Sulle nuove guerre
 di Laura Coci

l'articolo è stato pubblicato da "Il Cittadino" il 19 febbraio 2003

Credo che sia necessario considerare le nuove guerre nel contesto del processo noto come globalizzazione. Per globalizzazione intendo l’intensificarsi delle interconnessioni globali, politiche ed economiche, militari e culturali (Mary Kaldor)

La guerra moderna ha caratteri molto differenti da quelli della guerra tradizionale, che si è sviluppata nelle forme note a partire dal XVII secolo e che ha connotato (e reso possibile) la nascita degli stati nazionali.

La guerra moderna, in primo luogo, evidenzia la linea di demarcazione tra quanti – da una parte - dispongono delle risorse economiche, del controllo dei mezzi di comunicazione, della libertà di movimento (un privilegio), e quanti – dall’altra - vivono al di sotto di ogni soglia di povertà, non accedono all’informazione, non hanno possibilità di spostamento per il regime dei visti e i costi di viaggio.

Mary Kaldor individua come elementi caratterizzanti delle guerre moderne la nuova politica dell’identità, i diversi metodi di combattimento, la nuova economia di guerra.

La nuova politica dell’identità (sia nazionale che transnazionale) comporta una rivendicazione del potere, anche distruttivo, sulla base di semplici etichette, in contesti di indebolimento delle fonti della legittimità politica, a livello locale o globale (per esempio degli organismi internazionali): un gruppo rivendica una posizione di privilegio su di un altro in quanto portatore di purezza etnica o garante dell’ordine internazionale, paladino dei diritti umani contro la violenza genocida o rappresentante del bene contro il male. Etichette, appunto, che tendono a isolare singoli paesi creando contrapposizioni funzionali al controllo della geopolitica mondiale.

I diversi metodi di combattimento sono da una parte riconducibili alle tecniche della guerriglia (e sono le aggressioni alle città sperimentate nei Balcani, discutibilmente definite “guerre civili”), dall’altra alla logica della spettacolarità, anche mediatica (la guerra in Iraq e la guerra NATO nella Federazione serbo-montenegrina e in Kosovo). Le nuove tecniche di combattimento tendono infatti a evitare gli scontri diretti tra eserciti regolari, con l’effetto di aver rovesciato, nel corso nel Novecento, il rapporto tra vittime militari e vittime civili: nella prima guerra mondiale rispettivamente otto a uno, nella seconda in rapporto di parità, nella guerra moderna uno a otto.

La nuova economia di guerra, infine, è decentralizzata (al contrario di quanto avveniva nelle guerre tradizionali) e dipende fortemente dalle risorse esterne, compreso il commercio illegale di armi, droga, beni pregiati; prevede inoltre il ricorso all’embargo, con l’effetto di produrre regressione delle relazioni sociali e azzeramento di diritti umani fondamentali quali la salute e l’istruzione, oltre che della vita stessa.

Negli ultimissimi anni le nuove guerre si sono sempre più identificate con le “guerre spettacolo”: spettacolarizzazione della guerra tecnologica (aerea), che si avvale di volta in volta delle etichette di “umanitaria” o “preventiva”, e che come tale viene accuratamente preparata presso l’opinione pubblica, mediante l’esibizione mediatica dei profughi (quegli stessi profughi che diventano clandestini da respingere a ogni costo quando approdano sulle coste europee), o l’individuazione e demonizzazione della nuova incarnazione del male assoluto: Noriega (chi ricorda il dittatore di Panama?), Saddam, Milosević…

La guerra tecnologica segna la linea di demarcazione tra globale e locale, ha un forte impatto televisivo, sancisce il principio per il quale una vita occidentale vale infinitamente più di una non occidentale: la morte di civili incolpevoli vittime di un bombardamento viene definita un “effetto collaterale”, non un crimine contro l’umanità, ma sarebbe certamente tale se fosse imputabile alla parte avversa. Ancora una volta, è una questione di etichette: i “giusti” sono tali per definizione, anche se distruggono obiettivi civili e provocano morte di civili (anche, a medio termine, con l’embargo).

Le guerre successive alla seconda guerra mondiale hanno anche prodotto, oggi, nel mondo, ventidue milioni di persone in fuga, profughe, rifugiate: altro “effetto collaterale” delle nuove guerre, connotate come guerre di aggressione alle città, alla popolazione civile, a donne e uomini divenuti “materiale di risulta” imbarazzante e reso invisibile (questa volta) dal silenzio dei media. Il cinismo dei governi che dichiarano la guerra giunge a pianificare l’invio di aiuti umanitari alle popolazioni che ne sono vittima: bombe per milioni di dollari da una parte, pacchi di cibo per pochi dollari dall’altra; i governi che dichiarano la guerra creano migliaia, centinaia di migliaia, di persone disperate, in fuga, impediscono che muoiano di fame e intervengono, poi, nei paesi devastati con la macchina dell’emergenza umanitaria e della ricostruzione.

Le organizzazioni umanitarie come Lodi per Mostar e come il Consorzio Italiano di Solidarietà (al quale Lodi per Mostar aderisce) non vogliono essere, e non saranno, strumento di questa politica.

Laura Coci
Lodi per Mostar

Mary Kaldor, Le nuove guerre, Roma, Carocci, 1999.