Questo testo - bozza al 18 aprile 2006 - rappresenta una base di discussione in atto nell' Associazione IPAZIA di Firenze cofondata da Il Giardino dei ciliegi e da Associazione Rosa Luxembourg e non un documento formato. Lo pubblichiamo allo scopo di mettere a fuoco problematiche utili da pensare anche dall'opposizione e per lavorare verso una diversa gestione del potere (come sono in parte riuscite a Bologna). Maria Grazia Campari

La Città: bene comune

a cura di Associazione Ipazia di Firenze

Sulla soglia del nuovo millennio, la dimensione urbana entra nuovamente in crisi. La città del welfare, incarnazione di un ideale di governo e progettazione dello spazio urbano volto a produrre integrazione sociale e a scongiurare gli effetti negativi prodotti dalle leggi di mercato, è stata travolta, sotto i colpi della delocalizzazione e del ridimensionamento produttivo (downsizing), dell'evaporarsi delle politiche pubbliche e della corsa alla privatizzazione. Come conseguenza non si ha solo la ridefinizione delle gerarchie economiche locali, ma anche un'accelerata mutazione dell'organizzazione spaziale della città. I siti industriali si svuotano ma vengono consegnati nuovamente alla speculazione edilizia con la conseguente sistematica edificazione.
Nel contesto della mondializzazione le città conducono una politica economica senza esclusione di colpi l'una nei confronti dell'altra, tendendo a rapportarsi fra loro come imprese private in concorrenza. In questa realtà fatta di integrale adesione agli interessi economici egemoni, è comprensibile che le risorse a disposizione delle amministrazioni locali trovino nella destinazione pro-business la loro ovvia collocazione. Così l'Ente locale, mentre diventa sempre più liberista sul terreno sociale, è fervente interventista sul piano dell'economia e dei mercati.
Sulla base di posizioni ispirate dalla mondializzazione vi è stata la resa dichiarata di fronte alla cultura nemica del progetto, urbano o territoriale che sia, perché lo si considera un ostacolo alle opportunità da cogliere: costruire è attualmente considerata esclusivamente una questione privata.
Eppure la città del cemento, della rendita fondiaria, della speculazione edilizia non è solo lo spazio della rappresentazione del denaro. Sul territorio non ci sono solo più o meno dense costellazioni di attività economiche, ma ben più vaste costellazioni umane. Nella dimensione spazio-temporale le città sono carne, sangue, grumi di esistenza, memorie, labirinti di strade e corpi: sono storia. E la marea di vita la s'incontra andando per la città. Lo spazio plasmato dalla speculazione non può più essere in grado di dire no alla vita, e l'economia è rimessa al suo posto come semplice mezzo della vita umana e non il suo fine ultimo.
La crisi della città moderna - cui le forze del mercato (immobiliare ma non solo) rispondono con nuove cementificazioni, con nuovi insediamenti spesso blindati, sprechi di risorse naturali e umane e soffocamento urbano - può essere affrontata solo a condizione che il potere decisionale torni in mano pubblica.
(questa parte dovrebbe bastare, a nostro avviso, come cappello introduttivo; abbiamo eliminato la prima pagina e messo la prima frase in fondo. Ci sembrava un modo coerente di introdurre la proposta)

2.
E' inevitabile che qualunque proposta faccia riferimento ad una lettura della realtà sulla base di assunti qui esplicitati in estrema sintesi.
Premesso
¨ che la cronaca dell'urbanistica praticata, è la cronaca di sventramenti, lottizzazioni e cementificazioni in continuo divenire;

¨ che la città come organismo vivente ad alta complessità biologica è stato sempre piegato alla speculazione edilizia e alla rendita fondiaria;

¨ che il caos edilizio e viario è il presupposto di catastrofi ecologiche di varia natura;

¨ che il clima culturale degli anni Ottanta, segnato dall'abbandono della programmazione urbanistica, a colpi di leggi speciali, di accordi di programma, di cordate economico-finanziarie, ha piegato il "pubblico" a mero erogatore di risorse finanziarie e ambientali; (questa frase, forse, andrebbe contestualizzata o tolta)

¨ che le città contemporanee sono strette tra il puro saccheggio e la salvaguardia passiva del patrimonio storico-ambientale;

¨ che i centri storici sono sempre più un centro commerciale all'aperto, che si differenzia dai reali (?) centri commerciali solo (?) per la bellezza degli sfondi; (la frase secondo noi è ambigua, oltre ad essere inesatta: al massimo potremmo affermare che "i centri storici sono sempre più solamente un centro commerciale all'aperto" ma la verità è che i centri storici, che da sempre erano stati i luoghi naturali degli scambi economici e dei servizi utili alla comunità residente (con non sono o almeno non sono solamente ristoranti, negozi di vestiti, e locali notturni, più utili ai turisti che ai residenti, bensì parrucchieri, alimentari, ferramenta, mesticherie, calzolai etc.) stanno perdendo velocemente e per sempre questa funzione preziosissima, e sempre più spesso i residenti devono andarseli a cercare nei centri commerciali in periferia, quelli sì sempre più simili ai centri storici, tant'è che molti vi passano il sabato pomeriggio anche solo per passeggiarci. La conseguenza è che i centri storici sembrano pieni, ma lo sono solo di turisti, che passano e consumano, ma non conservano e non rinnovano, mentre i residenti passano il tempo a spostarsi in macchina ed ad intasare la città, quando con una politica diversa potrebbero usufruire di funzioni raggiungibili a piedi e della "bellezza degli sfondi".)
CONCORDO CON I COMMENTI IN ROSSO, I PROCESSI ECONOMICI CHE INVESTONO I CENTRI STORICI NON SONO ASSIMILABILI SOLO A QUELLI DEI CENTRI COMMERCIALI. INOLTRE QUESTA DISCUSSIONE E' MOLTO 'FIRENZE-CENTRICA', FORSE ESTENDIBILE ALLE CITTA' TURISTICHE. DOVE IL TURISMO E' MENO FORTE SONO GLI STESSI 'CITTADINI' AD ESSERE SOLLECITATI A FREQUENTARE IL CENTRO COME RITROVO NOTTURNO, SPAZI FIERISTICO, RISTORAZIONE…

