Donne ai confini dello stato sociale
Conciliazione o rifiuto della divisione sessuale del lavoro?*

di Maria Grazia Campari

 



L’argomento che siamo chiamate ad esaminare sembra della massima rilevanza poiché viviamo in una fase in cui  la posta in gioco appare molto alta, precisamente quella che decide del governo delle nostre vite: se esso sia delegato alle pretese della globalizzazione economica, oppure se sia possibile contrastarne le ingiuste pretese e in qual modo.

Un impegno primario è, secondo me, quello di cambiare l’agenda imposta dal fondamentalismo del mercato globale che provoca guasti gravissimi e crea molteplici rovine (sociali, ambientali) per l’umanità. Rosa Luxemburg immaginava un capitalismo che moriva per mancanza di cibo, avendo divorato l’ultimo prato di cosa altrui, sul quale pascolava (quale esito del capitalismo di rapina) .

In realtà oggi si assiste ancora alla conquista di avamposti da parte del mercato capitalistico, ciò che aggiunge milioni di individui alla massa di donne e uomini privati delle loro terre e reti di sicurezza sociale. La modernità produce rifiuti umani non smaltibili che in Europa e particolarmente in Italia si tenta di arginare usando  come  clava la giustizia penale discriminatoria (reato di clandestinità), diffondendo sul territorio politiche securitarie e coltivando l’ideologia del successo individuale a scapito del collettivo. Questa ideologia prende di mira la solidarietà sociale, nega il principio di una comune responsabilità per il benessere dei membri della società, crea un mondo di consumatori che conducono una vita giocata tutta sulla ricerca individuale del massimo di soddisfazione e successo personale, imponendo una pratica esistenziale conformata su di una concorrenza spietata fra individui, in gara per i primati che rendono la via degna di riconoscimento e rispetto sociale (o “invidia”, secondo la definizione berlusconiana).

Negli ultimi venti anni si è costantemente scivolati da un modello di società inclusiva basata sullo Stato sociale ad uno Stato giudiziario basato sul controllo penale e sulla esclusione di fasce sempre più ampie di popolazione anche nei Paesi del c.d. primo mondo.
E’ l’”Economia canaglia”(L. Napoleoni. Il Saggiatore 2008) fenomeno ricorrente nella storia dei grandi mutamenti (caduta del muro di Berlino), poiché nel corso di essi la politica perde il controllo dell’economia e della finanza internazionale, mentre i cittadini consumatori pagano il loro tributo vivendo in un mondo fantasticato come il migliore possibile, come i personaggi del film matrix , mentre il mondo reale vive in pieno marasma economico di cui gli stessi cittadini fanno le spese.

La constatazione risulta evidente ad un esame della materialità delle vite ed è assai chiara anche a livello sovrastrutturale, nella legislazione che governa i rapporti di produzione in Europa e in Italia.
Nel gennaio 2004 la Commissione europea ha approvata la direttiva denominata Bolkestein dal nome del Commissario alla concorrenza e al mercato interno. Essa fornisce il quadro giuridico per eliminare “vincoli alla competitività” e ostacoli alla “libera circolazione dei servizi e dei prestatori” negli Stati membri dell’Unione. Essa si riferisce a qualunque attività mediante la quale un lavoratore partecipa alla vita economica, indipendentemente dal fatto che i servizi siano retribuiti o gratuti. I principi su cui si fonda sono quelli di favorire la competizione fra imprese e anche fra Stati ponendo i prestatori di lavoro in competizione fra loro e sfornendoli di protezioni legali minime: un’impresa può assumere lavoratori in Paesi ove le protezioni sociali sono minime per poi trasferirli là dove leggi e contratti forniscono ai residenti garanzie economiche e normative superiori, ai trasferiti si applicherà la legislazione minima del luogo di provenienza, a tutto vantaggio dell’impresa. Come è stato notato, si realizza una sorta di caporalato europeo che legalizza l’adibizione dei lavoratori con meno diritti e salario inferiore in Paesi ove la condizioni di lavoro sono migliori senza che ciò produca effetti positivi sulla loro condizione, mentre produce una concorrenza al ribasso fra lavoratori (social dumping).

La svalutazione sociale implicata dalla direttiva ha sollevato ostilità che ne hanno provocato un  parziale miglioramento dietro pressione dell’Europarlamento, miglioramento tuttavia ritenuto insufficiente ad evitare la concorrenza al ribasso, stando anche alle critiche dei sindacati europei. Questo  perché essa si inserisce in un disegno di modernizzazione del diritto del lavoro basato su principi di flexsecurity, che privilegiano la flessibilità in entrata e in uscita dal posto di lavoro, a scapito delle garanzie di stabilità. Una crescita di flessibilità che si è tradotta, nei fatti, in forte crescita della precarietà ovunque in Europa ma particolarmente in Italia anche per la mancanza di un sistema di protezione adeguato e generalizzato contro la disoccupazione. Secondo dati Eurostat (la Repubblica 30.9.2009) il rischio di povertà è coperto per il 20% della popolazione nella media europea, per il 17% in Italia contro il 60% in Svezia e il 50% in Francia.

