Ciò che appare, infatti, è che si tratti della tecnica
di trasferimento nucleare (già ampiamente descritta dal rapporto
Donaldson, pubblicato in Inghilterra nello scorso agosto) che prevede
che il nucleo di una cellula somatica del paziente affetto da una malattia
degenerativa venga inserito
in una cellula uovo umana non fecondata dalla quale sia stato precedentemente
rimosso il nucleo. La
nuova cellula prodotta con questo "trapianto" nucleare, coltivata
in vitro, darà luogo a cellule che potranno in seguito essere
indirizzate nella via differenziativa utile per la patologia in questione.
Le cellule così ottenute, possedendo lo stesso genotipo del paziente,
potrebbero essere utilizzate per il trapianto
(allo scopo di "sostituire" il tessuto danneggiato) con una
netta riduzione dei rischi di rigetto. La tecnica in questione, dunque,
implica l'utilizzo massiccio di ovociti umani e ciò solleva parecchie
questioni spinose
(sulle quali, apparentemente, nessuno sembra essersi soffermato).
1. Chi saranno le donatrici? Come è noto la donazione di ovociti
implica manipolazioni invasive e fisicamente pesanti per la futura donatrice
che deve anche subire un preliminare trattamento ormonale
(per la stimolazione ovarica) che, secondo molti dati epidemiologici
non ancora smentiti,
potrebbe essere responsabile di tumori sia ovarici che della cervice
ad insorgenza tardiva.
Viene da domandarsi quali e quante donne (precettate? Pagate? Spinte
dalla solidarietà? O dallo spirito di sacrificio?), al corrente
dei rischi e della gravosità della manipolazione, accetteranno
di proporsi quali donatrici di ovociti, e questa domanda porta a chiedersi
per l'ennesima volta come mai al concetto di rispetto e di protezione
dell'embrione non sia indissolubilmente associata l'idea di rispetto
e protezione della donna dalla quale deriva e dipende qualsiasi embrione.
2. La disponibilità di ovociti umani costituirà sempre
il fattore limitante per la tecnica della clonazione terapeutica mediante
trasferimento nucleare, poiché non ci saranno mai abbastanza
ovociti disponibili per tutti i pazienti affetti dalle malattie degenerative
che potrebbero essere
curate con cellule staminali ottenute mediante questa tecnica (è
da tenere presente che, fisiologicamente, nell'arco di tempo che va
dal menarca alla menopausa, una donna produce 400-500 ovociti che arrivano
a maturazione e che già ora la disponibilità di ovociti
costituisce un problema nell'ambito della riproduzione assistita dal
momento che, per ogni ciclo di stimolazione ovarica, si ottengono
soltanto da 8 a 15 ovociti maturi). Dati questi presupposti, il rischio
che questo trattamento (messo a punto in anni di ricerche costosissime)
diventi accessibile soltanto per quei pochi che potranno permettersi
il lusso di pagare gli ovociti necessari, diventa molto alto.
3. Esiste poi il problema dell'affidabilità, della chiarezza
e dell'onestà dell'informazione che viene data al pubblico (i
futuri fruitori dei risultati di queste ricerche). Basta parlare con
chi si occupa di tali ricerche per rendersi conto di quanto sia elevato
il livello di incertezza sull'efficacia delle terapie e di quanto numerose
siano le questioni insolute riguardanti sia l'aspetto biologico, che
quello clinico di queste tecniche
(coltura in vitro delle cellule, modalità del loro trasferimento,
sopravvivenza delle medesime nell'organismo ricevente, rischi di una
loro trasformazione tumorale, loro efficacia nel sostituire funzionalmente
le cellule danneggiate del paziente, ecc) .
Il procedere della scienza è per definizione senza garanzie possibili
a priori, ma perché si permette che l'informazione taccia le
difficoltà e gli inevitabili insuccessi di questo cammino, diffondendo
notizie che possono confondere e illudere i cittadini? Il documento
della commissione Dulbecco
(che speriamo di poter leggere presto) sarà tale da modificare
questa tendenza?