Premessa
di
Adriana Perrotta Rabissi
"Care
amiche della redazione, ho visto che la rubrica lavoro è interessante,
soprattutto per il contributo del gruppo di
studio di Nannicini, Camussi..., dai loro interventi viene
fuori l'importanza del "lavoro di cura" nel determinare
il rapporto di noi donne, di qualunque età, con il lavoro per il
mercato. Ma al di là di qualche attenzione a questa dimensione,
non abbiamo ancora sviluppato un discorso autonomo, e non come sfondo
del lavoro fuori casa, sul lavoro di cura; mi sembra che i tempi siano
maturi, tanto più in considerazione del fatto che la destrutturazione
di quel poco di Welfare che abbiamo in Italia, il precarizzarsi dei lavori,
l'impoverimento costante delle persone appartenenti alle fasce sociali
medio-basse, l'invecchiamento della popolazione... e chi più ne
ha più ne metta, renderà sempre più attuale il tema.
Ho chiesto a Grazia Colombo, che si occupa da anni del tema, un
articolo per il nostro sito, credo che se l'intervento interesserà
sarà anche disposta a collaborare con noi; l'articolo è
in effetti un po' lungo, ma mi sembra molto chiaro nell'individuazione
dei termini dei problemi, anche e soprattutto per l'aspetto relazionale
tra chi cura e chi è curato. La mia intenzione sarebbe quella di
aprire un vero e proprio dibattito, con interventi di donne, resoconti
di esperienze (dal punto di vista della soggettività di chi cura
e di chi è curato/a).
Vi mando in allegato l'articolo di Grazia Colombo con proposta di aprire
un forum sul tema."
PER UNA DEFINIZIONE DEL
LAVORO DI CURA
di Grazia Colombo
L'interesse
nella società verso i temi della 'cura' sembra crescere: le previsioni
demografiche ci suggeriscono che sempre più elevato sarà
il numero dei soggetti adulti con l'attesa di 'essere curati' e, conseguentemente,
si presuppone che ci dovrà essere un numero crescente di persone
in grado di 'curare'.
Ma cosa significa realmente 'lavoro di cura'? E' un lavoro che esiste
già o che bisogna inventare? E' una caratteristica, una competenza
che qualche operatore possiede e qualcun'altro no? Come si insegna e come
si impara questo particolare contenuto di lavoro? A quali risorse umane
e strumentali si fa riferimento nella sua progettazione? Quali elementi
oggettivi e valoriali sostengono nella fatica quotidiana di un lavoro
che abbia in sè un elevato contenuto di cura? Quali sono i possibili
indicatori, individuali e di gruppo, per valutare i risultati di un tipo
di lavoro come quello di cura?
Sono domande molto attuali che si incontrano frequentando gli operatori
dei servizi 'alla persona' anche se ad esse si arriva solitamente dopo
aver un po' scavato dietro lo schermo riparatore di dimensioni come quella
tecnologica, scientifica e professionale in senso stretto, secondo i contesti.
Le educatrici dei nidi, gli infermieri, i medici, gli educatori di comunità,
per citare alcune professioni, non definiscono volentieri la loro attività
nei termini di un lavoro di cura, come se ciò fosse evocativo di
una sorta di svalorizzazione delle loro specifiche competenze professionali.
Ad esempio, nell'ambito dell'ostetricia e della neonatologia - branche
della medicina che si occupano di eventi sostanzialmente fisiologici,
come il partorire un figlio per una donna e il venire al mondo e l'adattarsi
a questo nuovo stato per il bambino - la tendenza è quella di ridefinire
in senso terapeutico ogni procedura messa in atto da medici, infermieri
e ostetriche: l'allattamento come prescrizione quantitativa e temporale;
l'igiene del corpo come terapia con dosi prescritte di prodotti specifici,
e così via.
Il dibattito più recente sta mettendo in luce come la dimensione
del curare, in medicina, non si risolva unicamente in quella del guarire:
si tende ad affermare che vi è un contenuto di cura sia nell'applicare
una flebo che nel seguire da vicino con un atteggiamento interattivo la
donna nel corso del suo travaglio fisiologico, senza che sia considerato
'lavoro' il primo e 'far niente' il secondo. Così come è
cura per il bambino prematuro ricevere uno specifico alimento sotto forma
di terapia, quanto il ricevere carezze o essere alleviato nel dolore procurato
da determinati necessari interventi. Vi è un orientamento dell'OMS
a passare, nei luoghi di produzione per la salute, 'dalla cure alla care'
intendendo con ciò l'evoluzione del passaggio dalla cura della
malattia al prendersi cura della persona che ha problemi di salute. L'argomento
della care appare sempre più frequentemente fra quelli trattati
in convegni medici.
Rispetto all'utilizzo del termine inglese, si possono fare più
ipotesi: si può intendere che il significato del termine care sia
maggiormente estensivo nel senso di 'prendersi cura di', rispetto all'equivalente
italiano di 'cura'. D'altra parte però è noto che il nostro
termine 'cura' ha diversi significati e almeno due paradigmi di riferimento:
uno più specificamente medico-terapeutico e l'altro più
familiare-sociale. Forse l'ambiente medico non può ancora, con
una parola sola, esprimere due contemporanei significati di cui il primo
ha uno statuto forte, legittimato dalla cultura medica, e l'altro uno
statuto debole, quello svalutato del lavoro familiare di riproduzione.
Un altro esempio, relativo a situazioni in cui sembra difficile riconoscere
che si sta svolgendo un lavoro di cura, è riferito alle educatrici
dei nidi e agli educatori professionali di comunità o di servizi
per persone con handicap o con problemi psichici. Nei resoconti delle
loro attività le prime si soffermano sulla descrizione di attività
specifiche cui riconoscono contenuti e finalità per lo sviluppo
cognitivo, intellettivo e creativo dei bambini del nido. Gli educatori,
descrivendo i loro processi operativi - ciò che fanno con gli ospiti
dei loro servizi -, si soffermano prevalentemente sulle attività
cui attribuiscono contenuti e finalità ludiche, ricreative e motorie.
Nel complesso questi resoconti tendono a censurare, o a nominare come
un fastidio piuttosto che come un'attività utile al raggiungimento
del benessere della persona di cui si prendono cura, tutte le attività
riferite al vivere quotidiano: come ci si veste, come si mangia e come
si fa a far da mangiare, come ci si tiene puliti e così via (v.
Canevaro). Le educatrici dei nidi, per riferire di quanta svalorizzazione
sociale sia circondato il loro lavoro, usano spesso questa frase: 'ci
trattano come quelle che puliscono il sedere ai bambini' partecipando
con ciò attivamente alla medesima svalorizzazione, come se non
fosse di primaria importanza contribuire a che un bambino impari, con
le cure appropriate, a diventare capace di 'aiutarsi da sè' anche
in questa sfera personale.
Cosa
si intende dunque per 'lavoro di cura'?
E' un lavoro che produce cura, che è imperniato nei gesti e nella
necessità della quotidiana riproduzione e che si svolge prevalentemente
nei servizi, ma anche in altri contesti produttivi destinati 'alla persona'.