Considerato che alla "rendita assoluta" della fase espansiva a macchia d'olio si è aggiunta la "rendita differenziale" degli anni '80; che la valorizzazione fondiaria viene determinata dallo sviluppo generale della città ed è quindi una ricchezza collettiva di cui si impossessa il solo proprietario; che tale fenomeno è la causa principale del pesante deficit infrastrutturale soprattutto nei trasporti pubblici;
Considerando infine che nel nostro paese e nella nostra città ha sempre dominato la logica dell'opulenza privata e del degrado pubblico,
riteniamo che la generalizzata domanda di servizi collettivi e di trasformazioni ambientali, sia riassumibile nella più generale questione della qualità della vita, dove la questione ambientale confluisce.
Se lo spreco di energia è grave, lo spreco di spazio lo è altrettanto in quanto la quantità di territorio disponibile è un bene limitato e irriproducibile. (l'abbiamo sottolineato perché ci sembra un concetto molto importante)
Dobbiamo convincerci che la rigorosa tutela della natura è garanzia di progresso sociale ed economico; che i vincoli sono un essenziale servizio pubblico; che la salvaguardia dei valori paesistici, culturali e l'uso parsimonioso del territorio, sono una priorità assoluta, alla quale va subordinata qualsiasi ipotesi di trasformazione.

Cosa fare per riprogrammare e riprogettare lo spazio.
La ragione della de-riflessione urbanistica e architettonica in molti Paesi come nel nostro, è stata determinata essenzialmente dalla speculazione edilizia e dalla conseguente rinuncia di gran parte dei ceti politici agli obiettivi di pianificazione democratica. Questa resa è dipesa dal fatto che un piano vieta, almeno in linea di principio, mediazioni, eccezioni, modifiche continue fino al stravolgimento, appoggi clientelari, deroghe, abusivismi e soprattutto speculazioni. Se poi il Piano oltre che avere una sua correttezza tecnico-scientifica fosse anche aperto alla corresponsabilità attuativa e gestionale dei cittadini, difficilmente qualcuno potrebbe permettersi arbitri, forzature e, quindi, attuare uno sfruttamento personale su quel bene collettivo che è una città . Si comprende facilmente, allora perché i piani siano stati visti da un lato, come il "libro dei sogni" e dall'altro come siano stati bruciati poiché il "caso per caso" rende possibile qualsiasi distorsione.
(è qui che secondo noi andrebbe aggiunta una qualche specificazione riguardo a cosa pensiamo dello strumento "piano regolatore".
Queste sono alcune caratteristiche insite nello strumento del PRG sulle quali, a nostro avviso, dovremmo riflettere prima di redigere la versione conclusiva della Carta.
1) E' vero che il piano è un formidabile strumento di tutela, ma è anche uno strumento rigido ed immobile.
In particolare non rispecchia le caratteristiche dinamiche del territorio, se con questa parola intendiamo un'unità spaziale che però è il risultato complesso di fattori culturali, sociali ed economici; tutti fattori dipendenti in ultima analisi dalla popolazione che lo abita, la quale si modifica nel tempo, non solo in termini numerici, ma soprattutto in termini di distribuzione qualitativa. In fondo è quello che affermiamo anche noi nella parte finale, quando diciamo che "La presenza di comunità immigrate costringe a ripensare radicalmente la progettazione dello sviluppo urbano" e che i "I nuovi insediamenti devono offrire luoghi di incontro e socialità per nuovi modi di vivere la città multietnica": riproponendo uno strumento statico, anche se rinnovato ed in grado di assorbire la condizione attuale, non facciamo altro che reiterare l'errore iniziale di credere che questa condizione sia eterna . Non è così, probabilmente, cambierà ancora, ed ancora negli anni a venire.
2) E' uno strumento di contrattazione individuale.
Attraverso l'unico strumento delle "osservazioni" (per di più a posteriori) il Comune apre una specie di "trattativa privata" che mette il cittadino di fronte alla possibilità di contrattare solo sul singolo appezzamento o su ciò che lo riguarda egoisticamente molto da vicino. Questo fa sì che emergano solo interessi particolari e bisogni individuali (dei piccoli proprietari come dei grandi developers) ai quali l'amm. Pubblica al massimo può contrapporre od imporre delle fantomatiche motivazioni di "utilità collettiva". Ma la verità è che, non presentando alcuna fase procedurale durante la quale chiamare i singoli a ragionare come comunità (attraverso forum, community meetings etc.) sullo sviluppo globale del loro territorio, non permette agli interessi individuali di maturare (attraverso il confronto, il dialogo, l'informazione) e di comporsi in un disegno comune che arriverebbe così a rispecchiare, senza doverlo imporre, una "Città come Bene Comune".
3) Il PRG, per come è stato concepito, non è uno strumento in grado di correggersi.
Ed in questo, è in contrasto con il concetto stesso di sviluppo sostenibile, che prevede sì che le scelte iniziali debbano essere chiare, i principi condivisi e gli obbiettivi rispettati, ma che i processi debbano essere flessibili ed in grado di assorbire nuove informazioni man mano che la situazione si sviluppa: è il concetto di feedback che è particolarmente interessante nei processi di progettazione urbana sostenibile, perché prende atto del fatto che le condizioni possono variare in corso alla realizzazione, e che vadano continuamente monitorate per trovarvi soluzione senza però compromettere scelte, principi, obiettivi.
Resta invece ferma la convinzione che tutti i processi in atto (in particolare quelli che riguardano accordi, programmazione negoziata, contrattazioni con privati) debbano essere assolutamente trasparenti e sottoposti continuamente al giudizio pubblico; pubblico che, ogni volta che si renda necessario, deve essere coinvolto attivamente anche nelle scelte a monte del processo Questa probabilmente è la pecca più grave dello strumento delle "varianti", che essendo fatte a posteriori ed in maniera "poco trasparente" (per essere gentili), non solo non sono sottoposte al vaglio pubblico, ma spesso, sono anche incoerenti con gli obiettivi generali di piano, quando non smaccatamente in contrasto.)

L'impegno dev'essere dunque la riaffermazione della politica di piano per dotare l'Italia della fondamentale legge che consenta finalmente di sottrarre alla taglia della rendita fondiaria terreni e immobili, separando il diritto di proprietà da quello di costruzione. Se per 40 anni l'assenza di una pianificazione territoriale ha lasciato - con la speculazione - via libera al degrado e al peggioramento delle condizioni di vita, il recupero della pianificazione dovrebbe essere il fulcro di una nuova politica amministrativa, per tre ragioni:
1 - restituire certezza di diritto a tutti gli operatori, indipendentemente dai legami che si costruiscono, di volta in volta, con gli amministratori;
2 - avere lo strumento indispensabile per governare con risorse scarse;
3 - avere una nuova idea di città per praticare una svolta autentica nella vita civile.

