Pensiero dell'esperienza, esperienza del pensiero
di
Françoise Collin
Ogni pensiero nasce dall'esperienza ma nessun fatto d'esperienza ha
significato o persino coerenza a meno di non aver subito un processo di
immaginazione e di pensiero (Hannah Arendt, La vita della mente)
Le responsabili di questo incontro (XII Simposio dell’associazione
internazionale delle filosofe alla terza università di Roma e alla Casa
internazionale delle donne) tra le donne e la filosofia hanno voluto
sottolineare, con la dichiarazione d'intenti e il programma, che la
filosofia non ha l'appannaggio del pensiero. E' incontestabile. Il
pensiero è all'opera ovunque - o perlomeno dovrebbe esserlo. La filosofia
è forse semplicemente (come «la chiesa al centro del villaggio») il
richiamo all'importanza del pensiero in tutta l'esistenza e più in
particolare nel mondo minacciato dalle selvaggerie della
strumentalizzazione, avente per unico criterio l'efficacia. «Pensare da sé
e dialogare con gli altri» è un principio di salvaguardia dell'umanità.
Sono stata interpellata dalla problematica dei rapporti tra pensiero ed
esperienza, e pensiero dell'esperienza, agli inizi stessi del movimento
femminista, più di trent'anni fa, più precisamente all'interno della
rivista Les Cahiers du Grif che avevo all'epoca fondato e che erano intesi
riunire intellettuali e non intellettuali, per l'appunto attorno al
concetto salvifico di «esperienza». La nostra prima rivolta ci spingeva
infatti in quel momento a esercitare il sospetto su un sapere - compreso
quello filosofico - qualificato come fallocratico, sapere che, lungi
dall'illuminarci, ci aveva ingannate sulla nostra condizione: doveva da
allora in poi essere oggetto di un «dubbio metodico» o persino essere
messo tra parentesi per leggere e interpretare il reale con uno sguardo
nuovo, scevro da a priori, che sarebbe finalmente stato, pensavamo, il
nostro sguardo. Ritornare alla sola esperienza - «alle cose stesse», per
parodiare Husserl - era allora il nostro leit-motiv, e da questo punto di
vista la testimonianza ci sembrava portare più verità sul reale rispetto
alla sua analisi. Per giunta questo modo di procedere permetteva a tutte
le donne, intellettuali e non intellettuali, di dire e di pensare il mondo
in modo nuovo, al di là delle formalizzazioni teoriche che, in nome della
ricerca della verità - «genio maligno» - l'avevano occultata e ce
l'avevano sottratta per secoli.
Ci siamo tuttavia rapidamente rese conto che gli strumenti intellettuali
che eravamo tentate di respingere, avendoli però interiorizzati, ci
permettevano di dare forma a questa esperienza, e che le testimonianze del
vissuto - la parola spontanea - prendevano senso solo attraverso una certa
griglia di lettura che applicavamo loro inconsciamente e che risultava
proprio dalla nostra cultura e formazione, iscritte in un linguaggio che
ereditavamo.
Il solo fatto che ci riuniamo qui sotto l'egida dell'università di Roma
tre e nella forma di un simposio che fa riferimento alle donne e alla
filosofia (e non, ad esempio, nella strada attraverso il grido o
dipingendo graffiti) mette in evidenza il carattere paradossale del nostro
procedimento: questo dentro/fuori che lo caratterizza in permanenza e che
ognuna, o ogni collettività locale o nazionale, cerca di sostenere con
maggiore o minore riuscita. Dentro/fuori le istituzioni, dentro/fuori la
tradizione dei saperi costituiti e delle narrazioni, che ci richiedono una
sorta di arte acrobatica del pensiero e dell'essere per accedere a un di
più di verità.
Il pensiero dell'esperienza è infatti sempre un superamento
dell'esperienza che le dà forma a partire da categorie che le sono esterne
e che sono riprese dalla tradizione della lingua e della cultura, compresa
quella filosofica. Non è dunque credendo di sfuggirle o occultandola,
bensì affrontandola e riassumendola dall'interno in modo critico, che
possiamo rinnovare il sapere. Esercizio certo rischioso, perché quel che
ci nutre e quel che ci avvelena (il pharmakon di Platone, come commentato
da Derrida), si presenta nello stesso cibo. Esercizio rischioso che non
possiamo tuttavia eludere con la scusa di sfuggire al sapere a vantaggio
dell'esperienza, poiché l'esperienza non è mai vergine di un sapere
inconsapevole che la struttura ed è tanto più temibile quanto più
inconsapevole. Non è attraverso un processo di tabula rasa ma attraverso
un processo di critica interna - una vigilanza - che può emergere la
verità. Non procedere a questa critica interna, non abitare il discorso,
significa lasciarlo alla propria tirannia, foss'anche occulta. Non esiste
un cogito-donna, non c'è esperienza originaria a partire dalla quale
ricostruire il mondo. Non c'è nemmeno creazione o pensiero femminile che
non si situi implicitamente o esplicitamente in relazione, positiva o
negativa, con la cultura circostante. La trasformazione dell'esistenza
delle donne implica necessariamente la trasformazione delle loro relazioni
con il mondo, e la trasformazione di questo stesso mondo attraverso un
costante dibattito teorico e pratico con tutte le sue articolazioni. Da
questo punto di vista è vero che il pensiero è all'opera non solo negli
spazi specializzati, riservati a tale scopo e che pretenderebbero averne
l'esclusiva - l'università ad esempio - ma ovunque si giochino modalità
dell'esistenza singolare e collettiva. La verità è decentrata ed è
poliglotta.