E' un lavoro che richiede un alto contenuto di relazione, destinato ad
una persona e finalizzato al suo benessere complessivo; è un lavoro
che necessita dell'interdipendenza dei soggetti in relazione e contemporaneamente,
da parte di chi lo svolge, di conoscerne e valutarne i confini, evitando
l'aiuto inutile.
E' un lavoro che conosciamo in quanto incorporato in tutta quella serie
di attività diomestiche che le donne hanno storicamente compiuto
per i loro familiari.
E' un lavoro presente e incorporato in una serie di attività professionali
più ampie e più precisamente definite, ad esempio, come
lavoro sociale, educativo, intervento sanitario e di riabilitazione.
E' un lavoro incorporato in diverse professioni, ma costituito da alcune
dimensioni che contribuiscono a definirlo in sè:
· una dimensione fisica e materiale: è un lavoro pratico
e concreto che si svolge faccia-faccia con la persona di cui ci si occupa,
con il suo corpo, con le parti e con le funzioni più intime del
suo corpo;
· una dimensione organizzativa: è un lavoro che richiede
lo svolgimento di determinate sequenze che riguardano la persona e l'ambiente
in cui vive o che la ospita, all'interno di un progetto che coinvolge
altre persone con ruoli e funzioni differenti, teso a determinate finalità
e poggiante su determinati valori; progetto che richiede una valutazione
sottile dei risultati in termini di gradimento, di benessere e di eventuale
miglioramento delle condizioni della persona con cui si lavora;
· una dimensione emotiva: riferita non unicamente al fatto che
questo tipo di lavoro veicola emozioni, bensì a quella che potremmo
definire come dimensione gestionale delle emozioni. Chi svolge questo
tipo di lavoro non solo affronta la necessità di dover tenere sotto
controllo l'eccessiva esposizione alle emozioni e, contemporaneamente,
continuare 'a sentire', ma è impegnato in una sorta di produzione
sociale emozionale, cioè nella produzione di una modalità
di relazione di cura legittimata socialmente e che sia non distante/non
intima, non asettica/non coinvolgente, non estranea/non personale.
'Lavoro di
cura' e 'curare' sono dunque termini evocativi di molteplici significati
e di molteplici azioni. Il tentativo che vorrei fare consiste nel mettere
in luce gli elementi che stanno all'origine di ciò che si intende
comunemente come 'cura' e 'lavoro di cura', per poi comprenderne i vari
significati e le problematiche del costituirsi, della cura, in una dimensione
professionale specificamente definita e retribuita.
E' utile decostruire questi termini - proprio nel senso di smontare per
vedere meglio cosa c'è dentro - per portare alla luce diversi elementi
che, benchè noti nella loro parzialità, costituiscono nel
loro insieme un particolare meccanismo produttivo non sempre sufficientemente
noto, apprezzato, considerato, valorizzato. Il lavoro di cura sembra infatti
un lavoro trasparente: sembra di non poterne valutare la consistenza,
la qualità, la fatica, la resa. Sembra visibile solo constatando
i danni della sua assenza, piuttosto che i vantaggi del suo usufruirne.
Tutto ciò sembra che diventi noto solo 'dopo', quando i danni della
'carenza di cure' sono già presenti, oppure quando le persone che
continuamente svolgono questo lavoro si stufano o non ne possono più
di farlo e se ne vanno o si sottraggono.
La definizione del 'lavoro di cura' è problematica poichè
non solo il concetto di cura è evocativo di complessi significati,
densi di valori e simboli, ma anche perchè è riferito ad
una molteplicità di azioni e di conoscenze destinate a favorire
il sostegno, l'aiuto, l'accompagnamento di persone in una fase di crescita
o di persone divenute fragili nel corpo e nelle relazioni con gli altri,
o temporaneamente limitate nella loro autonoma e indipendente vita quotidiana.
(F. Saillant 1993; Taccani 1994)
Un lavoro
di genere femminile
Curare
è, nell'immaginario collettivo, caratteristica del femminile, pur
essendo il lavoro di cura svolto anche da uomini.
Le donne sono gli attori privilegiati dello scenario della cura: garantiscono
cura gratuita nel loro tempo privato familiare; svolgono lavoro di cura
nei servizi nel loro tempo pubblico retribuito; chiedono servizi di cura
per i loro familiari.
Donne
e cura nella nostra cultura
Come si intrecciano questi elementi nella realtà quotidiana nei
servizi che producono lavoro di cura? In questo senso mi sembra significativo
seguire da vicino il 'caso donna' come emblematico - pur dando per scontate
le criticità insite in ogni generalizzazione - poichè consente
di capire alcuni passaggi e nessi fondamentali del posto che occupa la
cura nella nostra cultura e nella nostra organizzazione sociale e di prefigurarne
gli sviluppi.
Le donne intraprendono lavori di cura e cicli di studi che preparano a
professioni ad alto contenuto di cura, con l'aspettativa di 'fare' qualcosa
di vicino al loro sapere, aggirando così la difficoltà di
misurarsi con altre attività immaginate fuori dalla loro portata.
Si lasciano condurre dalla presunta facilità di ciò che
è sentito come vicino e concreto: ciò che 'piace', ciò
per cui 'sono portate', ossia occuparsi degli altri, curarsi di qualcuno.
Le capacità che vengono alle donne riconosciute dagli altri, quelle
stesse che esse si autoriconoscono e che talvolta hanno già sperimentato
nel loro ambito familiare, possono allora costituirsi in una dimensione
professionale, in un lavoro. Curare diventa lavoro retribuito.
Si ritrovano in tante, spesso solo donne, operatrici in servizi alla persona:
ambiti di lavoro in cui i livelli salariali sono i più bassi fra
quelli dei diversi settori lavorativi e in cui la prevalente 'convenienza'
- per chi lavora nel settore pubblico - è di vedersi riconoscere
diritti, peraltro esigibili per legge, riguardanti il proprio tempo-maternità
(1).
Ambiti di lavoro in cui la scarsità di opportunità di carriera
ed il blocco dei passaggi di livello nei corso degli anni allunga enormemente
il tempo dedicato ad un solo tipo di lavoro e per lo più ripetitivo,
in cui è negata l'opportunità di utilizzare il tempo di
vita lavorativo per riciclare sapienza e competenza e per diventare maestre
nei lavori di cura.
Ambiti di lavoro i cui vantaggi sono insiti nel fatto che si tratta di
lavori e di ambienti meno ostili alla cultura lavorativa delle donne e
alle loro esigenze/desideri di tenere insieme il tempo familiare e quello
lavorativo.
Ambiti di lavoro in cui le donne, temendo il rischio di portare nella
dimensione professionale il non-valore e la non-visibilità socialmente
destinata a tutto ciò che riguarda la cura nell'ambito familiare,
si rifugiano spesso nel tecnicismo o nella distanza dalla persona di cui
si prendono cura, come se la distanza fosse di per sè misura della
professionalità (Colombo, 1989).