(su questa parte siamo perfettamente d'accordo, ma appunto, per quanto detto prima, forse dovremmo ridefinire attraverso quale strumento va attivato il "recupero della pianificazione". A questo proposito, è interessantissima la nuova e recentissima Legge Regionale n.1/2005 della Toscana (l'abbiamo mandata in allegato sia nella forma completa che in quella della circolare riassuntiva per le amministrazioni) che di fatto abolisce del tutto lo strumento del PRG, subordina tutti i piani (strutturali, attuativi etc) al piano territoriale regionale, e li sottopone tutti ad un vaglio che ne assicuri la sostenibilità. Per ora i commenti sono positivi, secondo noi ne dovremmo tenere conto nella Carta)

(da qui in avanti la Carta diventa più specifica e comincia ad affrontare alcuni problemi da cui emergono le singole proposte. Forse si potrebbe strutturare il resto del documento per sezioni, ognuna riferita alla singola proposta e con all'interno le argomentazioni correlate. Leggendolo ci è sembrato che emergessero quattro proposte in particolare (correggici Ubaldo se eventualmente abbiamo male interpretato alcuni passaggi):

1) la proposta di piano "metropolitano"
(che eventualmente alla luce della legge regionale 1 potrebbe trovare una collocazione intermedia tra il piano territoriale e quelli strategici)
1 - Mentre bisognerebbe ripristinare e ampliare l'indipendenza dei comuni minori per valorizzare pienamente la loro specificità collettiva, si tratta di dare alle grandi città l'assetto metropolitano richiesto da quella macchia edificata continua, chiamata "città dispersa". Ciò non attraverso una procedura unificata ma secondo modelli istituzionali pensati a misura di ciascuna area, poiché ogni città è un caso a sé. Il Piano della città metropolitana è necessario non solo per ragioni di unitarietà del sistema ecologico e ambientale, ma principalmente perché tende a consolidarsi un vasto bacino di pendolarità determinato dal trasferimento di nuclei familiari, da trasformazioni dei modi di produrre e da processi di terziarizzazione, che superano i cristallizzati confini comunali.

2) la proposta di separare il profitto edilizio dalla rendita sul suolo attraverso l'acquisto pubblico temporaneo delle aree da trasformare
2 - C'è un modo tradizionale che assegna all'amministrazione pubblica il compito di stabilire le regole per gli interventi altrui, e di gestire in proprio una parte minore del suolo, cioè le vie di comunicazione e gli impianti necessari a disimpegnare i terreni privati. I difetti di questo metodo - lo squilibrio finanziario, derivante dalle spese pubbliche a fondo perduto che valorizzano i terreni privati - emergono già a cavallo dell'800/900, e conducono a un secondo metodo, che assegna all'amministrazione pubblica il compito di acquisire temporaneamente i terreni da trasformare, corredarli delle opere pubbliche e rivenderli in pareggio economico ai vari operatori pubblici e privati.
Olanda, Paesi Scandinavi, Gran Bretagna hanno applicato su larga scala questo secondo metodo soprattutto nel secondo dopoguerra, mettendo in pratica l'acquisto pubblico temporaneo delle aree da trasformare, per eliminare il sovrapprezzo speculativo sulla casa e rendere progettabile il nuovo costruito. In Italia mentre l'articolo 18 delle legge urbanistica 1150/1942 offriva la possibilità di attuare i Piani Regolatori mediante l'esproprio delle aree di espansione, non si è riconosciuto il ruolo dell'intervento fondiario pubblico , già sperimentato in Europa da mezzo secolo, al fine di separare il profitto edilizio dalla rendita sul suolo. Pertanto nel nostro paese il saggio della rendita ricavata dalla compravendita delle aree può crescere indefinitivamente il costo dell'area può incidere sul prezzo dell'alloggio in misura del 50%, 100%, il 200% e anche più.
Per rimediare all'aumento dei prezzi che mette la casa fuori dalla portata di vaste masse, non osando agire sulla causa si è preferito correggere alcuni effetti con esiti micidiali: si ha un mercato dell'affitto inaccessibile; si è favorito in ogni modo l'accesso alla casa in proprietà come surrogato a una casa in affitto introvabile; si è costruito un patrimonio di case pagate col denaro pubblico che rimane quantitativamente insufficiente (sotto il 10%) e che comunque oggi viene donato agli immobiliaristi.
Ecco perché a fronte agli innumerevoli esempi di urbanistica contrattata, ossia privatizzata e speculativa, frutto avvelenato degli anni Ottanta (per Firenze è sufficiente ricordare Novoli e il progetto Castello-Ligresti) - l'impegno dovrebbe essere la riaffermazione della politica di piano per dotare l'Italia della fondamentale legge che consenta di sottrarsi alla taglia della rendita fondiaria.

