L’informatica ha un sesso?

di Isabelle Collet

 
Ada Byron Lovelace
prima programmatrice

 

Un mestiere maschile, l'informatica? In Malesia, tale affermazione fa sorridere. Alla facoltà d'informatica e di tecnologie dell'informazione di Kuala Lumpur, la capitale, tutte le responsabili dei dipartimenti sono donne, preside inclusa. A Penang, le studentesse in informatica sono il 65% del totale , e sette dei professori (su dieci) sono donne, anche qui sotto la direzione di una preside.
Mazliza Othman, la responsabile del dipartimento, dichiara di non aver mai pensato all'informatica come ad una disciplina maschile (1): «Non la vedo così. L'ingegneria, o la geologia, sono percepite come qualcosa di maschile dalla gente. Ma non vedo cosa ci sia di maschile nell’Informatica!». E lo motiva così: l'informatica è un mestiere pulito, che non ha bisogno di grande forza fisica; è un'attività che si esercita nel terziario, e questo permette di lavorare da casa.

Fuori dalla Malesia, tuttavia, l'informatica è un settore fortemente maschile. In Francia, è addirittura l'unica disciplina scientifica che ha registrato una netta diminuzione della percentuale di iscritte. Se si confronta la femminilizzazione delle scuole di ingegneria secondo le specializzazioni (2), si osserva in effetti che la percentuale di donne aumenta in tutti i settori tranne l'informatica in cui, dopo una crescita arrivata al 20% nel 1983, è tornata ai suoi valori iniziali (11 % nel 2000, 9% nei corsi degli anni '70). Nel 1983, l'informatica è il settore più femminilizzato nelle scuole di ingegneria, insieme a quello agro-alimentare (6 punti percentuali sopra là media nazionale). Nel 2000, ha raggiunto la meccanica e la difesa (13 punti sotto la media nazionale), i due settori tradizionalmente più maschili.

Questa situazione non si limita alla Francia. La Germania, la Gran Bretagna o gli Stati Uniti mostrano dati analoghi. Tuttavia, il numero delle ragazze che si dedicano all'informatica non è cambiato poi così tanto, in questi anni. Però, man mano che nuovi corsi sono stati aperti, i ragazzi sono stati i più rapidi ad iscriversi. La vera domanda da farsi non è, in fondo, perché le ragazze non amino l'informatica ma, piuttosto, perché la passione per la conoscenza del computer, dopo l'inizio degli anni '80, abbia colpito soprattutto i ragazzi.

Negli anni '80, il computer era percepito innanzitutto come una macchina per la gestione dell'informazione legata al settore terziario, tradizionalmente più femminilizzato dell'industria. Per una giovane ricercatrice, l'informatica faceva parte dei mestieri socialmente accettabili. All'inizio degli anni Ottanta, il Personal Computer comincia a diffondersi presso gli adolescenti maschi, sempre i primi ad attrezzarsi quando si acquistano nuovi gadget tecnologici (3). In seguito, diventeranno gli utenti prioritari, se non esclusivi, del computer di famiglia. Intorno ai personal computer si costituiscono associazioni di adolescenti tecnofili, club informatici e gruppi di amici che si dedicano alla programmazione e ai videogiochi - in un'età in cui l'istinto identitario li spinge ad unirsi e ad opporsi ai gruppi femminili. Dieci anni dopo, iniziano gli studi superiori, accompagnati da un illusorio discorso mediatico ripreso in coro dai genitori. «Mio padre ha sempre avuto paura che un giorno ci ritrovassimo disoccupati - ci dice un'informatica. Dovevamo studiare per avere un buon lavoro, per essere ben remunerati, per non rischiare la disoccupazione e per lui, l'informatica era il massimo».

È trascorsa una generazione. Ma, nonostante i progressi tecnici e le trasformazioni della vita quotidiana provocate dalla sua multiforme evoluzione, presso gli studenti e le studentesse scientifiche l'informatica è rappresentata tuttora dal personal computer e dall'immagine mitica del programmatore. L'80% di loro raffigura in effetti gli informatici come maschi, poco sportivi e poco attenti al loro aspetto, a proprio agio con le macchine più che con gli esseri umani. Seduti dietro la scrivania tutto il giorno per attività ripetitive, e soprattutto per programmare.

