso comune come stazioni, parchi e marciapiedi riconvertiti
alla socialità - rimanda ad una proposta politica: l'abbandono
di una visione organica, unitaria e tecnicistica del territorio e delle
sue funzioni a favore di una nuova centralità dei soggetti e delle
loro pratiche. Soggetti sempre più plurali, diversi, differenziati
sia dal punto di vista delle origini e delle culture sia in termini di
generazione, genere, classe, stili di vita, tempi, accesso alle risorse
e gestione del potere.
La retorica della città 'multiculturale' imperversa quasi ovunque,
alternando spesso la descrizione di scenari catastrofici con appelli paternalistici
in difesa di diversità congelate, stereotipate. Un'idea altra di
città - la città bene comune - colloca invece al centro
i soggetti con le loro molteplici determinazioni; e guarda ai luoghi e
alle pratiche 'marginali' come possibilità di riappropriarsi e
di trasformare l'imperativo oggi dominante della legge e dell'ordine,
a servizio di un altro imperativo con cui si modella la vita urbana contemporanea,
'consumare e produrre'. Diversi soggetti collettivi, i migranti in primo
luogo, stanno già rinegoziando l'utilizzo e il significato dello
spazio urbano imposto dalla norma e dal senso comune predominante; pratiche
di utilizzo e riappropriazione materiale e simbolica che sono quotidianamente
davanti ai nostri occhi, dall'occupazione di spazi abitativi ai ritrovi
in luoghi pubblici riconvertiti dal desiderio di socialità. Invece
del ritorno alla normalità, chiediamo che questi soggetti, le loro
pratiche e i loro modelli, siano inclusi in quel processo incessante di
negoziazione che dovrebbe essere alla base della costruzione della territorialità
e dei legami sociali che la definiscono. Dai margini e attraverso i margini
ci arrivano molteplici pratiche di disobbedienza urbana e autorganizzazione
che contribuiscono ad aprire spiragli per l'immaginazione di città
diverse, plurali: 'le variegate domande di fruizione degli spazi urbani,
i conflitti attorno ai suoi molteplici possibili usi, sono dunque buoni
indicatori del cambiamento sociale in corso e rimandano all'insieme dei
nuovi significati che le nostre città oggi sono chiamate ad accogliere'.
(Paolo Cottino)
Perché ciò avvenga sono indispensabili spostamenti che coinvolgono
processi materiali e simbolici, al centro dei quali vi è la necessità
di riconoscere nell'altro/a - nelle sue variegate articolazioni - un soggetto
che attivamente partecipa dal basso alla ridefinizione delle regole, dei
significati e delle politiche del vivere cittadino. Tradotto in ambito
urbano implica di favorire l'organizzazione della diversità piuttosto
che l'estensione dell'uniformità; il valore della pluralità
piuttosto che la sintesi uniformante; il riconoscimento dell'irreversibilità
dei processi di complessificazione della società e delle città
non in termini di frammentazione ma di riconoscimento che include conflitti,
tensioni e cambiamenti.
TOGLIEREI
LA PARTE DI SEGUITO
Viviamo ormai in città "in cui quasi tutti sono venuti da
un altro luogo" (Anne Michaels ); ma le differenze che attraversano
le città non sono solo quelle dei 'migranti'; diverse culture,
sottoculture, gruppi sociali, percezioni culturali, - in termini di generazione,
genere, 'etnie', classi, poteri, tempi e percorsi di vita, aspettative
e modalità associative - differenziano la società urbana
e dovrebbero contribuire al processo continuo di rinegoziazione, decostruzione
e costruzione collettiva delle forme organizzative della convivenza urbana.
Se si guarda al fenomeno della trasformazione multietnica della città
dal punto di vista dell'insediamento nelle città e nei territori,
si pone la questione della definizione dei modi stessi dell'abitare delle
comunità accolte, questione affrontata fino ad ora costruendo recinti
reali e simbolici di emarginazione e sofferenza.
Eppure è esistita una architettura moderna che ha elaborato il
tema dell'abitare di massa, dando consistenza a programmi urbanistici,
sorretti da strategie politiche, che propugnavano l'inserimento delle
classi considerate subalterne nel corpo delle città. Alcuni esempi
in questo senso - limitatamente all'Italia - sono dati dalle case della
Società Umanitaria, frutto di filantropia e socialismo umanitario,
costruite a Milano nei primi decenni del secolo. Così la Garbatella
romana degli anni Venti, costruita da Innocenzo Sabbatini e altri, intervento
di edilizia sovvenzionata destinato a ceti popolari, come il Tiburtino
III, che Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni costruirono in anni di attuazione
del Piano Fanfani attraverso lo strumento dell'INA Casa.