(argomentazione correlata)
Nel 1951 i 47 milioni di abitanti avevano a disposizione 37 milioni di stanze, e si riteneva che ne mancassero 10 milioni per arrivare al rapporto ottimale di una stanza per persona. Oggi sono disponibili circa 100 milioni di stanze per una popolazione che si è stabilizzata poco sopra i 50 milioni, oltre il 25% delle quali non occupate. L'Italia, in continua emergenza sfratti, ha un patrimonio edilizio di stanze per abitante fra i più alti del mondo. Dunque i nuovi provvedimenti dovrebbero correggere non le quantità, ma la loro difettosa distribuzione.
Ma la crisi degli alloggi continua e gli sfratti continuano a fare emergenza, gli affitti (mercato quasi interamente privato e anche quando è pubblico osserva le stesse regole) e i prezzi delle abitazioni sono tali che ampie fette di cittadini sono fuori mercato. Queste dinamiche hanno determinato un pesante aggravio per i bilanci familiari: mentre nel 1980 la spesa per l'abitazione non superava il 10% del reddito familiare, nel 1998 incideva per il 25%.
A ciò va aggiunto la decisione rovinosa della legge del dicembre del 1993 che prescrive agli enti pubblici di vendere la metà delle case in loro proprietà. Essa s'inserisce nella logica delle privatizzazioni delle imprese di proprietà pubblica e fa parte del proposito - condiviso praticamente da tutti - che lo Stato ceda all'iniziativa privata i beni accumulati nei cinquant'anni passati. Aver inserito una parte rilevante del patrimonio di edilizia residenziale pubblica nell'indirizzo ideologico neoliberista dimostra come la classe politica rinuncia a correggere la divergenza fra domanda e offerta prodotta dal sovraprezzo speculativo sulle aree edificabili mediante un'offerta alternativa di aree edificabili pubbliche agevolando in tal modo la stessa produzione edilizia. Si tratta quindi di una politica della difesa del mercato immobiliare che spiega i conflitti ricorrenti fra politica edilizia e politica urbanistica.
Per impostare la politica nazionale delle aree fabbricabili basterebbe separare le circostanze dell'acquisto pubblico dalle destinazioni progettate. L'acquisto dei terreni da trasformare spetta alle amministrazioni comunali e va inserito nel ciclo dell'urbanizzazione pubblica preventiva in pareggio economico. Per questo ciclo non occorrono finanziamenti ma anticipi di cassa, che i Comuni, le Regioni, lo Stato possono erogare per le vie consuete.
Collocando l'intervento pubblico nel campo della manovra fondiaria, si avrebbe il controllo della produzione edilizia complessiva attraverso la fornitura di aree fabbricabili pubbliche in pareggio economico; si libererebbe il mercato edilizio dalla speculazione fondiaria; si consentirebbe un controllo generale sull'assetto del territorio da parte delle comunità locali. Occorre perciò una riforma organica del quadro legislativo, che manca da 50 anni e che dovrebbe essere uno dei grandi temi del prossimo dibattito politico.

2)a il nuovo piano deve tenere conto ed evitare in futuro l'arretrato di infrastrutture e servizi derivante dalla non acquisizione delle aree (questo punto è strettamente correlato al 2) come giustamente Ubaldo ha sottolineato, quindi forse si può lasciare assieme in un'unica proposta)
Il secondo problema è come smaltire gli effetti di 50 anni di malaurbanistica realizzata. Dal dopoguerra in poi si sono costruiti sui suoli privati, solo nell'edilizia residenziale, circa 10 miliardi di metri cubi (calcoli 1995), che al costo del 1995 di 400.000 lire al metro cubo sono costati circa 4 milioni di miliardi e hanno fatto lievitare il valore dei terreni urbanizzati fino a una cifra pressappoco equivalente. Questa somma, prelevata dagli acquirenti delle case, è stata incamerata dai mercanti di aree. E' mancato invece il finanziamento delle opere pubbliche, che si sono dovute pagare a fondo perduto, e sono rimaste in buona parte ineseguite.
Esiste quindi nelle disastrose periferie delle città grandi e piccole un enorme arretrato di infrastrutture e servizi che dovrebbe essere colmato . Quindi occorre un intervento straordinario delle Regioni e dello Stato. Si potrebbe pensare a un piano decennale finalizzato all'adeguamento dei servizi rispondendo così ad una fortissima domanda popolare. Infatti, le periferie disordinate e ossessive, realizzate negli scorsi 50 anni, sono il luogo di residenza consolidato della maggior parte della popolazione italiana, e proprio per questo devono essere migliorate nell'unico modo possibile: completando o ricreando la rete dei servizi e degli spazi liberi.

Con i nuovi Piani di Roma, di Firenze, ad esempio, siamo in presenza di un piano dell'offerta verso il mondo economico che spiega il gigantesco dimensionamento dei piani stessi: milioni di metri cubi di cemento in città che perdono abitanti. Sono quindi Piani che abbracciano la cultura neoliberista cancellando coloro che nella città vivono soffrendo le contraddizioni per le carenze dei servizi, per la mancanza di case a prezzi accessibili, per il traffico, e via dicendo.
Occorrerebbe quindi una politica che parta da una seria valutazione quantitativa e qualitativa della domanda. Un PRG non può certo risolvere tutti i problemi. Infatti se da oltre un decennio assistiamo alla cancellazione del concetto stesso di edilizia pubblica, non è certo l'urbanistica che può invertire il corso della deriva. Per questo servirebbe una reale politica di sinistra che abbia a cuore il destino di tutti coloro che non hanno la capacità di accedere al mitico mercato. Ma il Piano urbanistico e gli studi che lo sostengono avrebbero almeno il dovere di evidenziare le esigenze e le aspettative della popolazione, così da fornire agli amministratori gli strumenti di conoscenza critica indispensabile a definire le politiche, ma queste informazioni non ci sono. E allora i milioni di metri cubi di cemento hanno motivazione nell'atteggiamento culturale con cui si è impostato il lavoro: si voleva fare il piano dell'offerta e questo si è fatto.

a) Non è più ammissibile spendere risorse per rimediare a carenze che non hanno mai fine, poiché si accettano, perpetuandoli, i meccanismi che producono all'infinito queste stesse carenze.
b) Non è più accettabile finanziare a fondo perduto le opere di urbanizzazione primaria e secondaria - strade, impianti, scuole, biblioteche, mercati, giardini, impianti sportivi - il cui corrispettivo arriva ai proprietari dei terreni circostanti sotto forme di valorizzazione delle aree. Le opere pubbliche di interesse locale devono essere prodotte gratuitamente dal ciclo dell'urbanizzazione pubblica, quindi essere incluse nel prezzo di costo dei terreni e pagate dagli operatori prima degli interventi. In termini economici si tratta di operare affinché le spese per le opere pubbliche d'insediamento siano pagate in anticipo attraverso il pareggio del ciclo di urbanizzazione o riurbanizzazione delle aree. L'amministrazione dovrebbe intervenire direttamente nel processo di trasformazione, riservandosi il passaggio essenziale: la fornitura delle aree fabbricabili ai vari operatori. Il controllo dell'occupazione di nuove aree, mediante l'acquisto pubblico preventivo,
c) Tuttavia le grandi quantità di nuove aree fabbricabili sono del passato e l'offerta residua non potrà che essere limitata. Oggi il problema più rilevante è dato dalle cosiddette aree di trasformazione ossia dalla trasformazione delle aree già edificate - in particolare delle aree industriali dismesse - ma nessuna amministrazione è stata finora capace di applicare a queste aree l'acquisto pubblico preventivo, per ricondurle a un disegno generale. In tale contesto alla rendita assoluta si è aggiunta la rendita differenziale, che trova terreno propizio nei "piani della terza generazione" basati sulla contrattazione con la proprietà fondiaria. Nascono tante trattative isolate dove l'esigenza di collocare per ogni terreno, opportunità pubbliche e contropartite private annulla la possibilità di una manovra unitaria.
(questi tre punti sono perfetti come conclusione delle proposte 2) e 2)a)