Ambiti di lavoro in cui sono compresenti culture professionali e modalità
organizzative differenti e spesso in conflitto fra loro, verso le quali
il movimento meno costoso può essere quello dell'omologazione al
modello prevalente.
Le istituzioni che gestiscono servizi alla persona non sembrano ancora
interessate a indagare e decifrare la complessità insita in questi
tipi di lavori, dei quali raramente vengono esplicitati i risultati che
ci si attende, come se si trattasse di processi produttivi naturali. Si
assiste a situazioni in cui da un lato vengono premiati modelli organizzativi
che privilegiano la 'tecnologia' come ambito di presunta maggiore efficacia,
mentre dall'altro la latitanza di proposte organizzative è tale
da produrre comportamenti lavorativi di una modalità routinaria
e spersonalizzante più prossimi all'incuria che alla cura.
La collusione
delle donne
Facevo
prima riferimento a resoconti di segmenti di attività produttiva.
L'analisi di questi materiali - personalmente condotta in vari servizi
come consultori, reparti ospedalieri, nidi d'infanzia, servizi per disabili
- rivela che vengono descritte, rendicontate e quindi percepite come attività
lavorative solo determinate azioni, procedure, 'cose che si fanno', e
non altre. Vengono generalmente censurate alcune parti - evidentemente
sentite come non-lavoro - corrispondenti ai gesti e alle situazioni in
cui vi è una particolare sintonia relazionale con la persona di
cui ci si sta occupando, i gesti e le situazioni in cui 'ci si sente bene'
o 'ci si diverte'; i momenti in cui la dimensione di ascolto è
più elevata e i gesti che riportano alle abitudini della vita quotidiana.
Usando una certa approssimazione, potrei dire che vengono censurate tutte
quelle parti valorizzabili come positive in un lavoro di cura e maggiormente
riportabili a competenze di tipo femminile, come: la capacità di
inventare soluzioni di fronte ad una contingenza inattesa; l'orientamento
alla relazione; l'attenzione alle difficoltà delle persone; la
capacità di cogliere i segnali informali delle situazioni per farle
evolvere positivamente per chi vi partecipa; la capacità di occuparsi
con competenza dei bisogni primari delle persone.
L'analisi di questi comportamenti è di grande interesse per potere
affrontare determinati interrogativi. Uno di questi consiste nell'intravedere
una sorta di collusione da parte delle donne perchè esse sembrerebbero
attivamente partecipi della negazione di tali attitudini e competenze,
riconosciute come femminili ma bollate dall'organizzazione come sottoprodotto.
Da quali elementi può essere prodotta una tale attitudine? Vi è
sicuramente un'attesa sociale che siano le donne in particolare a svolgere
bene lavori di cura (quante volte fra gli utenti o i familiari di utenti
insoddisfatti si sente dire: "e sì che è una donna!").
E' però difficile che esse possano assumersi interamente e consapevolmente
la rivalutazione delle modalità del lavoro di cura avendo introiettato
la svalutazione sociale delle competenze femminili relazionali e di cura;
l'incertezza su quanto si conta; affidarsi ad altri per il giudizio su
di sè.
Tale rivalutazione è un'operazione che richiede di riconoscersi
autorevolezza nell'accoglimento e nella relazione con l'altro-altra non
nei termini del potere discrezionale fornito dall'istituzione che si rappresenta,
bensì nei termini di autoriconoscersi la dimensione di 'soggetto'
- abbandonando lo stato di 'oggetto' - per attribuire la stessa dimensione
di 'soggetto' alla persona di cui ci si prende cura (M.Piazza 1992). Curare
qualcuno e curarsi di qualcuno non indica solo il transitivo e intransitivo
del verbo, ma anche, nella seconda versione, un'autorizzazione a curare
se stesse. E questo è un passaggio rilevante del costituirsi del
lavoro di cura in dimensione professionale. E' un passaggio che richiede
alle donne di potersi riconoscere simbolicamente e realmente maestria
nel lavoro di cura e di potersi immaginare non solo come curanti, ma anche
come destinatarie di cure, e che richiede alla cultura sociale di dotarsi
di nuovi criteri di valutazione di un lavoro tanto necessario in quanto
vicino alle esigenze vitali delle persone.
Esplorazione
del mondo della cura
Questo
schema di analisi ci fornisce alcuni elementi di chiarezza ma anche molteplici
interrogativi su cui si sente la necessità di confronto anche a
partire da riflessioni su esperienze operative. Ad esempio: se è
un lavoro al femminile, gli uomini ne sono esclusi? Lo intraprendono con
modalità diverse? La cura è una presa di responsabilità
fra persone o/e vi è una dimensione di responsabilità sociale?
La produzione di ricerca su questo tema si è svolta finora prevalentemente
attraverso l'interesse di studiose, sociologhe, storiche, antropologhe,
e nel filone di studi femministi (2).
Carol Thomas (1993) sostiene che 'cura' è una categoria empirica
e non teorica e che le forme di cura e le relazioni fra le stesse siano
da teorizzare nei termini e all'interno di altre categorie teoriche. Suggerisce
inoltre sette dimensioni comuni a tutti i concetti di cura:
· l'identità sociale di chi cura
· l'identità sociale di chi riceve cure
· la relazione interpersonale fra chi cura e chi riceve cure
· la natura della cura
· l'ambito sociale in cui è collocata la relazione di cura
· il carattere economico della relazione di cura
· il luogo della cura
Considero utile questo schema per addentrarmi nella scomposizione del
concetto di cura, avendo come prospettiva quella di comprendere meglio
i passaggi fra la presunta naturalità del lavoro di cura svolto
tradizionalmente dalle donne e la sua costituzione in dimensione professionale,
cioè in lavoro di cura svolto da donne e da uomini all'interno
di professioni, in ruoli e in contesti produttivi diversi.
L'identità
sociale di chi cura
La persona che cura è usualmente definita in riferimento al ruolo:
familiare (ad esempio, moglie, madre, figlia) o professionale (ad esempio,
domestica, infermiera) o specifico (ad esempio volontaria). L'evocazione
è genericamente e usualmente al femminile tanto che si può
affermare che il genere è costitutivo dell'identità sociale
di chi cura. La cura è femminile. E ciò non solo perchè
sono donne le persone che garantiscono cura nell'ambito della famiglia
e perchè sono prevalentemente donne coloro che svolgono lavori
di cura nei servizi. Si tratta bensì del fatto che il dare cura
è parte della costruzione sociale dell'identità femminile.
L'identità di ciascuno riassume le esperienze passate, il nucleo
profondo delle esperienze infantili, e la progettualità futura
in quanto dimensione soggettiva all'interno di una cornice sociale e culturale
che offre determinati modelli di comportamento, a donne e a uomini. Sia
il maschio che la femmina hanno come primo oggetto d'amore una donna,
ma il bambino si deve staccare da lei per identificarsi con il sesso d'appartenenza
e la sua identità si costruisce attraverso l'esperienza di separazione
dalla madre, la valorizzazione della presa di distanza e dell'autonomia.
