Ho sognato uno spazio morbido


post-fazione al romanzo di Chiara Maria Colombari


di Maddalena Gasparini





Un fine settimana di settembre, la gita fuori porta con gli amici di sempre è l’occasione per Maria per lasciar fluire liberamente ricordi legati al vecchio borgo sull’Appennino che li aveva visti bambini e le storie delle persone che assiste nel Nucleo Alzheimer di cui è responsabile: a Masino si danno appuntamento le giovani famiglie che vivono in città, nascono nuovi amori, si spia il tradimento e si ripetono i litigi. Il farsi della memoria che costruisce la vita si affianca al suo disfarsi nella malattia di Alzheimer.

Maria ha un marito, Matteo, e due figlie, Laura e Silvia, che talvolta porta con sé al lavoro. Curiosa ed esuberante, Laura “va matta per la sedia a rotelle e la gamba finta” di Iris, ma vuole garanzie che l’ Alzheimer non “si attacchi”, che il “virus con le ali” non lo trasmetta alle persone che ama. La Malattia di Alzheimer non viene da una virus, ma “perché è scritto”, spiega la madre e per rassicurarla precisa “non dentro di noi”. La chiamano «l’epidemia silenziosa», ma non è una malattia contagiosa; è propria dei paesi dove le condizioni di vita e d’assistenza permettono non solo di non morire piccoli, ma anche di vivere molto a lungo. L’ Alzheimer è tanto più frequente quanto più sono alti gli anni: dopo gli 80 anni colpisce 1 persona su 5, dopo i 90 1 su 3. E’ scritta nella predisposizione genetica, ma si manifesta se la vita è abbastanza lunga, e precocemente se gli studi e i lavori e i rapporti, d’affetto o sociali, sono stati scarsi.

Non ci sono cure che la guariscano, ma una cura continua che accompagna il lento declino: la cura come lavoro e il lavoro, gratuito, di cura. Secondo lAIMA sono 900mila i pazienti che soffrono di Alzheimer in Italia e l’assistenza è a carico delle donne, di famiglia e «badanti», con una quota pari al 76,6% dell’assistenza totale. Col suo salario Maria ha quasi mantenuto la famiglia per un pezzo, ma da quando suo marito guadagna bene, Maria non lavora, “si occupa” di Alzheimer nel “modo classico e ancillare dell’essere infermiera”. Interrogandosi sul nesso fra giustizia e attività di cura dei malati cronici e dei disabili, Martha Nussbaum * ci segnala il gender bias, l’errore sistematico che non tiene conto che a svolgerla sono soprattutto le donne. Per nascere e crescere, quando si è malati o disabili, da bambini e da vecchi, ogni giorno, almeno un po’, si ha bisogno di cura, un bene che la filosofa propone di includere fra i beni primari, come la salute o l’istruzione. Un bene da ridistribuire fra gli uomini e le donne e le generazioni.

In casa e fuori, per amore o per denaro, è difficile separare affetto e competenza anche se cambiano la posizione e la professione. Basta uno a voler bene, dice Giovanna, basta che sia lei a voler bene alla caposala. Anche se la tiene in carrozzina con la cinghia, perché si è rotta due femori e i figli hanno minacciato la denuncia. La medicina difensiva. E’ per questo che urla Giovanna, perché preferisce rompersi un altro osso piuttosto che una cinghia la leghi alla carrozzina? il dilemma della scelta fra tutela e libertà, per chi è assistito e per chi assiste. I Nuclei Alzheimer, strutture dedicate a chi è affetto da demenza, per brevi ricoveri “di sollievo” o per una collocazione definitiva sono luoghi formalmente aperti, ma uscire è come scappare; dove si entra consenzienti, ma l’oggetto del consenso è sfuggente: la riabilitazione? l’intrattenimento? il controllo dei sintomi? la protezione? Non è facile tener fede al principio di autodeterminazione, quando può capitare, come a Ivano, di “perdersi dentro se stesso” e disperarsene e perdere il contatto con la realtà. Come declinare l’autodeterminazione quando è persa o gravemente compromessa la capacità: di comprendere, ricordare, prevedere le conseguenze delle proprie scelte, e comunicarle?