3) proposta di trasformazione ecologica della città
Se si facesse un sondaggio, i cittadini risponderebbero che il problema più grave è il traffico. Ed in effetti il traffico rende la città particolarmente invivibile. Tuttavia questo è anche un problema che, se si avesse coraggio, si potrebbe risolvere più facilmente di come in generale si pensa. Perciò questo non è il problema più grave. Quello più grave perché di natura strutturale è il problema del verde .
Sotto i colpi della delocalizzazione e del ridimensionamento produttivo, del ripiegamento delle politiche pubbliche e della corsa alla privatizzazione, e degli scempi ad essi ascrivibili, l'operazione più significativa, come critica diretta alle ragioni dell'economia vigente e all'impianto concettuale che vi presiede, può essere la messa in campo di una diversa pianificazione urbanistica, sociale e culturale del territorio, affinché si cominci ad agire sulle cause e non sugli effetti dei vari degradi. La nuova stagione dei diritti deve comprendere il diritto alla città PER TUTTI I CITTADINI, VECCHI E NUOVI, NATIVI E MIGRANTI, sulla base del concetto della Città come bene comune. [SEMPLICE AGGIUNTA PER PROVARE AD EVITARE DI 'SEPARARE' I MIGRANTI E LE CULTURE ALTRE IN UNA SEZIONE A LORO RISERVATA]
Affinché non s'identifichi il ruolo dell'Ente locale come semplice accompagnatore politico-istituzionale degli interessi economici occorre rompere con la spirale di impoverimento e di esclusione, con una nuova politica degli investimenti dell'Ente Locale, una politica per la riqualificazione e ristrutturazione urbana contro la periferizzazione sociale e culturale, significa - rivoluzionando le priorità di bilancio - cercare di distribuire sul territorio qualità sociale.
Una opportunità in questo senso sembrava fornita dalla svolta che le grandi città stavano disarmando sia per quantità di popolazione sia perché restano liberi ampi spazi dismessi, costituiti da fabbriche, officine, magazzini, negozi, ecc. frutto dei nuovi modi del produrre, del lavorare, del vivere. Gli spazi abbandonati avrebbero potuto assurgere a risorsa primaria per la collettività e non sono mancate formali dichiarazioni in proposito. Tuttavia nulla di tutto questo è però accaduto e si è continuato a coltivare lo spazio urbano a cemento.
Non vi sarà nessuna nuova qualità del vivere se non si esce dalle logiche capitalistico-speculative ed è vano pretendere di avere ragione dei vari inquinamenti (dall'inquinamento dell'aria a quello estetico) se non se ne combatte la causa prima, e cioè l'uso distorto che da decenni le amministrazioni vanno facendo del territorio.
I vari "dismessi" possono invece ancora essere un occasione a condizione che si pensi all'aumento degli spazi aperti nella città, di ridurre le densità edificabili, controllare le destinazioni, pensare anche a demolizioni e ad un recupero a cubatura zero, vuoti strategici per la penetrazione del verde in città.
Come deve essere pensata la città in questa prospettiva? A questa domanda non si può dare risposta restando all'interno di una pianificazione urbana tradizionale, ma implica mutamenti profondi in molti settori dell'organizzazione sociale. Dalla critica dell'economia della crescita quantitativa, dalla compatibilità tra economia dell'uomo ed economia della natura, conflitto fra indicatori della crescita e del benessere, ai vincoli posti all'economia dai limiti biofisici (effetto serra, buco dell'ozono, piogge acide) ai limiti economici (disoccupazione strutturale) e dai limiti sociali (nuovi bisogni e nuovi valori . Le regole del nuovo progetto di città si esprimono in nuovi concetti transdisciplinari che producono nuovi indicatori sociali (benessere sociale contro crescita quantitativa) e nuovi standard che interpretano le funzioni biologiche ed ecologiche del mondo vivente: regole legate alla capacità dei sistemi di assorbire inquinamento, rumori, variazioni climatiche, ecc.
Al di là delle grandi catastrofi (Chernobyl, Bhopal, Seveso), con i fenomeni macrobiologici, i mutamenti climatici, la crescente desertificazione, la riduzione della fascia di ozono, è la stessa vita quotidiana ad essere soggetta a un progressivo deterioramento direttamente legato al degrado dell'ecosfera. Questo si configura come un "secondo sfruttamento" dei cittadini, poiché la distruzione della natura e della Città appartiene alla logica del medesimo sistema economico e sociale. Come abbiamo una natura depredata, spogliata, inquinata così abbiamo uomini e donne depredati, spogliati, inquinati. Il sistema economico è distruttivo ecologicamente e socialmente. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica sono strettamente legate. I limiti del patrimonio-natura non pongono soltanto il problema di equità inter-generazionale nella distribuzione delle disponibilità, ma anche un problema di equità tra gli attuali esseri viventi.
All'attuale città che produce rifiuti, inquinamento, dissipazione di risorse, distruzione di ambiente naturale, occorre sostituire una città del riuso, del recupero, ossia una città caratterizzata per la quota sempre più bassa di materia ed energia destinata al proprio mantenimento. Al modello aziendalistico dell'Ente Locale che si manifesta concretamente nella pratica della concertazione che esalta solo la logica degli affari, va contrapposta l'idea della città come organismo vivente biologico ed ecologico. La questione ambientale impone la fine dei consumi di suolo e l'abbandono della concezione riduttiva del verde urbano, inteso come occasionale e inutile arredo urbano, per passare alle acquisizioni della biologia dei sistemi viventi che indicano come il verde assolva funzioni vitali per la produzione di ossigeno, per assorbire l'inquinamento acustico, per abbattere le polveri, per temperare il micro clima .
Mettere al centro la città a misura di vita, significa tradurre in politica la riconversione ecologica della città che investe non solo i modi di vivere e consumare ma anche le modalità dell'edificare e/o ristrutturare gli edifici pubblici e privati secondo i criteri dell'edilizia bio-compatibile, tenendo presente come gli elementi della natura siano potenti alleati contro inquinamento atmosferico e acustico e contro lo spreco di energia. Una strategia dunque che va oltre i metri cubi di cemento e dove i valori ambientali come vettori, diffusori di qualità, possono liberare i cittadini e le stesse attività economiche dalla rendita fondiaria che li soffoca. Tutto questo ha nel verde il suo asse primario.
Le ragioni per procedere in questo modo stanno nel ridurre l'impatto sulla biosfera "locale". La crisi ambientale e la questione climatica, che mette a rischio migliaia di esseri umani, non sono solo una questione estiva che riguarda gli anziani (del resto invisibili per il resto dell'anno) e non risolvibile con le risibile soluzioni dei supermercati e delle caserme dei Vigili del fuoco. Il riscaldamento locale è dovuto all'urbanizzazione intensa e continua. Rinfrescare le città è il problema poiché sulle aree coperte in prevalenza da cemento e asfalto si forma la cosiddetta "isola di calore", che surriscalda l'aria rispetto alla campagna circostante. Uno studio scientifico (2002) dell'Agenzia federale per l'ambiente Usa, dimostra che piantare 10 milioni di alberi a Los Angeles, permetterebbe di ridurre la temperatura estiva di 4 gradi. Le strategie di riforestazione urbana sono le prime da mettere in atto per produrre brezza termica anche in assenza di vento. Nelle conoscenze dell'ambientalismo scientifico vi sono dunque gli elementi per dei veri e propri piani per la riduzione del caldo in città.
Una città dopo l'automobile significa non la fine del trasporto privato individuale ma il suo contenimento e la sua subordinazione alle esigenze del trasporto pubblico di massa, della salute e del benessere collettivi, oltre che rappresentare quella struttura qualitativa benefica anche alla stessa produzione di merci. Ecco perché più che il potenziamento del sistema viario è importante la sua classificazione funzionale e una rigorosa politica dei parcheggi rimuovendo gli errori gravissimi che si stanno compiendo in materia. Ma soprattutto è centrale che la politica della mobilità sia integrata a quella del verde e della qualità ambientale.
Una volta si parlava di isola pedonale per il Centro, oggi non basta più dal momento che in tutta la città sono superate le soglie a rischio di inquinamento. Ci vuole un arcipelago pedonale e una rete mista di itinerari pedonali e ciclabili (l'abbiamo voluto sottolineare, perché è una proposta molto bella) che unifichino tutti gli spazi verdi della città e della conurbazione, componendo una struttura portante del disegno urbano metropolitano.
Proviamo immaginare, diceva Walter Tocci per Roma, che nel deserto fatto di lamiere di automobili, di relazioni interdette, di ingorgo e aria irrespirabile possano sorgere delle oasi, dei luoghi che si possa passeggiare, giocare, respirare e chiacchierare. Allora l'idea è creare 10, 20 spazi completamente liberati dalle automobili e restituiti alle forme di vita più semplici. Non si tratta di fare grandi opere ma una manutenzione del tessuto urbano: rifare la pavimentazione a misura dei pedoni, togliendo marciapiedi e asfalto; ecc. Da queste zone, da queste nuove piazze potrebbero partire almeno una strada interamente riservata ai mezzi pubblici (elettrici) tale da consentire un collegamento facile con i centri o un'altra piazza e quindi rendere fattibile la limitazione al traffico ben al di là della singola e solitaria isola pedonale. Nella piazza rinnovata possono essere accessibili tutti i moderni mezzi di comunicazione, che potrebbero consentire di fruire collettivamente di determinati spettacoli e manifestazioni di vario tipo, o, perché no anche seguire in diretta alcune sedute del consiglio di quartiere e del comune.
Cominciamo dal proprio quartiere, e dalle aree dismesse a costruire una città nuova.