Da dove proviene questo sfasamento con la realtà? Eppure, tutti questi giovani vedono immagini digitali, ascoltano musica elettronica, telefonano con il cellulare e utilizzano quotidianamente Internet per mandare e-mail, acquistare online, scaricare musica o video... Com'è possibile che questi nuovi utilizzi così diffusi non abbiano avuto alcun effetto sulla percezione della professione? Come se non vi fosse alcuna professionalità informatica alla base di tali utilizzi; come se il mestiere di informatico fosse immutabile, quali che siano gli usi e le innovazioni tecnologiche. Meno del 30% delle professioni dell'informatica coinvolgono l'attività di programmazione; tuttavia, nell'immaginario, l'informatico, quello vero, resta un programmatore.

Certo, questi informatici esistono: sono gli hacker, nell'accezione originale del termine: «appassionati del fai da te (4)», specialisti dei sistemi e delle reti. Rappresentano comunque una minoranza, rispettata ed ammirata per le sue competenze, eventualmente temuta per le capacità reali o presunte di penetrare i dispositivi di sicurezza informatica. Ma, paradossalmente, sebbene gli hacker rappresentino l'archetipo dell'informatico, questo profilo non è ricercato dalle aziende. L'hacker è visto come qualcuno di tecnicamente brillante ma incontrollabile, incapace di lavorare in gruppo ed impermeabile agli imperativi di produttività.

Questa minoranza (la cui immagine ambigua, un po' terrorista, un po' Robin Hood, attira, affascina e respinge) è divenuta l'idealtipo della professione. Essa serve da riferimento agli studenti delle materie scientifiche e anche agli informatici che oserebbero esibirne il titolo solo se programmatori. Le donne fanno fatica a sentirsi legittimate in una professione la cui immagine non assomiglia loro. Esse diranno: «Io faccio informatica» piuttosto che: «Io sono informatica» . Anche se la primissima programmatrice fu una donna.

Nel 1842 fu pubblicato uno studio matematico sulla "macchina delle differenze" di Charles Babbage, il primo calcolatore meccanico. In questo studio compare un algoritmo, il primo nel suo genere, che elenca le istruzioni che permettono di calcolare i numeri della serie di Bernoulli. In particolare, questo primo programma utilizzava un ciclo: una sequenza di istruzioni da ripetere fino alla verifica di una condizione di uscita.

Lo studio fu firmato con le sole iniziali A. A. L., come si usava al tempo per le donne. La sua autrice si chiamava Augusta Adelaide (Ada) Byron Lovelace ed era la figlia del poeta romantico inglese Lord Byron. In seguito, l'esercito americano diede il nome di battesimo di Lady Ada a un linguaggio di programmazione.

1944: il calcolatore diventa elettrico. Howard Aiken, lavorando per l'International Business Machines (Ibm) sul Mark I, il primo calcolatore numerico di grandi dimensioni, è a capo di una squadra di tre ingegneri. Si deve ad uno dei suoi membri, Grace Hopper, l'origine dei metodi di compilazione. Ella sapeva che per introdurre i calcolatori nei settori non scientifici e nel settore commerciale era necessario il perfezionamento del linguaggio di programmazione, affinché esso divenisse una lingua comprensibile per i non matematici. La sua convinzione che i programmi potessero essere scritti in inglese suscitava l'ilarità dei suoi colleghi. All'epoca, una larga diffusione commerciale non era una priorità per Ibm, convinta che solo dei ricercatori sarebbero stati in grado di utilizzare dei computer. Scrivendo, nel 1952, il primo compilatore, Hopper ha permesso la vasta diffusione e l'utilizzo di questi linguaggi, aprendo le porte della programmazione a tutti e non solo ad una manciata di matematici di punta.

A quell'epoca, il software non aveva alcun valore, e il prestigio era riservato innanzitutto ai costruttori delle macchine. È per questo che, nei ruoli-chiave delle invenzioni informatiche, si incontrano dei matematici? Ancor più che in altri settori scientifici, il campo informatico soffre di una pressoché totale assenza di donne, che priva le giovani di modelli positivi in cui identificarsi. La divisione socio-sessuata dei saperi assegna le scienze e le tecniche agli uomini sin dall'infanzia, dai libri di scuola al cinema, ai fumetti e ad altre rappresentazioni della vita quotidiana. Ebbene, intraprendere un percorso di formazione vuoi dire immaginare una futura immagine di sé possibile e desiderabile (5). Non ci si proietta in una professione con la quale non si ritiene di avere alcuna affinità, e occupata esclusivamente da persone che non ci somigliano affatto. Sebbene le ragazze, così come i ragazzi, facciano grande uso del computer, non sembrano però volerne acquisire la padronanza.