Meglio sarebbe pensarci prima, dichiarare cosa si preferirebbe per sé, nel tal caso e nel tal altro; quali cure e quali no; dove e come si preferirebbe morire. Negli Stati Uniti la quasi totalità degli ospiti delle case di riposo ha compilato un testamento biologico che aiuta a fare scelte difficili per chi non ne ha più la capacità. Nel reparto di Maria le persone sembrano giungere serenamente al compimento della vita; con la malinconia del caso ma senza accanimento. Basta la speranza che la Lina sopravviva fino al lunedì, cosicchè le si possa dare un ultimo saluto al ritorno dall’Appennino; o che Saro muoia in fretta, prima che il Comune lo trasferisca in una struttura più a buon mercato, perché “è già troppo grave … non ha bisogno di una struttura mirata”.

Gli ospiti di Maria sono quasi tutte donne: viviamo più a lungo e siamo più esposte alla malattia. Ognuna ha la sua storia, di cui restano tracce in gesti, inquietudini, smorfie, aggressioni, di cui non è facile cogliere il significato: bisogna rimontare brandelli di racconti, di informazioni dei parenti, di pettegolezzi, perché no.

Dall’ esperienza e dai ricordi, dalle associazioni e dai rimandi, dall’ascolto e dai confronti, nell’andirivieni fra la struttura e la città e la casa prendono senso gli strepiti e i silenzi, gli atti e i gesti. Elodia ha le tasche piene di sorprese, come quelle della nonna; nasconde caramelle in luoghi impensati, chiude la stanza con mezzi di fortuna, grida -sei una troia, a qualcuna che passa di fuori, a chi capita; qualcuna le ha rubato il marito, sia mai che le rubi le caramelle; Enerina vuole toccare le mani di Norma, ma non ci arriva come quando fra innamorati ci si lascia, ci si cerca, ci si incontra, ma non ci si tocca; Rosalba cammina avanti e indietro per i corridoi chiedendo permesso permesso permesso; ma sotto i portici affollati non funziona, Maria ci ha provato, nessuno si scosta.

Io, per lavoro, davvero “mi occupo” di demenza. Perché non posso dire che la curo. “Il medico non sembrava persona da prendere in considerazione” scrive di Clotilde l’autrice. Spesso del resto sono i parenti, la figlia, la moglie, che mi portano una persona che non sa dire cosa l’ha portata a fare una visita. A me così tocca piuttosto ascoltare l’esasperazione dei famigliari, diradare qualche dubbio, fornire suggerimenti, spesso troppo impersonali per funzionare, ma talvolta sufficienti a indirizzare verso la soluzione. Trasmetto storie “a lieto fine” che comunichino la speranza; non della guarigione, ma della possibilità di soluzione di un problema, qui e ora, come quella della figlia di una paziente: quando la madre non riconoscendola la cercava disperatamente, lei usciva dalla porta di casa, suonava il campanello e al “rientro” veniva festosamente accolta; l’angoscia di entrambe si scioglieva in un abbraccio. Chi assiste quotidianamente, a casa o in una casa di riposo, le persone affette da demenza, ci insegna che per il benessere della persona più dei farmaci, più dei controlli medici conta esserci, ascoltare, tessere una nuova trama per chi ha perso il filo.

Nel gruppo di bioetica di cui faccio parte abbiamo speso due anni per discutere degli aspetti etici della cura della demenza, nel convincimento che molto si può fare perché sia rispettata e anzi promossa l'autonomia nelle diverse fasi di malattia malgrado essa sia caratterizzata dalla perdita progressiva delle capacità su cui l’autonomia si fonda. Nella letteratura scientifica trovai riferimenti non solo al genere, ma anche all’elaborazione femminista sul tema della relazione di cura**, sulle implicazioni sociali e politiche del tradizionale lavoro delle donne. L’analisi del modello delle cure materne ci aiuta a coglierne le ambivalenze e la conflittualità, l’oscillazione fra sentimenti contrastanti: la tenerezza da una parte e l’obbligo a cui non ci si può sottrarre e quindi la rabbia dall’altra.

“Ho sognato l’equità” scrive l’autrice in un intermezzo onirico. Concediamoci il sogno che il bene scarso della cura necessaria smetta di essere confuso con la bontà. “La bontà non esiste. Esiste magari il coraggio”

Chiara Maria Colombari
Ho sognato uno spazio morbido
Antigone, 2009

* Ethical Choices in Long-Term Care, What Does Justice Require? (2002) World Health Organization

**Baldwin C, e al Ethics and dementia: mapping the literature by bibliometric analysis. Int J Ger Psychiatry 2003; 18, 41