4) proposta per una città accessibile ovvero una città della cura
QUESTO 4 PUNTO NON SEMBRA IN RAPPORTO CON QUANTO SEGUIVA PROVO A RISCRIVERE

4 (o 5) Elogio dei margini: per una città plurale

Nel suo libro La città imprevista (Elèuthera, 2003), Paolo Cottino racconta alcune pratiche di dissenso rispetto all'utilizzo convenzionale di svariati spazi urbani milanesi; occupazioni di edifici abbandonati, mercatini autogestiti e vendita in strada, orti cittadini sono alcune delle esperienze che immigrati, pensionati, disoccupati sperimentano a partire dai loro desideri e bisogni, dalla loro quotidianità e posizione subalterna. La descrizione di queste pratiche di riutilizzo e trasformazione degli spazi urbani - luoghi solitamente marginali, oppure centrali ma 'problematici' secondo le accezioni del senso comune come stazioni, parchi e marciapiedi riconvertiti alla socialità - rimanda ad una proposta politica: l'abbandono di una visione organica, unitaria e tecnicistica del territorio e delle sue funzioni a favore di una nuova centralità dei soggetti e delle loro pratiche. Soggetti sempre più plurali, diversi, differenziati sia dal punto di vista delle origini e delle culture sia in termini di generazione, genere, classe, stili di vita, tempi, accesso alle risorse e gestione del potere.
La retorica della città 'multiculturale' imperversa quasi ovunque, alternando spesso la descrizione di scenari catastrofici con appelli paternalistici in difesa di diversità congelate, stereotipate. Un'idea altra di città - la città bene comune - colloca invece al centro i soggetti con le loro molteplici determinazioni; e guarda ai luoghi e alle pratiche 'marginali' come possibilità di riappropriarsi e di trasformare l'imperativo oggi dominante della legge e dell'ordine, a servizio di un altro imperativo con cui si modella la vita urbana contemporanea, 'consumare e produrre'. Diversi soggetti collettivi, i migranti in primo luogo, stanno già rinegoziando l'utilizzo e il significato dello spazio urbano imposto dalla norma e dal senso comune predominante; pratiche di utilizzo e riappropriazione materiale e simbolica che sono quotidianamente davanti ai nostri occhi, dall'occupazione di spazi abitativi ai ritrovi in luoghi pubblici riconvertiti dal desiderio di socialità. Invece del ritorno alla normalità, chiediamo che questi soggetti, le loro pratiche e i loro modelli, siano inclusi in quel processo incessante di negoziazione che dovrebbe essere alla base della costruzione della territorialità e dei legami sociali che la definiscono. Dai margini e attraverso i margini ci arrivano molteplici pratiche di disobbedienza urbana e autorganizzazione che contribuiscono ad aprire spiragli per l'immaginazione di città diverse, plurali: 'le variegate domande di fruizione degli spazi urbani, i conflitti attorno ai suoi molteplici possibili usi, sono dunque buoni indicatori del cambiamento sociale in corso e rimandano all'insieme dei nuovi significati che le nostre città oggi sono chiamate ad accogliere'. (Paolo Cottino)
Perché ciò avvenga sono indispensabili spostamenti che coinvolgono processi materiali e simbolici, al centro dei quali vi è la necessità di riconoscere nell'altro/a - nelle sue variegate articolazioni - un soggetto che attivamente partecipa dal basso alla ridefinizione delle regole, dei significati e delle politiche del vivere cittadino. Tradotto in ambito urbano implica di favorire l'organizzazione della diversità piuttosto che l'estensione dell'uniformità; il valore della pluralità piuttosto che la sintesi uniformante; il riconoscimento dell'irreversibilità dei processi di complessificazione della società e delle città non in termini di frammentazione ma di riconoscimento che include conflitti, tensioni e cambiamenti.

