Elisabetta Addis, Milena Boccadoro, Marina Calloni, Stefanella Campana, Iaia Caputo, Anna Carabetta ,Carlotta Cerquetti, Cristina Comencini,
Chi siamo Siamo un gruppo di donne diverse per età, professione e opzione politica, benché orientate a sinistra. Facciamo parte di quel vasto movimento di opinione femminile che ha reagito indignata al torbido intreccio di sesso e politica rivelato dai casi del presidente del Consiglio e del presidente della giunta del Lazio. Si tratta di un movimento composito che si è manifestato nei modi più vari (appelli, documenti, lettere, blog) esprimendo giudizi anche contrastanti sullo stato attuale dei rapporti tra i sessi in Italia. Non ci ha persuaso il cortocircuito presente in alcuni appelli tra la denuncia del degrado della figura femminile e l’invettiva antiberlusconiana. Non c’è dubbio che il corrompersi dell’etica pubblica e delle istituzioni che si accompagna alla mercificazione del corpo femminile ha trovato in Italia un alveo particolarmente fertile nell’anomalia incarnata dal Presidente del Consiglio, la cui visione della politica, della vita e delle donne ci ha sommersi attraverso la concentrazione, unica in Occidente,di potere economico, politico e mediatico.
Che cosa pensiamo A noi la situazione appare più complicata. La difficoltà che abbiamo provato noi stesse a giudicare in modo lineare fatti, persone, comportamenti (se condanniamo non cadiamo nel moralismo, nel puritanesimo? se ci appelliamo alla libertà non dimentichiamo quanto di oppressivo c’è nello scambio sesso-denaro-potere? Di quale libertà stiamo parlando?) ci pare nascere invece dal fatto che viviamo in un mondo segnato in profondità dal femminismo. Non solo perché è definitivamente tramontata l’idea di una naturale subordinazione delle donne: le nostre società occidentali si sono ormai organizzate sul presupposto della uguaglianza dei sessi. Ma perché la coscienza che hanno di sé le giovani e meno giovani donne italiane (anche quelle che si mettono in vendita), non è più quella di vittime, deboli e indifese. Si percepiscono libere e padrone di sé. Ed è sicuramente vero. Un radicale cambiamento si è certamente prodotto, ma secondo il modello della “rivoluzione passiva”. Tre dati sono sufficienti a suggerire la contradditorietà della situazione italiana: percentuale di donne occupate in Italia in Italia nel 2009 46,8%, in Europa 58,6; percentuale di donne tra gli studenti di terzo livello (universitario) in Italia 57,2%, in Europa 55, 2%; tasso di crescita del PIL in Europa nel 2008 0.3%, in Italia -2,1. Istruite e capaci come le Europee, occupate a percentuali da paese arretrato, le donne italiane hanno pagato in prima persona la stagnazione economica e politica degli ultimi decenni. Lo spreco sociale che la loro esclusione comporta è una questione nazionale di primaria importanza. La domanda che ci siamo, dunque, poste è come è potuto accadere che la grande forza delle donne italiane che aveva sprigionato tanta soggettività politica e culturale, si sia di fatto adattata a godere di diritti e libertà soggettivi, rinunciando di fatto a misurarsi con la sfida della responsabilità politica. Sembra rimasta inchiodata alla rivendicazione senza provare seriamente ad esercitare una qualche egemonia, quasi ‘scartando’ rispetto a questa possibilità. Una possibile spiegazione sta nella rottura traumatica del sistema dei partiti agli inizi degli anni ‘90 che ha favorito una massiccia e pervasiva penetrazione dell’ondata neoconservatrice, di dimensione sconosciuta agli altri grandi paesi europei. La cultura che si è venuta imponendo colpiva al cuore idee e valori del femminismo. La destra italiana, tradizionalmente misogina e malthusiana, l’ha fatta propria e cavalcata, e solo recentemente, in alcune sue punte, comincia a percepire il significato “nazionale” della presenza femminile nelle istituzioni. In Italia è stata dominante in questi ultimi decenni l’ideologia iper-liberale della forza dell’individuo, contrapposta a ogni forma di organizzazione collettiva, artatamente rappresentata come livellatrice delle eccellenze