La bambina prolunga l'identificazione con la madre, non c'è opposizione
fra sè e l'altra e l'identità si costruisce sulla valorizzazione
della vicinanza piuttosto che della separazione, dell'oblatività
e del bisogno dell'altro. Le donne si immaginano prima o poi nella posizione
di chi cura, piuttosto che come persone potenzialmente bisognose di cure
fisiche (Griffits, 1988).
Il lavoro di cura appare, nella nostra cultura e nella nostra società,
come un'espressione del femminile. Ciò ovviamente non esclude che
il lavoro di cura sia svolto da uomini, in ruoli familiari nell'ambito
domestico e da operatori nei servizi. Nominare il genere di chi cura -
uomo o donna nella famiglia, operatore o operatrice nei servizi - contribuirebbe
sia all'esplicitazione delle differenze nel modo di curare senza che ciò
possa essere sentito(come spesso accade alle donne nella dimensione professionale)
come una minaccia all'eguaglianza di diritto fra i sessi e contribuirebbe
anche al chiarimento di ciò che si può o si deve intendere
per 'diritti di chi cura (3), nozione oggi compressa fra gli estremi di
una dimensione o tutta amorevole e di obbligo, nella relazione familiare,
o di rivendicazione di condizioni materiali di lavoro, nelle relazioni
produttive.
L'identità
sociale di chi riceve cure
Chi riceve cure è generalmente definito come membro di una determinata
categoria sociale, che può essere riferita ad esempio all'età,
come i bambini e gli anziani, o ai familiari. Chi riceve cura è
spesso definito nei termini di appartenente ad una categoria di persone
in una posizione di dipendenza, come anziani non-autosufficienti, persone
con difficoltà di apprendimento o con malattie croniche. Così
la chiave di identificazione sociale di chi riceve cure è nei termini
di status di dipendenza. Tuttavia chi riceve cure nella famiglia è
in genere un adulto autosufficiente o un bambino con la non autosufficienza
fisiologica rispetto al livello di crescita (4).
Chi riceve cura esibisce la dimensione del bisogno ed anche quella del
diritto di cittadinanza: dimensioni entrambe caratterizzate da forti mutamenti
di tipo valoriale nel corso degli ultimi decenni. Si tratta di un mix
che da un lato ridisegna la collocazione del posto della donna nelle dinamiche
familiari, dall'altro ridefinisce la relazione fra chi dà e chi
riceve cura nei luoghi istituzionali, in quanto chi porta un bisogno non
è più un questuante proprio in forza del suo diritto di
cittadinanza. Ma anche chi dà cure pone limiti precisi alla propria
disponibilità, in forza dei diritti del lavoro. Esibire il diritto
a ricevere cure scioglie il debito di gratitudine gratitudine nei confronti
della madre simbolica, cioè il/la curante, distanziandosene (gli
operatori descrivono questo movimento dei loro utenti/clienti come fonte
di tensione perchè denso di pretesa e di aggressività).
La relazione
fra chi cura e chi riceve cure
E' una relazione definita, e in un certo senso accettabile, prevalentemente
all'interno di un vincolo: quello familiare oppure quello lavorativo per
quanto riguarda i servizi, anche se si prospettano ulteriori dimensioni.
Se il fondamento della relazione interpersonale nell'ambito della famiglia
è quello dell'amore, non sfugge tuttavia quello dell'obbligo, pur
in termini diversi dall'obbligo al rispetto di norme insito nel rapporto
istituzionale di lavoro di cura. In quest'ultimo ambito il tipo di relazione
è determinato anche dal grado di investimento e dalle prefigurazioni
del singolo operatore rispetto alla propria attività, nonchè
dalla cultura organizzativa del luogo istituzionale in cui la relazione
avviene.
Tenendo conto delle osservazioni che portavo nel punto precedente, credo
si possa affermare che forse mancano ancora dei criteri, condivisibili
dai soggetti in interazione, per contrattare una modalità di rapporto
sufficientemente chiara e rispettosa delle attese di ciascuno. In altri
termini, è come se si dovesse ancora mettere a punto una modalità
relazionale entro cui si possa esprimere fiducia e affidamento, da parte
di chi riceve cure, e contemporaneamente personalizzazione e misura del
coinvolgimento, da parte di chi dà cure, in un tempo che spesso
ha un inizio improvviso e una durata comunque breve (ho in mente il senso
di delusione espresso da diverse educatrici di nido quando affermano che
"i nostri bambini poi non si ricordano più neanche di noi,
con tutto quello che abbiamo fatto").
Ulteriori relazioni interpersonali possono essere fondate sull'amicizia
o sul "vicinato" oppure riguardare persone fra loro sconosciute
in contatto per una determinata finalità attraverso una prestazione
volontaria. E' ancora poco diffuso un tipo di relazione fondata sullo
scambio di cure in una posizione paritaria fra persone adulte che possono
considerarsi contemporaneamente in grado di dare cura e di riceverne,
all'interno di un legame sociale che non sia parentale o a pagamento (Colombo
1991, 1996). Anche la stessa categoria della cura come dono, come valore
etico di gratuità, sembrerebbe presupporre una relazione fondata
sulla disponibilità a donare ma anche sull'attesa di essere destinatari
di doni (Bimbi, 1995).
Tutto ciò comporta che tipi di relazioni di cura differenti possono
essere compresenti in un reticolo destinato ad un unico soggetto: ad esempio,
un bambino può ricevere cure, che presuppongono relazioni differenti,
dalla madre, dall'educatrice al nido, dalla baby- sitter in casa o da
una vicina nella sua propria casa.
I contenuti
della cura
La difficoltà di questa definizione risiede nel duplice significato
insito sia nel sostantivo cura sia nel verbo curare. Significato riferibile
alla relazione che si instaura fra i soggetti, nel senso di 'rendersi
cura' di qualcuno, o riferibile all'attività di curare, ai processi
operativi, nel senso di 'badare', 'sorvegliare', 'assistere', 'curare
terapeuticamente' qualcuno. Questi significati evocano a loro volta due
dimensioni del lavoro di cura, inscindibili nell'esperienza della cura:
· la dimensione materiale: curare è un lavoro, un lavoro
costituito da azioni e compiti precisi, che occorre saper fare
· la dimensione emotiva: curare è un evento emotivo che
ha a che fare con i sentimenti, con l'amore e l'affetto, e con il garantire
supporto emotivo.
Conosciamo i rischi insiti nel tenere insieme le due dimensioni nell'ambito
dell'attività professionale (eccessiva identificazione con la persona
di cui ci si prende cura, forte attesa di riconoscimento affettivo dalla
stessa, difficoltà a smettere di 'sentirsi sul lavoro'). Rischi
che mettono a dura prova l'equilibrio psicofisico dei soggetti che svolgono
un lavoro di cura e che si palesano spesso con un consumo eccessivo delle
proprie risorse.