Il momento che viviamo è davvero decisivo per il tema dell'abitare
poiché città e territori sono investiti da una trasformazione
antropologica tanto profonda da sostanziare un atteggiamento radicale:
la reale multietnicità della nostra società non può
che inverarsi in una necessaria mutazione del concetto stesso di abitare,
per molti aspetti più rivoluzionaria di quella che sostenne le
ricerche del movimento moderno, impegnato a indagare e a praticare le
modalità dell'inserimento della classe operaia nelle città
d'Europa. Oggi si tratta di comprendere che la modalità dell'accoglienza
di popoli altri - fuori dall'emergenza - obbliga a pensare nuovi modi
di vita collettiva: nuova tipologia dell'abitazione, nuovi disegni di
impianto per le aree di risanamento, nuova rapporto tra alloggi e servizi.
L'Italia di oggi al contrario si ostina in un'emergenza dissipatrice di
investimenti e generatrice di conflitti, giacché le baraccopoli
e nomadopoli non possono che far incancrenire il problema della collocazione
sul territorio delle comunità migranti. Forse oggi è inattuale
pensare a "case comuni", ma è percorribile solo la strada
di "villaggi" riservati alla comunità migranti da un
lato e alle villette a schiera dall'altro, idolatrato modello di promozione
sociale?
E da ultimo, il problema dell'abitazione per comunità immigrate
dovrebbe essere congiunto a quello della necessità, - complementare
al recupero di patrimoni edilizi esistenti, - di costruire prioritariamente
case per tutte le fasce deboli, anziani e giovani inclusi, con l'obbiettivo
di creare un nuovo paesaggio urbano capace di fare balenare modi di vita
permeati da una ricercata dimensione del collettivo, come è la
città se la si pensa come organismo vivente.
semplice
spunto
- La presenza di comunità immigrate costringe a ripensare radicalmente
la progettazione dello sviluppo urbano.
- I nuovi insediamenti devono offrire luoghi di incontro e socialità
per nuovi modi di vivere la città multietnica
(la parte che segue ci sembrava dovesse stare in fondo a tutta la Carta,
in quanto dà le indicazioni di contenuto della proposta di legge)
-------------------------------------------------
Tutte le
precisazioni elencate dovrebbero venire stabilite da una nuova legge urbanistica
che dovrebbe essere l'esatto contrario della legge Lupi . Le Regioni o
quali che saranno le nuove dimensioni amministrative di un qualsivoglia
futuro ordinamento locale, dovrebbero adattare la loro legislazione e
il loro lavoro concreto alla realtà specifica del loro territorio,
sulla base di una nuova Legge Urbanistica Nazionale, poiché le
modificazioni degli strumenti sono una condizione necessaria anche se
non sufficiente per il rilancio della pianificazione urbana, che a sua
volta può iniziare a correggere le storture del paesaggio italiano
e allestire in prospettiva uno scenario fisico migliore alla qualità
della vita quotidiana, in cui anche il patrimonio di bellezza ereditato
dalla storia sia adeguatamente tutelato.
Una legge urbanistica nazionale che consenta un PRG (o un altro strumento)
che:
¨ punti a massimizzare il valore d'uso dei suoli urbani attraverso
una separazione tra il diritto di proprietà e il diritto all'edificazione
¨ consenta una politica urbana incentrata sul rispetto delle differenze
e aperta alla sperimentazione di nuovi ideali di vita
¨ riconosca il primato dell'etica pubblica fondata sul concetto di
limite e sul principio della partecipazione e corresponsabilità
attuativa e gestionale dei cittadini sulle scelte, adottando processi
decisionali inclusivi per definire un reale progetto pubblico di città
¨ assuma come obiettivo prioritario il miglioramento della qualità
della vita di tutte e tutti
¨ riconosca il valore sociale di cura, approntando un disegno di spazi
e norme d'uso che ne garantisca il pieno sviluppo
¨ subordini qualsiasi ipotesi di nuova edificazione ad una rigorosa
verifica delle possibilità di riuso del patrimonio esistente
¨ consideri inalienabile il diritto di ogni persona alla casa e ad
una adeguata dotazione di servizi pubblici situati a ragionevole distanza
dalla sua abitazione
¨ consenta la cooperazione e la solidarietà nelle relazioni
fra città e territori, opponendosi attivamente alle pressioni verso
competizioni distruttive di risorse umane e ambientali (questa frase potrebbe
anche costituire il quadro generale dell'intera proposta di legge)
Conclusione
Tutte le sfere pubbliche sono state progressivamente colonizzate da interessi
privati che occupano l'intero spazio pubblico proclamandosene i soli legittimi
occupanti. Si sostiene tale cosiddetta modernizzazione rendendo tutto
vendibile e acquistabile, "prostituendo il territorio, l'ambiente,
i luoghi pubblici e le istituzioni" (Cassano). Non possiamo perciò
che ostacolare questa devastante vendita all'incanto restituendo al pubblico
la dignità di soggetto attivo in una vera e propria azione di decolonizzazione
dal privato della sfera pubblica.
Questo significa porre in sostanza il problema di organizzare in modo
nuovo e collettivamente, nello spazio pubblico, l'esercizio dell'avere,
del potere, del sapere.