Nell'inchiesta citata in precedenza presso gli studenti e le studentesse in scienze, due terzi delle ragazze (contro il 40% dei ragazzi) affermano di non sapere se le professioni nel campo delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione potrebbero interessarle (6). Esse spesso non hanno alcuna idea di quello che fa un informatico o un'informatica durante il giorno. Perciò, per descrivere la professione, molte ragazze, e persino dei ragazzi, devono ricorrere allo stereotipo. Una di loro dirà: «Difficilmente mi vedo parlare tutto il giorno di circuiti integrati, di ram e di reti»; un’altra: «Non voglio passare la giornata ad occuparmi di macchine, preferisco occuparmi di bambini o parlare con le per sane». Molte, più sobriamente, diranno: «Non mi interessa», senza riuscire a specificare il motivo, semplicemente per «l'idea che ci si è fatta».

Al contrario, le laureate raccontano di aver scelto questo mestiere con motivazioni più aderenti alla realtà del mondo professionale: parlano della grande varietà della professione, della sua presenza trasversale in molteplici settori professionali, della possibilità di imparare cose sempre nuove, delle sfide intellettuali, dell'importanza dell'attività relazionale e del lavoro in équipe...

Certo, queste informatiche hanno incontrato ostacoli nella loro carriera: il sospetto di incompetenza, una progressione salariale incomprensibilmente più lenta rispetto ai loro colleghi maschi, la paralisi della carriera intorno ai 30 anni, quando i datori di lavoro temono che rimangano incinte. L'esistenza di tali ostacoli non deve farci perdere di vista la riuscita professionale e personale di molte donne in un settore a bassa disoccupazione e in cui i sai ari di ingresso non variano più secondo i sessi.

Infine, quando si confrontano gli argomenti delle lavoratrici informatiche a favore della propria professione con un certo numero di «cattive ragioni» invocate da tutte e tutti coloro che si dichiarano poco interessati dal lavoro nell'informatica, si ha l'impressione che potrebbe essere facile rovesciare l'attuale tendenza. «Basterebbe» far conoscere la realtà del lavoro nell'informatica e abbattere lo stereotipo dell'informatico-hacker (invece di rafforzarlo continuamente) perché un maggior numero di ragazze ritengano che l'informatica è un mestiere da prendere in considerazione, aperto al mondo, in continuo cambiamento, denso di sfide intellettuali e umane (7). Con la speranza che un giorno, come dicono le malesi, non si capisca più cosa vi sia di maschile.

Questo articolo è stato pubblicato in Le monde diplomatique - il manifesto del giugno 2007


NOTE

(1) Vivian Lagesen e Ulf Mellstròm, «Why is a computer science in Malaysia a gender authentic choice far women? Gender and technology in a cross-cultural perspective», Symposium Gender & Ict: Strategies of inclusions, Bruxelles, 2004.

(2) Si veda per gli anni dal 1972 al 1995, i «Bullettin Id» del Consiglio nazionale degli ingegneri e dei ricercatori di Francia (Cnisf). Per 2000: calcoli di Catherine Marry in Une révolution respectueuse, les femmes ingénieurs?, Belin, Parigi, 2004.

(3) Cf. Dominique Pasquier e Josiane Jouèt, «Les jeunes et la culture de l'écran (volet français d'une enquéte comparative européenne)», Réseaux, n.17 (92-93), Parigi, 1999.

(4) To hack significa in inglese «tagliare». Qui il termine è impiegato nel suo senso inglese d'origine, cioè «appassionato di calcolatori» e non nel senso peggiorativo e recente di «pirata informatico».

(5) Cendrine Marro e Françoise Vouillot «Rappresentazione di sé. Rappresentazione del ricercatore-tipo e scelta di un orientamento scientifico nelle ragazze e nei ragazzi di seconda» L'Orientation scolaire et professionelle, vol. 20, no. 3, Parigi , 1991.

(6) Si noti che la maggior parte dei ragazzi che ritengono di potersi pronunciare sulla questione dichiarano per il 37% di non essere interessati dalle professioni nelle Tecnologie dell'informazione e della comunicazione, mentre il 21% si dichiarano interessati, (per le ragazze: il 9% delle interessate, contro 1' 11 % delle non interessate).

(7) È ciò a cui si dedica da sei anni il progetto europeo Ada (Bruxelles), www.ada-online.org

 

 

 

17/06/2007