Nell'ambito dello stesso lavoro di cura all'interno della famiglia si
possono identificare dimensioni differenti: lavoro domestico, cioè
le mansioni ripetitive del tenere in ordine la casa; lavoro di consumo,
cioè l'aver a che fare con negozi e con servizi vari; e lavoro
di rapporto, in un certo senso garantire i legami familiari (5). I contenuti
della cura non sono dunque riferiti solo alla dimensione emotiva o a quella
materiale, poichè vi è compresenza di questi elementi e
ciò che appare, secondo i diversi contesti, è semmai una
prevalenza di uno dei due elementi. E' infatti chiaro che da un lato il
lavoro di cura in ambito familiare non è solo una veicolazione
d'amore, ma un vero e materiale lavoro, così come il lavoro di
cura nei servizi non è solo materiale attività in senso
di prestazioni, ma è anche vicinanza emotiva.
Non sembra una sintesi forzata affermare che i contenuti della cura è
data da contemporanee dimensioni che riguardano il sentire, il sapere,
il fare e che tuttavia il lavoro di cura professionale non implica necessariamente
una presa in carico globale.
L'ambito
sociale in cui è collocata la relazione di cura
Questa dimensione riguarda la separazione più netta e vistosa nella
divisione del lavoro nella società complessa: fra la sfera pubblica
e quella privata o domestica, da cui derivano le concezioni di lavoro
di produzione nell'ambito del pubblico o del mercato, e di lavoro di riproduzione
nell'ambito domestico (quel lavoro quotidiano svolto nell'ambito della
famiglia per rispondere a quei bisogni fisici ed affettivi degli adulti
per vivere giorno-dopo-giorno e a quelli dei bambini per crescere).
L'economia politica tradizionale ha dato, e tuttora tende a dare, al lavoro
svolto dalle donne nella sfera domestica la definizione di "improduttivo"
(rispetto a quello "produttivo" per il mercato). Le ricerche
e le analisi svolte negli anni '70 e '80 sulle caratteristiche e la natura
del lavoro domestico delle donne ne hanno messo in luce le diverse dimensioni
e hanno ampliato il concetto di produzione, chiarendo la funzione decisiva
della produzione di rapporti sociali e di prodotti immateriali. Vi è
anche l'analisi e la valorizzazione di un modo di produzione che costituisce
un patrimonio di esperienze accumulate ed elaborate dalle donne attraverso
i loro compiti di gestione della sopravvivenza (riguardo la salute, il
cibo, l'abitazione, i rapporti). "Si tratta di capacità e
abilità di diverso tipo, via via modificate e adattate a seconda
delle risorse esistenti e delle esigenze dello sviluppo sociale - e non
certamente trasmesse in modo meccanico, sempre identiche, di generazione
in generazione" (Prokop, 1978).
La collocazione della relazione di cura in uno dei due ambiti caratterizza
in modo differente i concetti di cura. Nell'ambito domestico ('informale'
nella terminologia anglosassone, 'ambiente naturale', riprendendo Ardigò)
i soggetti che svolgono un lavoro di cura, anche se pagati, utilizzano
la prevalenza affettiva nella relazione mentre i soggetti che svolgono
un lavoro di cura nell'ambito dei servizi ('istituzionale' o 'ambiente
artificiale'), pur svolgendo compiti analoghi, utilizzano nella relazione
la prevalenza dell'attività (6).
Il carattere
economico della relazione di cura
Questa dimensione è relativa all'essere il lavoro di cura retribuito
o non retribuito; al prestare cure in una dimensione governata da un obbligo
proveniente da un legame, familiare o di altro tipo, oppure proveniente
da un pagamento in denaro. Tuttavia non si tratta solo di gratuità
o di pagamento, visto che, come già detto a proposito della dimensione
relativa alla relazione, il lavoro di cura che si svolge nella sfera domestica
non è esclusivamente gratuito (come nel caso della collaboratrice
domestica, della baby- sitter) e quello che si svolge nella sfera pubblica
non è esclusivamente pagato (come nel caso di persone volontarie
per particolari prestazioni e situazioni).
Se ci si attiene rigidamente e unicamente alla categoria del gratuito
o del pagato si rischia di non vedere l'articolazione intrinseca nel lavoro
di cura rispetto all'ambito in cui viene prestato e ai suoi contenuti,
nonchè di perdere elementi utili a comprendere come l'attitudine
alla cura si costituisca in attività professionale. Vi è
un dibattito aperto relativamente all'attribuire un valore economico,
e quindi un suo riconoscimento tangibile e materiale a livello sociale,
al lavoro di cura svolto dalla donne nell'ambito domestico. Così
come una buona parte della contrattazione dei rapporti di lavoro nell'ambito
dei servizi ruota intorno ad un interrogativo che, pur non così
esplicito, riguarda:" che cosa vendono gli operatori che fanno un
lavoro di cura e che cosa acquista l'organizzazione dei servizi contrattando
un prezzo e delle condizioni di lavoro degli operatori?" (come non
aver presente gli estremi di questo dibattito, sintetizzabile con posizioni
come: "non vendiamo i nostri sorrisi e la nostra affettività:
lavoro è lavoro e basta!").
E' un dibattito, lungo già qualche decennio, iniziato nel momento
in cui si è affermata la dimensione di vero e proprio lavoro di
tutte le attività con un contenuto di cura, dibattito teso a chiarire
le ambiguità proprie del tenere insieme le dimensioni materiali
e quelle affettive in un lavoro per il mercato, da svolgersi per determinate
ore settimanali, con determinati periodi di riposo, con determinate retribuzioni.
Il luogo
della cura
Riguarda il luogo fisico in cui si svolgono le attività di cura
e l'immagine che se ne ha a livello sociale. Il lavoro di cura è
presente, come abbiamo già visto, sia nella casa sia in diversi
luoghi identificati come più o meno istituzionali: l'ospedale,
le case di cura diurne, i centri residenziali e di lungodegenza, quelli
territoriali di salute, e così via. Si tratta di luoghi prevalentemente
evocati quando si parla di cura; tuttavia è limitativo riferirsi
solo a questi spazi circoscritti da mura e definiti in sè. Lavoro
di cura, professionale o non, si compie anche all'esterno, nella città
in senso urbanistico e sociale più ampio: all'aperto nei parchi
e nelle strade, che offrono tutti gli ostacoli propri di luoghi non pensati
in riferimento a possibili funzioni di cura delle persone; o altri luoghi
come bar, alberghi, un ufficio postale o un tram in cui gli operatori
accompagnano persone disabili ad affrontare tappe della loro vita quotidiana.
Essendo la cura pensata come un'attività rinchiusa entro determinati
ambiti fisici riservati, questi altri luoghi mal si adattano, architettonicamente
e relazionalmente, a standard di funzionamento differenti da quelli previsti
dalla loro destinazione prevalente.
Una sintesi
a tre dimensioni
Sono evidenti la circolarità e le connessioni fra queste sette
dimensioni. Possiamo anche costruire una serie di concetti di cura combinando
differenti variabili di tali dimensioni.