In tale cornice almeno due cose vanno perseguite contemporaneamente: 1
- la ristrutturazione fisica della città (ciò richiede non
solo denaro, ma cultura politica); 2 - la creazione di reti di relazioni
sociali completamente diverse da quelle del passato. Attraverso la città
(scambio centro-periferia, città-campagna, permanenti o quotidiani)
si pone tutto il problema della mobilità sociale e culturale, della
cultura intesa come privilegio e come mezzo per mantenere i privilegi
oppure come fattore di conoscenza nell'ottica di una pluralità
vista come necessità per la stessa sopravvivenza individuale e
collettiva.
Con il rifiuto
del modello della crescita illimitata e la conseguente adozione del concetto
di limite alla crescita urbana:
- Ricostruzione di quartieri, borghi, ecc., per contrastare il rafforzamento
delle grandi insostenibili città, proponendo sistemi insediativi
contenuti e autosostenibili.
- Abbandonare la concezione riduttiva del verde urbano inteso come residuato
naturale al sistema antropizzato, e passare alle acquisizioni della biologia
dei sistemi viventi, dell'etologia, dell'ecologia del paesaggio, tutte
indicanti come il verde assolva funzioni vitali per la produzione di ossigeno,
per assorbire inquinamento, per temperare il microclima.
- Esaltare e valorizzare le differenti comunità urbane, per costruire
la città del futuro come città multietnica, multicentrica,
ecologica; città degli abitanti, città del tempo liberato
dal lavoro, città accessibile, città della sicurezza della/nella
relazione, città degli spazi liberi da case e dagli stereotipi,
città dell'autodeterminazione.
(questa parte
invece l'abbiamo lasciata fuori dalla Carta per ora, perché pensiamo
che dovremmo discuterne ancora in riunione)
Politica
delle aree e pianificazione della città
Benché la responsabilità della pianificazione urbana sia
nelle mani delle amministrazioni comunali, spetta allo Stato e alle amministrazioni
di livello intermedio stabilire le regole per la pianificazione comunale,
correggendo le numerosissime deficienze del contesto legislativo vigente.
E' tempo di una legge che offra una procedura generale di attuazione dei
programmi urbanistici in analogia con quelle già sperimentate in
altri paesi europei. Tale legge dovrebbe essere applicata, in primo luogo,
alle aree dismesse proprio perché oggi il riuso delle aree abbandonate
richiede un riesame completo delle destinazioni d'uso.
Dunque un sistema di indirizzi vincolanti per le leggi regionali e le
scelte comunali e gli argomenti che esigono una Legge nazionale possono
essere i seguenti:
a - La definizione giuridica del PR che alcune regioni (Toscana, Umbria,
Emilia- Romagna!!!! Pietro ha insistito perché venisse specificato
.)
sdoppiano in due strumenti diversi con compiti di indirizzo generale e
di precisazione esecutiva. Sdoppiamento problematico poiché le
scelte generali e le destinazioni precise per le singole aree dovrebbe
essere interconnesse affinché la progettazione e l'esecuzione restino
coerenti fra loro. Tuttavia resta del tutto aperto la ricostruzione della
gamma degli strumenti esecutivi, compromessi dalla caduta dell'articolo
18 della legge del 1942.
b - Che assicuri l'uso corretto dei piani particolareggiati che sono -
o dovrebbero essere - appunto strumenti esecutivi, entro limiti di tempo
stabiliti. I piani esecutivi in deroga al piani urbanistici dovrebbero
essere vietati, riconducendo eventuali interventi di emergenza alla procedura
prevista dalla legge 142/1990.
c -Le disposizioni sui rapporti fra insediamenti e standard devono essere
completate nelle diverse scale, aggiungendo la precisazione che nel raggiungimento
degli standard possono certo concorrere sia servizi pubblici che privati,
ma rivedendo al contempo sia lo strumento della convenzione che non garantisce
la correttezza delle prestazioni, e al di fuori del principio di sussidiarietà.
d - Definizione degli interventi nei tessuti storici che, pur secondo
definizioni generali propri di ogni città e dei loro diversi modelli
antichi, dovrebbero essere comunque prevalenti su quelle del PRG specifico,
acquisendo e consolidando i risultati del dibattito teorico e delle esperienze
concrete degli anni 80 e 90.
Alcuni riferimenti bibliografici
- Saskia Sassen, Le città nell'economia globale, Il Mulino
- Aree dismesse e città. Esperienze di metodo, effetti di qualità,
a cura di Marina Dragotto e Carmela Gargiulo, Franco Angeli 2003
- Petrillo Agostino, La città perduta. L'eclisse della dimensione
urbana nel mondo contemporaneo, Ed. Dedalo 2000.
- Alcaro Mario, Economia totale e mondo della vita. Il liberismo nell'era
della biopolitica, Manifestolibri 2003.
- Scandurra Enzo, L'ambiente dell'uomo, Etaslibri 1995.
- Letizia Caruzzo, L'urbanistica dell'accoglienza, Il Manifesto, 13 ottobre
1999.
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