Il pensiero dell'esperienza non è un pensiero di questa, ma un modo di
costituirla, di darle forma e di interrogarla al contempo. Si tratta di un
atto interpretativo: non un semplice sapere ma già un giudizio. Le stesse
situazioni e gli stessi eventi possono infatti ripetersi nell'esperienza
senza però suscitare il pensiero. Così la situazione delle donne è apparsa
per lungo tempo - anche a loro stesse - come un dato evidente e quasi
atemporale, fino a quando il pensiero, distaccandosi dall'evidenza
dell'esperienza, non l'ha messa in questione, ne ha fatto un dato
problematico e, sottoponendola al giudizio, ne ha tracciato. Pensare
l'esperienza non è dunque, o non è solo, renderne conto, rifletterla per
analizzarla, bensì superarla. Il pensiero è un atto, un modo di dare forma
o di ridare forma al dato.
Il pensiero dell'esperienza si avvicina sì all'esperienza ma non allo
stato vergine, come si potrebbe sognarlo, ma come a un'esperienza
determinata, informata da una storia, e con gli strumenti di una lunga
tradizione, che si tratta non di ricusare o abolire, ma perlomeno di
interrogare. Il pensiero dell'esperienza diventa allora uno strumento di
lettura del mondo, e anche di rilettura dei testi filosofici della
tradizione, non solo per individuarvi le lacune o i pregiudizi che
riguardano la differenza tra i sessi e le donne ma, avendone preso la
misura, per appropriarsene in modo critico, senza soccombervi.
La presa di coscienza da parte delle donne della loro esclusione da alcune
sfere del sapere, e della loro oggettivazione riduttiva in questo sapere,
ha determinato una doppia strategia: da una parte, la costituzione di
sfere del pensiero e del sapere parallele e esterne all'istituzione, e al
tempo stesso, a poco a poco e in modo sempre più sicuro, la loro
integrazione in questa istituzione. E' così che quel che si doveva
chiamare «studi di genere» (i gender studies) si sono imposti in numerosi
paesi e sono anche stati poco a poco integrati in un buon numero di
università - l'Italia fa eccezione - come uno specialismo tra gli altri.
Posizione eminentemente ambigua di questi studi, che rischiano di vedere
eroso il loro potenziale sovversivo, aggiungendo un capitolo ai capitoli
del sapere tradizionale, un'aggiunta che non sovvertirebbe il corpus del
sapere ma verrebbe piuttosto a completarlo e, indirettamente, a
confermarlo. Ma in compenso, la non integrazione di questi studi - la loro
marginalizzazione - rischiava di esaurirne a breve il potenziale
trasformativo. Il problema non è nuovo in materia di strategia: è più
efficace rimanere al margine, sostenendo così una forza di radicalità,
oppure integrarsi per beneficiare di alcune leve determinanti, a rischio
di esserne contaminati? Bisogna interrogare la tradizione filosofica
dall'interno oppure elaborare una forma parallela di "pensare da sé" a
rischio di marginalizzazione, quando non di deperimento?
Il richiamo che ci viene qui fatto a un «pensiero dell'esperienza» è certo
un invito a pensare quel che accade e a cui siamo confrontate, senza
passare di necessità dal canale di concettualizzazione dei «filosofi di
professione», secondo la formulazione ironica di Arendt, anche quando lei
stessa si presentava sulla scena universitaria che ne è il vettore
portante. Ma l'esperienza stessa è mai puramente fattuale - un'esperienza
grezza - può mai essere non informata da una storia e da un sapere che
quanto più non si formulano come tanti quanto più sono operativi? Abbiamo
mai a che fare con «le cose stesse», nell'epoché della loro congiuntura e
della loro storia? Il pensiero dell'esperienza non è forse sempre il
pensiero di un'esperienza già informata, o messa in situazione, che
richiede la sospensione critica nel mentre che la cogliamo?