In termini più sintetici vorrei mettere in luce particolarmente
tre dimensioni, assumibili come possibili definizioni:
· lavoro di cura come lavoro femminile gratuito, obbligato, per
amore, svolto nella casa e destinato ai membri della famiglia che ne hanno
bisogno. L'identità sociale di chi da cura è definita in
termini di genere e quella di chi riceve cure in termini sia di stato
di dipendenza che di autosufficienza.
· lavoro di cura come attività lavorativa carica delle implicazioni
emotive già descritte, fornita in vista di una retribuzione, prevalentemente
da donne ma anche da uomini, a bambini sani e ad adulti e bambini non
autosufficienti in una dimensione pubblica e in una varietà di
luoghi istituzionali. In questo caso non è il genere a definire
l'identità di chi svolge lavoro di cura (benchè questi tipi
di lavoro mantengano un'immagine ed evochino significati simbolici al
femminile), anche se non sembra ancora presente una curiosità a
decifrare le differenze nel modo di produzione di donne e di uomini, come
se l'uguaglianza di ruoli non concedesse l'espressione e l'esplicitazione
delle differenze nei processi operativi.
· lavoro di cura svolto prevalentemente da donne, ma anche da uomini
soprattutto anziani, nei termini di temporanee prestazioni o servizi gratuiti,
implicante vicinanza affettiva, per i parenti o persone molto prossime
o vicini di casa, o come attività volontaria specifica svolta in
luoghi differenti, per persone non autosufficienti.
Una lettura
utile ad operatrici e ad operatori
C'è
da chiedersi come i servizi si reggerebbero senza la quotidiana immissione
in circolo di tutta una serie di azioni, di atteggiamenti, di abitudini
quotidiane mutuate dall'ambito domestico, non considerate lavoro, ma sostanziali
ed indispensabili alla sopravvivenza di un servizio che si occupi di curare
le persone.
Contemporaneamente, l'ascolto attento di ciò che raccontano e lamentano
gli utenti dei servizi - ho personalmente raccolto molti di questi materiali
fra gli utenti dei servizi pubblici - segnala disagi, nel rapporto operatore-utente,
che sembrano riferibili tanto alla dimensione organizzativa quanto ai
contenuti attribuiti in modo differente all'attività lavorativa
di chi la presta e da parte di chi la riceve. E' qualcosa che ha a che
fare con la scarsa attenzione alla persona nel suo complesso, come se
il centro dell'attenzione dell'operatore stesse altrove: è l'impossibilità
o la difficoltà ad occuparsi dell' accoglienza e dell'accompagnamento
nel percorso di cura, per gli operatori; è il sentimento di impossibile
affidamento, da parte della persona che abbia temporalmente o stabilmente
difficoltà di autonomia, a una persona indicata professionalmente
come adeguata per assumersi tale incarico.
La pesantezza
del lavoro di cura
Curare è, dunque, un lavoro nè banale nè facile,
che non tutti sono in grado di svolgere, che forse non può durare
un'intera vita lavorativa perchè consuma molto.
Gli elementi particolarmente significativi rispetto al suo svolgersi sono
riferiti:
· all'identità dei soggetti: chi sono le persone che lavorano
e quelle che ricevono cure; sono donne o uomini coloro che svolgono tale
lavoro
· alle relazioni che si instaurano fra i soggetti: quale parte
di sè mettono in campo rispettivamente queste persone; quali differenti
intrecci relazionali nell'essere donne o uomini destinatari di cure e
nell'essere curati da un uomo o da una donna
· all'ambito sociale: in quale contesto tale relazione si sviluppa
· ai luoghi: essere in un luogo contrassegnato da in-curia piuttosto
che da cura; essere in un luogo più o meno previsto o adibito ad
attività di cura
· ai valori e ai contenuti: avere quali tipi di aspettative da
un lavoro socialmente privo di valore e ancora apparentemente privo di
sapere professionale; avere quali di tipi di motivazioni ad agire con
persone che, ad esempio, hanno subito una rottura simbolica oltre che
reale nella capacità di prendersi cura di sè, con persone
che sembrano 'avere bisogno di tutto'; prospettarsi attività da
svolgere per persone sentite come passive riceventi piuttosto che con
persone sentite come portatrici di determinate potenzialità; valorizzare
o meno le risorse esistenti nel senso di mettersi in contatto con ciò
che c'è piuttosto che con ciò che manca.
E' un
lavoro che richiede:
· conoscenza anzichè fare subito;
· flessibilità più che prescrizione;
· un orientamento contemporaneamente al contenimento e allo sviluppo;
· la messa in atto di difese dai meccanismi proiettivi e dall'identificazione,
ma anche dall'eccessiva differenziazione;
· la fatica di tradurre l'idealità di valori forti in realtà
di concreti obiettivi operativi.
I servizi alla persona sono un ambito in cui sarebbe possibile svolgere
un lavoro coinvolgente, creativo, utile. Questi termini sono spesso utilizzati
per definire un 'buon tipo di lavoro', magari desiderabile.
Che cosa non quadra? E' che tutto ciò non mostra solo l'aspetto
di positività. Il contenuto del lavoro di cura nei servizi ha margini
di discrezionalità e di flessibilità e perciò è
coinvolgente per le persone che lo svolgono. Forse anche troppo, perchè
tale lavoro è per lo più rivolto a persone che possono portare,
ad esempio, problemi grossi di sofferenza e di emarginazione, e grosse
domande di aiuto. Tutto ciò rischia di essere troppo coinvolgente
se le operatrici e gli operatori non percepiscono argini sufficientemente
forti per contenere l'ansia e la responsabilità che ne può
derivare. Proprio da queste necessità nascono spesso richieste,
e conseguenti atteggiamenti - da parte di operatrici e operatori - di
maggior ordine: più regole e più rigide; più distanza
anche fisica dagli utenti per segnare una possibile distanza dalla coinvolgente
ansia e sofferenza.
Si tratta anche di un lavoro che ha ampi margini di creatività:
ciascuno può mettere in gioco una parte di sè ed aggiungere
qualcosa alla routine lavorativa e proprio la relazione con le persone,
con gli utenti e fra gli operatori, consentirebbe ciò. Ma questo
rischia di essere percepito come un carico maggiore sulle proprie spalle,
come variabili faticose perchè non previste da una 'buona organizzazione',
dalla quale ci si aspetta che renda tutti i bisogni uguali e tutte le
risposte uguali.
Si tratta di un lavoro utile ma di cui spesso non si conosce l'esito,
non si sa come va a finire: come la famosa tela che si continua a tessere
e non si sa se diventerà mai un oggetto d'uso. Il confronto va
al continuo fare e disfare del lavoro domestico: lì però
le donne sanno che l'utilità non risiede nell'azione in sè,
ma nel passaggio d'amore. Come ripaga, cosa restituisce a chi lo svolge
nei servizi un lavoro il cui risultato non sembra misurabile e che sembra
consistere solo nell'averlo svolto, come se non lasciasse tracce?