TOGLIEREI LA PARTE DI SEGUITO
Viviamo ormai in città "in cui quasi tutti sono venuti da un altro luogo" (Anne Michaels ); ma le differenze che attraversano le città non sono solo quelle dei 'migranti'; diverse culture, sottoculture, gruppi sociali, percezioni culturali, - in termini di generazione, genere, 'etnie', classi, poteri, tempi e percorsi di vita, aspettative e modalità associative - differenziano la società urbana e dovrebbero contribuire al processo continuo di rinegoziazione, decostruzione e costruzione collettiva delle forme organizzative della convivenza urbana.
Se si guarda al fenomeno della trasformazione multietnica della città dal punto di vista dell'insediamento nelle città e nei territori, si pone la questione della definizione dei modi stessi dell'abitare delle comunità accolte, questione affrontata fino ad ora costruendo recinti reali e simbolici di emarginazione e sofferenza.
Eppure è esistita una architettura moderna che ha elaborato il tema dell'abitare di massa, dando consistenza a programmi urbanistici, sorretti da strategie politiche, che propugnavano l'inserimento delle classi considerate subalterne nel corpo delle città. Alcuni esempi in questo senso - limitatamente all'Italia - sono dati dalle case della Società Umanitaria, frutto di filantropia e socialismo umanitario, costruite a Milano nei primi decenni del secolo. Così la Garbatella romana degli anni Venti, costruita da Innocenzo Sabbatini e altri, intervento di edilizia sovvenzionata destinato a ceti popolari, come il Tiburtino III, che Mario Ridolfi e Ludovico Quaroni costruirono in anni di attuazione del Piano Fanfani attraverso lo strumento dell'INA Casa.
Il momento che viviamo è davvero decisivo per il tema dell'abitare poiché città e territori sono investiti da una trasformazione antropologica tanto profonda da sostanziare un atteggiamento radicale: la reale multietnicità della nostra società non può che inverarsi in una necessaria mutazione del concetto stesso di abitare, per molti aspetti più rivoluzionaria di quella che sostenne le ricerche del movimento moderno, impegnato a indagare e a praticare le modalità dell'inserimento della classe operaia nelle città d'Europa. Oggi si tratta di comprendere che la modalità dell'accoglienza di popoli altri - fuori dall'emergenza - obbliga a pensare nuovi modi di vita collettiva: nuova tipologia dell'abitazione, nuovi disegni di impianto per le aree di risanamento, nuova rapporto tra alloggi e servizi.
L'Italia di oggi al contrario si ostina in un'emergenza dissipatrice di investimenti e generatrice di conflitti, giacché le baraccopoli e nomadopoli non possono che far incancrenire il problema della collocazione sul territorio delle comunità migranti. Forse oggi è inattuale pensare a "case comuni", ma è percorribile solo la strada di "villaggi" riservati alla comunità migranti da un lato e alle villette a schiera dall'altro, idolatrato modello di promozione sociale?
E da ultimo, il problema dell'abitazione per comunità immigrate dovrebbe essere congiunto a quello della necessità, - complementare al recupero di patrimoni edilizi esistenti, - di costruire prioritariamente case per tutte le fasce deboli, anziani e giovani inclusi, con l'obbiettivo di creare un nuovo paesaggio urbano capace di fare balenare modi di vita permeati da una ricercata dimensione del collettivo, come è la città se la si pensa come organismo vivente.

semplice spunto
- La presenza di comunità immigrate costringe a ripensare radicalmente la progettazione dello sviluppo urbano.
- I nuovi insediamenti devono offrire luoghi di incontro e socialità per nuovi modi di vivere la città multietnica
(la parte che segue ci sembrava dovesse stare in fondo a tutta la Carta, in quanto dà le indicazioni di contenuto della proposta di legge)
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Tutte le precisazioni elencate dovrebbero venire stabilite da una nuova legge urbanistica che dovrebbe essere l'esatto contrario della legge Lupi . Le Regioni o quali che saranno le nuove dimensioni amministrative di un qualsivoglia futuro ordinamento locale, dovrebbero adattare la loro legislazione e il loro lavoro concreto alla realtà specifica del loro territorio, sulla base di una nuova Legge Urbanistica Nazionale, poiché le modificazioni degli strumenti sono una condizione necessaria anche se non sufficiente per il rilancio della pianificazione urbana, che a sua volta può iniziare a correggere le storture del paesaggio italiano e allestire in prospettiva uno scenario fisico migliore alla qualità della vita quotidiana, in cui anche il patrimonio di bellezza ereditato dalla storia sia adeguatamente tutelato.
Una legge urbanistica nazionale che consenta un PRG (o un altro strumento) che:
¨ punti a massimizzare il valore d'uso dei suoli urbani attraverso una separazione tra il diritto di proprietà e il diritto all'edificazione
¨ consenta una politica urbana incentrata sul rispetto delle differenze e aperta alla sperimentazione di nuovi ideali di vita
¨ riconosca il primato dell'etica pubblica fondata sul concetto di limite e sul principio della partecipazione e corresponsabilità attuativa e gestionale dei cittadini sulle scelte, adottando processi decisionali inclusivi per definire un reale progetto pubblico di città
¨ assuma come obiettivo prioritario il miglioramento della qualità della vita di tutte e tutti
¨ riconosca il valore sociale di cura, approntando un disegno di spazi e norme d'uso che ne garantisca il pieno sviluppo
¨ subordini qualsiasi ipotesi di nuova edificazione ad una rigorosa verifica delle possibilità di riuso del patrimonio esistente
¨ consideri inalienabile il diritto di ogni persona alla casa e ad una adeguata dotazione di servizi pubblici situati a ragionevole distanza dalla sua abitazione
¨ consenta la cooperazione e la solidarietà nelle relazioni fra città e territori, opponendosi attivamente alle pressioni verso competizioni distruttive di risorse umane e ambientali (questa frase potrebbe anche costituire il quadro generale dell'intera proposta di legge)