Un'altra pratica è stata quella di ritrovare nei sotterranei della storia
le opere di donne nate-morte, dimenticate o emarginate dalla costruzione
storica del pensiero. Nel riabilitare le opere e i testi di queste donne,
che malgrado gli arresti domiciliari sono riuscite a «pensare da se
stesse»: scrittrici, rivoluzionarie, mistiche, che sono riuscite a
sviluppare al margine del corpus dominante, malgrado l'ordine dato, un
pensiero irriducibile (ma il lavoro di resurrezione delle morte non
finisce troppo spesso per lasciare deperire le vive per mancanza di
attenzione?).
Comunque lo si individui, il pensiero delle donne si lavora nel corpo del
reale e nel corpus del sapere «patrocentrico», in un corpo a corpo diretto
o indiretto, e non a partire da una tabula rasa che permetterebbe la
costruzione di un sapere alternativo cosiddetto femminile. Non è un sapere
altro ma un'alterazione del sapere. Non è un nuovo pensiero
dell'esperienza ma il ribaltamento di questa stessa esperienza.
L'accesso delle donne all'esperienza del pensiero passa attraverso il loro
accesso alla dimensione dialogica. La più grande innovazione del movimento
delle donne alla fine del XX secolo è la reciproca autorizzazione a
pensare che si sono date attraverso la parola e l'azione (volo ut sis,
voglio che tu sia, Agostino citato da Arendt), ognuna autorizzando l'altra
e autorizzandosi a essere, a pensare e a parlare, che fosse nell'accordo o
nel disaccordo, perché lo stesso disaccordo conferma l'importanza
attribuita all'altra. Il pensiero dell'esperienza è innanzitutto il
pensiero di questa esperienza che consiste nel riconoscere l'altro/a come
agente del divenire del pensiero, come depositario/a di un momento della
verità. E' il costituirsi di questo appello che fa essere l'altro e, dando
credito alla sua parola, le riconosce la capacità di generare
simbolicamente. Perché se, fin dai greci, il rapporto di un uomo con un
altro uomo è il solo portatore di verità - essendo quello di un uomo con
una donna destinato a generare un figlio - il rapporto di una donna con
una donna si rivela ora anch'esso portatore della verità.
L'articolazione dialogica del pensiero mi sembra al cuore della sua
vitalità. «Pensare da sé e dialogare con gli altri», mettere in relazione
e a confronto «le esperienze di pensiero» che si fanno in punti diversi e
secondo modalità diverse. E' nel pensare e nel parlare insieme, nel
confrontare le nostre esperienze, a partire dai luoghi che sono i nostri,
che ci assumiamo al contempo il comune e il differente che ci riunisce, la
posta in gioco della verità trovandosi in questo spazio a più voci, un più
che viene dalle esperienze a partire dalle quali si elabora, dalla
diversità degli approcci di cui sono fatte e delle lingue che le
articolano.
Si può sostenere che nel rimettere in gioco il pensiero nel dialogo,
nell'interpellare ciascuna e ciascuno, nel restituire all'interrogazione
la sua funzione di levatrice della verità, siamo fondamentalmente fedeli
all'ideale filosofico e democratico originario: partorire la verità che è
in ciascuno e in ciascuna, quando interroga la propria esperienza, e
metterla pubblicamente in gioco. Con questo avvertimento, non da poco: che
ognuna è contemporaneamente e alternativamente Socrate e il suo discepolo,
ognuna è interrogante e interrogata: è così che il dialogo di sé con sé si
iscrive nel dialogo di sé con l'altro, liberando il pensiero da qualsiasi
riferimento a un qualsivoglia «cielo delle Idee». Quel che taglia l'indecidibilità
fondamentale della messa in questione, non è il sapere bensì
l'immaginazione e il giudizio: una delucidazione dell'essere che è un far
essere, una «messa al mondo». Perché non siamo chiamate ad allinearci al
dato bensì a creare del senso.
Al pensiero dell'esperienza che considera l'esperienza come un fatto di
cui il pensiero renderebbe conto, si sostituisce così l'esperienza del
pensiero, quella che fa essere e significare l'esperienza stessa nell'indecidibilità
dell'alternanza dialogica. Perché l'esperienza non è un fatto che
fungerebbe da fondamento, ma è già da sempre un racconto suscettibile di
essere ripreso in una nuova narrazione, di cui oggi siamo eredi e
responsabili.
E' per questo che il pensiero dell'esperienza è anche un'esperienza
avventurosa del pensiero: non è tanto la delucidazione di quel che è già
ma piuttosto è il far essere quel che non è ancora e di cui il/la
filosofa, tanto quanto l'artista, è responsabile, a cui è assegnato/a.
Pensare non è soltanto rendere conto: è sempre anche e soprattutto
giudicare, e immaginare.
(traduzione dal francese di Federica Giardini)
questo articolo è apparso su
il manifesto
del 30 agosto 2006
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