Occorre che la consistenza operativa e organizzativa in termini progettuali
e di valutazione dei risultati assuma una dimensione entro cui gli operatori
sentano esistere effettivamente il proprio apporto professionale. Lasciare
che le cose vadano comporta il rischio che la distinzione fra la dimensione
professionale e quella domestica diventi labile, faticosa, impossibile.
Così il lavoro che si svolge nei servizi rischia, per le donne,
di assomigliare troppo alla fatica, all'impegno e alla responsabilità
che esse conoscono già e del cui peso vogliono liberarsi, e, per
gli uomini, di essere troppo banale e piatto, quindi un ripiego transitorio
o una tappa strumentale per un successivo incarico almeno di coordinamento.
Ciò accade perchè il lavoro di cura è effettivamente
faticoso, e anche perchè non è considerato produttivo, nè
prestigioso, nè di valore, pur a fronte di un persistente bisogno
generalizzato di essere curati, ma anche della pregnanza di trovarsi in
una dimensione sociale e in un tempo storico in cui si diffonde la consapevolezza
che ciò sia un diritto.
Tre aree
di elaborazione strategica
E'
evidente che ci troviamo di fronte ad un quadro complesso ed i tempi di
analisi, di comprensione e di risistemazione non possono essere brevi.
Si tratta di una complessità che riguarda almeno tre ordini di
problemi:
a) il sistema organizzativo dei servizi socio-sanitari-assistenziali
b) le operatrici e gli operatori e le loro identità soggettive
e lavorative
c) i diritti delle persone che hanno bisogno di cure
Non ci sono scorciatoie e occorre chiedere e darsi il tempo per analizzare,
per riflettere, per elaborare strategie adatte al superamento di quelle
che oggi vediamo come contraddizioni, incongruenze, fatiche ed incomprensioni.
Il sistema
organizzativo dei servizi socio-sanitari-assistenziali
Le professioni fondate sulla relazione fra i soggetti sono emotivamente
stressanti e pesanti, hanno bisogno di sostegno e di presa di distanza.
La dimensione organizzativa e tecnologica nei lavori di cura dovrebbe
garantire questo tipo di sostegno. Evitare di mettere a punto queste dimensioni,
lasciandole alla libera iniziativa del singolo operatore, fa sì
che la presa di distanza si realizzi rifuggendo, ad esempio, da ogni compito
che abbia un elevato contenuto di relazione, preferendo compiti meramente
pratici, esecutivi e lontani dalla persona. Per dimensione tecnologica
si intende incrementare tutto ciò che serve a far bene un certo
compito o una certa procedura; riportare ogni attività all'interno
di un disegno programmato e non inventato giorno per giorno; possedere
criteri adeguati ad esercitare e far esercitare un controllo di qualità
sul proprio lavoro, ed anche criteri adeguati a riconoscere e analizzare
i rischi fisici e psichici insiti nella propria attività lavorativa
e indicare strategie di prevenzione.
Le operatrici
e gli operatori e le loro identità soggettive e lavorative
Professionalizzare il lavoro di cura significa chiarirne i legami con
l'area del lavoro di riproduzione -legami differenti per gli uomini e
per le donne - per contribuire a definirne i contenuti professionali e
il valore economico da attribuirvi, entro un determinato contesto fisico
e relazionale. Avvicinarsi a ciò chiede alle organizzazioni di
investire in processi formativi e di conoscenza degli operatori per superare
la codificazione data e scontata delle azioni e dei risultati del lavoro,
nominando e rinominando tutto ciò che si fa ed i relativi significati
e motivazioni in quel contesto, così come chiede di promuovere
il concorso di più discipline ed ambiti di esperienza nella lettura
del proprio contesto operativo, distinguendone le specificità per
intraprendere percorsi autovalorizzanti e insieme integrativi.
I diritti
delle persone.
E' tempo ormai che si assumano e si rendano visibili dati precisi derivanti
dall'esperienza di essere soggetti nella posizione di attendersi cura:
è inevitabile che questa posizione, quella di utenti/clienti, sia
attivamente una delle tre, se nominiamo l'organizzazione e gli operatori.
Il rischio è che le posizioni si confrontino in contrapposizione
e con l'unica carta della rivendicazione. Anche se è inevitabile
che vi sia una quota di conflitto di interessi fra le tre posizioni, tuttavia
è possibile che vi siano spazi di sviluppo comune. Ad esempio,
è possibile per gli operatori stessi che svolgono lavoro di cura
incrementare le funzioni dell'ascolto e del dire insieme, anzichè
contribuire al silenzio di chi è curato attraverso l'assunzione
di una delega piena, legittimata da un'invadente oblatività o dalla
percezione di un maggior sapere. Il risultato di tale operazione può
essere non solo garantire i diritti, ma anche vedere insieme i limiti
di pretese onnipotenti, contribuendo a dare nuova dignità non solo
a chi riceve cura, ma anche a chi lavora per garantirla (7).
Se tutto ciò è utile in un momento in cui si registra la
crescita dei diritti e il potenziamento dei servizi, è addirittura
indispensabile in un momento in cui l'investimento pubblico sembra appannarsi
nei valori e nelle responsabilità, in un momento in cui il rischio
è di tornare a considerare il servizio, e in esso il lavoro di
cura, un'elargizione a chi non ha o non può e, per gli operatori,
di finire in un'identificazione di ultimi fra i lavoratori.
Il lavoro di cura nell'esperienza quotidiana, sia nella dimensione informale
che in quella istituzionale, è strettamente legato e si configura
e avviene attraverso processi differenti secondo la storia, la cultura,
il contesto sociale, la situazione economica. Sono quindi rilevanti tanto
i fattori strutturali quanto quelli relazionali, tanto i modi di sentire
quanto le motivazioni e le responsabilità. Non è banale
affermare, ad esempio, che le cure alle persone anziane possono essere
differenti a seconda della considerazione che degli anziani si ha in una
data cultura, a seconda degli investimenti economici che le decisioni
politiche vi assegnano, a seconda di quanto quel contesto sociale ritiene
prezioso il contributo di cura di persone professionali o no. L'ago della
bilancia è dunque spostabile: le responsabilità sono multiple
e di gradazione differente.
NOTE
(1) Un'altra
'convenienza', praticabile fino a qualche tempo fa, era di poter uscire
il più presto possibile dal ciclo produttivo con una baby-pensione,
spesso per occuparsi a tempo pieno del lavoro di cura domestico. Si trattava
di un meccanismo che, in un certo senso, risolveva una quota del problema
del burn-out, accorciando la durata della vita lavorativa. La necessità
di rimanere in servizio più a lungo, porrà con maggiore
forza l'esigenza di prevedere cicli lavorativi in cui l'esposizione costante
alla relazione 'operatore-utente' non duri trentacinque anni.
(2) Le studiose
del GRIFF di Milano hanno sviluppato analisi e portato contributi di dibattito
su questi temi in Italia. Ricordo fra gli altri: L. Balbo (a cura di),
Time to care - politiche del tempo e diritti quotidiani, Angeli, Milano
1987; L. Balbo, M. Bianchi (a cura di), Ricomposizioni - Il lavoro di
servizio nella società della crisi, Angeli, Milano, 1982; M. Bianchi,
I servizi sociali - Lavoro femminile, lavoro familiare, lavoro professionale,
De Donato, Bari 1981; G. Chiaretti (a cura di), Lavoro intellettuale,
lavoro per sè: doppia presenza, Angeli, Milano 1981.