Conclusione

Tutte le sfere pubbliche sono state progressivamente colonizzate da interessi privati che occupano l'intero spazio pubblico proclamandosene i soli legittimi occupanti. Si sostiene tale cosiddetta modernizzazione rendendo tutto vendibile e acquistabile, "prostituendo il territorio, l'ambiente, i luoghi pubblici e le istituzioni" (Cassano). Non possiamo perciò che ostacolare questa devastante vendita all'incanto restituendo al pubblico la dignità di soggetto attivo in una vera e propria azione di decolonizzazione dal privato della sfera pubblica.
Questo significa porre in sostanza il problema di organizzare in modo nuovo e collettivamente, nello spazio pubblico, l'esercizio dell'avere, del potere, del sapere.
In tale cornice almeno due cose vanno perseguite contemporaneamente: 1 - la ristrutturazione fisica della città (ciò richiede non solo denaro, ma cultura politica); 2 - la creazione di reti di relazioni sociali completamente diverse da quelle del passato. Attraverso la città (scambio centro-periferia, città-campagna, permanenti o quotidiani) si pone tutto il problema della mobilità sociale e culturale, della cultura intesa come privilegio e come mezzo per mantenere i privilegi oppure come fattore di conoscenza nell'ottica di una pluralità vista come necessità per la stessa sopravvivenza individuale e collettiva.

Con il rifiuto del modello della crescita illimitata e la conseguente adozione del concetto di limite alla crescita urbana:
- Ricostruzione di quartieri, borghi, ecc., per contrastare il rafforzamento delle grandi insostenibili città, proponendo sistemi insediativi contenuti e autosostenibili.
- Abbandonare la concezione riduttiva del verde urbano inteso come residuato naturale al sistema antropizzato, e passare alle acquisizioni della biologia dei sistemi viventi, dell'etologia, dell'ecologia del paesaggio, tutte indicanti come il verde assolva funzioni vitali per la produzione di ossigeno, per assorbire inquinamento, per temperare il microclima.
- Esaltare e valorizzare le differenti comunità urbane, per costruire la città del futuro come città multietnica, multicentrica, ecologica; città degli abitanti, città del tempo liberato dal lavoro, città accessibile, città della sicurezza della/nella relazione, città degli spazi liberi da case e dagli stereotipi, città dell'autodeterminazione.

(questa parte invece l'abbiamo lasciata fuori dalla Carta per ora, perché pensiamo che dovremmo discuterne ancora in riunione)

Politica delle aree e pianificazione della città
Benché la responsabilità della pianificazione urbana sia nelle mani delle amministrazioni comunali, spetta allo Stato e alle amministrazioni di livello intermedio stabilire le regole per la pianificazione comunale, correggendo le numerosissime deficienze del contesto legislativo vigente. E' tempo di una legge che offra una procedura generale di attuazione dei programmi urbanistici in analogia con quelle già sperimentate in altri paesi europei. Tale legge dovrebbe essere applicata, in primo luogo, alle aree dismesse proprio perché oggi il riuso delle aree abbandonate richiede un riesame completo delle destinazioni d'uso.
Dunque un sistema di indirizzi vincolanti per le leggi regionali e le scelte comunali e gli argomenti che esigono una Legge nazionale possono essere i seguenti:
a - La definizione giuridica del PR che alcune regioni (Toscana, Umbria, Emilia- Romagna!!!! Pietro ha insistito perché venisse specificato….) sdoppiano in due strumenti diversi con compiti di indirizzo generale e di precisazione esecutiva. Sdoppiamento problematico poiché le scelte generali e le destinazioni precise per le singole aree dovrebbe essere interconnesse affinché la progettazione e l'esecuzione restino coerenti fra loro. Tuttavia resta del tutto aperto la ricostruzione della gamma degli strumenti esecutivi, compromessi dalla caduta dell'articolo 18 della legge del 1942.
b - Che assicuri l'uso corretto dei piani particolareggiati che sono - o dovrebbero essere - appunto strumenti esecutivi, entro limiti di tempo stabiliti. I piani esecutivi in deroga al piani urbanistici dovrebbero essere vietati, riconducendo eventuali interventi di emergenza alla procedura prevista dalla legge 142/1990.
c -Le disposizioni sui rapporti fra insediamenti e standard devono essere completate nelle diverse scale, aggiungendo la precisazione che nel raggiungimento degli standard possono certo concorrere sia servizi pubblici che privati, ma rivedendo al contempo sia lo strumento della convenzione che non garantisce la correttezza delle prestazioni, e al di fuori del principio di sussidiarietà.
d - Definizione degli interventi nei tessuti storici che, pur secondo definizioni generali propri di ogni città e dei loro diversi modelli antichi, dovrebbero essere comunque prevalenti su quelle del PRG specifico, acquisendo e consolidando i risultati del dibattito teorico e delle esperienze concrete degli anni 80 e 90.


Alcuni riferimenti bibliografici
- Saskia Sassen, Le città nell'economia globale, Il Mulino
- Aree dismesse e città. Esperienze di metodo, effetti di qualità, a cura di Marina Dragotto e Carmela Gargiulo, Franco Angeli 2003
- Petrillo Agostino, La città perduta. L'eclisse della dimensione urbana nel mondo contemporaneo, Ed. Dedalo 2000.
- Alcaro Mario, Economia totale e mondo della vita. Il liberismo nell'era della biopolitica, Manifestolibri 2003.
- Scandurra Enzo, L'ambiente dell'uomo, Etaslibri 1995.
- Letizia Caruzzo, L'urbanistica dell'accoglienza, Il Manifesto, 13 ottobre 1999.

14- 05- 06