nonché fonte di debolezza. Le donne sono state al contempo oggetto e veicolo di quella ideologia. Occorre ricordare il terribile dibattito, a ridosso delle elezioni del 1993, sulle donne di destra che vincevano perché da singole non chiedevano la tutela delle “quote”, a differenza delle donne di sinistra perdenti perché abbarbicate alla dimensione collettiva? Fu così che nella opinione pubblica femminile si diffuse il convincimento che ciò che contava era la capacità di rappresentazione simbolica, ossia il coagularsi della potenza femminile intorno a figure carismatiche. E fu scartato un altro possibile percorso, irto di ostacoli, ma trasparente e democratico: quello delle donne che decidono e scelgono le loro leader, a loro volta in grado di giudicare in base a criteri non discriminatori altre donne rappresentative della forza femminile nella società, nelle professioni, nei mestieri, nelle Istituzioni. Sappiamo del resto per esperienza quanto arduo sia questo cammino per la difficoltà delle donne a gestire i rapporti di potere fra loro. Le donne in genere non sopportano di essere giudicate e scelte da donne, tanto che alcune scuole psicanalitiche attribuiscono all’identità femminile qua talis tale resistenza. È in questo quadro che è andata svanendo una delle acquisizioni più importanti del patrimonio culturale del femminismo italiano e cioè l’idea dell’uguaglianza e della differenza tra i sessi. Conquistare la parità con gli uomini non significa affatto per le donne diventare come loro, fare le stesse cose. Anzi era stata coltivata la grande ambizione di costruire una società a misura dei due sessi, se è vero che essere donna non è una disgrazia né della natura né della storia ma una della manifestazione della differenza interna all’umanità che va lasciata libera di esprimere tutto il suo “genio”. Dinanzi alla mancata realizzazione di almeno alcune delle promesse (dalla conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, a politiche in favore della maternità oltre alla marginalizzazione dei giovani, uomini e donne dalla dinamica sociale) si sono riproposti modelli puramente emancipativi della libertà femminile oppure, seguendo un’onda culturale che proveniva dagli Stati Uniti, si è pensato di eliminare alla radice il problema adottando l’ideale del transgender, ovvero di portare all’estremo la decostruzione del genere femminile e maschile, sino all’annullamento dell’identità sessuata. In nome di una libertà che si illude di poter plasmare e mutare corpi e vita a proprio piacimento si avanza sul terreno della cancellazione delle donne dall’agenda politica e culturale. Non a caso negli ultimi anni le battaglie che hanno avuto più forte impatto politico e mediatico sono quelle per i diritti degli omosessuali e non a caso nella disgraziata vicenda del referendum sulla legge 40, sulla procreazione assistita, a dare il tono alla campagna referendaria sono stati gli scienziati sino a configurarla prevalentemente come una battaglia per la libertà della ricerca. Contemporaneamente dagli schermi televisivi, dalle copertine dei giornali e delle riviste passano immagini di donne cosiddette vincenti la cui unica o principale prerogativa è quella di avere un corpo appetibile per il desiderio di maschi pronti a comprarselo. Che cosa vogliamo Vogliamo innanzitutto creare una rete, elastica ed informale, di collegamento tra le mille realtà associative, piccoli gruppi, donne singole che avvertono come noi l’insostenibilità dello stato di cose presenti e mirano a spezzare i quadri bloccati della democrazia italiana. Vogliamo passare dalla rivendicazione di diritti per le donne alla prova dell’esercizio della responsabilità politica. Siamo al dopo femminismo. Vogliamo aprire un dibattito ampio, che abbia effetti concreti ad esempio sui media, su che cosa intendiamo per libertà. Se crediamo che l’aprirsi alla libertà delle donne introduca qualcosa di inedito nella storia della libertà oppure sia solo la semplice estensione delle concezioni esistenti.
28-04-2010 aggiornato 3-06-2010
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