(3) Di nuovo
il confronto fra la sfera domestica e quella produttiva ci offre una possibile
chiave di lettura per alcuni punti che sentiamo contraddittori se non
addirittura generativi di conflitto. La nozione di diritto richiama quella
pubblica di cittadinanza e sappiamo quanto difficile sia porre quest'ultima
in relazione a quella privata di cura. E' difficile in molti sensi operare
una precisa nozione di diritto per chi cura all'interno della sfera domestica:
ad esempio, quanti giorni all'anno si deve curare, si matura o no qualche
bonus per un tempo della vita successivo, diritto ad accedere a un servizio,
a un supporto per sè, per quante ore, ecc.
Non possiamo ritenere che tutte queste difficoltà e ambivalenze
si risolvano automaticamente in un ambito di contrattazione delle condizioni
di lavoro degli operatori.
(4) Va segnalato
che nella letteratura anglosassone l'identità di chi riceve cura
contribuisce a definire chi la dà. Carer è colui o colei
che offre supporti materiali e affettivi a una persona con una disabilità
temporanea o permanente o a un anziano non autosufficiente
(5) Su questo
punto si veda Marina Bianchi, op.cit., 1981, in particolare pp.21-22.
Inoltre Gillian Dalley, in Ideologies of Caring. Rethinking Community
and Collectivism (MacMillan, London 1988), commenta che le donne sono
considerate devianti se non care about (dimensione relazionale) tanto
quanto care for (dimensione materiale) per i loro figli.
(6) Anche
l'intenzionalità che si connette alle varie attività può
definirsi come ambito. Ad esempio, scomponendo le attività di cura
svolta dalla madre o moglie nell'ambito domestico - nella dimensione che
definiamo della riproduzione - e confrontiamo queste singole attività
con analoghe svolte nell'ambito del lavoro produttivo, notiamo come lo
stirare svolto in un negozio lavo-stiro perda la connotazione di lavoro
di cura che invece mantiene nel momento in cui si stira la biancheria
del proprio bambino perchè in quel gesto vi è intenzionalità
di cura e vicinanza affettiva. A un livello intermedio si colloca il permanere
della connotazione di lavoro di cura in determinate azioni, ad esempio
riordinare il letto del bambino da parte dell'educatrice del nido o dell'infermiera
professionale in ospedale, poichè permane una vicinanza affettiva,
anche se su una scala diversa da quella domestica.
(7) Su questo
punto, per quanto riferito in generale al 'lavoro sociale', si veda Paola
Piva, L'intervento organizzativo nei servizi sociosanitari, Nis, Roma
1993, in particolare pp.145-158.
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Vol. 27, n.2, May 1993
3 - G. Badolato,
P. Collodi, Identità femminile e lavoro di cura, in: C. Arcidiacono
(a cura di) "Identità, genere, differenza", Angeli, Milano,
1992
4 - a questo
proposito vedi il contributo di F. Bimbi nel n. 2/95 di questa rivista.
Inoltre, a cura della stessa autrice e di G. Castellano, "Madri e
padri - transizioni dal patriarcato e cultura dei servizi", Angeli,
Milano, 1990
banca del tempo
5 - G. Colombo,
I voucher del tempo, in: L. Balbo (a cura di) "Tempi di vita",
Feltrinelli, Milano, 1991
6 - H. Graham
"Caring: A Labour of Love", cit. in C. Thomas, "De-constructin
Conceps of Care", Sociology, Vol. 27, n.2, May 1993
7 - Marina
Bianchi, op. cit. 1981. pag. 21-22, propone la triplice distinzione in
questi termini: "Il lavoro domestico comprende le mansioni ripetitive
e ricorrenti, di pulizia, manutenzione, preprazione dei pasti, ecc.: mansioni
ancora lontane dall'essere razionalizzate e tecnologizzate al livello
che lo sviluppo delle forse produttive potrebbe consentire...
Il lavoro di consumo comprende, oltre all'organizzazione degli acquisti,
il relativo lavoro di scelta e di trasporto, l'utilizzo dei servizi pubblici
e privati. Nello svolgere questo lavoro, l'autonomia delle donne è
soltanto apparente, vincolate come sono agli orari di negozi e uffici
pubblici, a quelli del lavoro del marito e della scuola dei figli. Le
difficoltà sono ovviamente maggiori per le donne che hanno a loro
volta delle rigidità di orari di lavoro. La donna è comunque
resposabilizzata del successo di questo lavoro di consumo, che consiste
nell'impiegare al meglio le risorse familiari di reddito e di tempo, traducendole
in pasti preparati, bisogni estetici e di tempo libero soddisfatti., comfort,
salute e benessere per tutti i familiari. Un compito impossibile da soddisfare
con le risorse esistenti per la maggioranza delle famiglie.
Il lavoro di rapporto: all'interno delle stesse mansioni di pulizia, di
consumo, ecc. le donne svolgono continuamente un "lavoro di rapporto"
nel tentativo di commisurare le risorse ai bisogni, di prevenire e soddisfare
i desideri dei figli e del marito. Curare chi è ammalato, consolare
dalle frustrazioni nella scuola e nel lavoro, rendere piacevole il tempo
passato insieme: quando è soltanto la famiglia il contesto in cui
questa molteplicità di bisogni possono trovare una risposta, i
rapporti diventano per la donna un lavoro, la coppia diventa una costrizione,
l'affettività è un dovere. Moltissime donne crollano sotto
il peso di queste aspettative, e della delusione dei loro desideri di
affetto e di
rapporto all'interno della famiglia: l'uso di tranquillanti, l'alcoolismo,
la malattia, ne sono spesso lo sbocco."
8 - B. Costantino
- "What is 'Emotional Labour'?", Dipartimento di Scienze Sociali,
Università di Torino, 1994
9 - U. Prokop
"Realtà e desiderio - L'ambivalenza femminile", Feltrinelli,
Milano, 1978
5 - M. Bianchi,
op. cit. Sul modo di produzione femminile, Ulrike Prokop in Realtà
e desiderio. L'ambivalenza femminile. Feltrinelli, Milano 1978, sottolinea
che un delle caratteristiche principali sta nella sua ambivalenza "Esso
è insieme più sviluppato e più progredito. Più
sviluppato, per la capacità di produzione di rapporti sociali,
perchè in esso gli individui sono percepiti come persone e non
solo come detentori di determinati ruoli sociali. E' invece arretrato
rispetto al modo di produzione capitalistico perchè l'accumulazione
del sapere e delle capacità non sono stati organizzati e socializzati:
in questo senso rappresenterebbero un 'livello inferiore' di socializzazione
dei rapporti umani".
Articolo
pubblicato su "Animazione sociale", n.1/1995
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