I dati sul mercato del lavoro italiano presentati dall’ISTAT nel maggio 2009 (relativi all’anno 2008) descrivono quantitativamente il lavoro flessibile come segue: i contratti a tempo determinato, di collaborazione occasionale, a progetto, coordinata e continuativa o i contratti autonomi a tempo parziale, riguardavano tre millioni e mezzo di individui, il lavoro part time per lavoratori che desideravano il full time portava la cifra ad oltre quattro milioni e mezzo: quasi un lavoratore su quattro risulta sottoccupato e ciò per molti anni, non solo all’ingresso nell’attività lavorativa (v. Tito Boeri La Repubblica 27.5.2009).

La situazione femminile risente di una penalizzazione superiore sia in termini di accesso e permanenza al lavoro sia in termini retributivi. L’occupazione delle donne è solo pari al 46% contro una media europea del 55%, le retribuzioni a parità di professionalità sono inferiori in misura variabile fino al 20% a seconda dell’inquadramento rispetto a quelle maschili, inoltre le donne rappresentano l’80% del totale degli impiegati part time e sono conseguentemente sottopagate. Indagini statistiche svolte dalle Nazioni Unite sulle attività umane mostrano che nella distribuzione del lavoro totale quello femminile presenta un terzo di lavoro pagato e due terzi non pagato, quello maschile è per i tre quarti pagato e per un quarto non pagato. Lo svantaggio sociale delle donne va attribuito al lavoro di cura non pagato.
 A mio parere se ne deduce che, nella situazione attuale, per la flessibilità richiesta dagli assetti produttivi,  non è il lavoro che alimenta le vite degli individui, ma sono le vite stesse ad essere messe al lavoro.

Lavoro e vita, oggi, tendono ad intrecciarsi, la vita entra nel lavoro, ma non sono le sue capacità relazionali a trasformare positivamente il lavoro, poiché è quest’ultimo che impone le sue logiche costrittive.
Nella forma attuale del capitalismo, per la concentrazione del potere nelle direzioni di impresa, le vite personali sono meno libere, il tempo della vita è continuamente invaso, costretto dal tempo del lavoro, nella tendenziale confusione dei due campi.

Il lavoro afferra la vita. Di qui il carattere centrale di questo argomento per chi è disposto a confliggere per la libertà (dal bisogno, dalla sottomissione, dalle paure indotte), esercitando un pensiero critico. Ma il pensiero critico è realmente tale solo se compie uno sforzo di aderenza all’esperienza umana dei soggetti sessuati, donne e uomini, solo se si incarna nelle loro vite differenti. Solo se comprende che, attualmente, la forte egemonia dell’economico produce un patto sociale al ribasso che si manifesta particolarmente nel dato circolare welfare-famiglia (utilizzando lo snodo della privatizzazione), che per le donne implica un minus di libertà e autodeterminazione.  

Se il capitalismo attuale mette al lavoro le vite, erodendo spazi di autonomia e autorganizzazione, occorre individuare una prospettiva che tenga insieme nella stessa immagine il processo di produzione di merci e quello di riproduzione sociale della popolazione: le condizioni del vivere e quelle del produrre, quindi il lavoro totale, pagato e non pagato .
Le economiste femministe ci hanno insegnato a prendere in esame il quadro complessivo, nella sua realistica complessità, ciò che consente di leggere la situazione attuale, le relazioni e i conflitti fra soggetti dotati di corpo, sessuati, in grado di riflettere su di sé e sulla società. Non pure e semplici vite, abbandonate al rischio di una serialità muta.

Questo esercizio di verità aiuta a svelare aspetti nascosti o mistificati della realtà, usati per rinchiudere le donne in una “femminilità” subalterna e sacrificale, adattativa rispetto ai valori patriarcali. Apre spazi per collocare la massa del lavoro domestico e di cura non pagato al centro della problematica economica e il processo di nascere, vivere, e morire al centro del conflitto tra riproduzione sociale e produzione di merci, tra profitto e salario. I soggetti che agiscono i conflitti sono connotati anche per sesso e generazione.

E’ bene sottolinearlo: i soggetti di riferimento della produzione non sono solo i maschi adulti, usati come norma e liberati del corpo e del ciclo di vita, ma donne e uomini, giovani e vecchi, salariati e non salariati, che vivono effettivamente in un tempo e spazio specifico.
Questo doppio livello può spiegare le tensioni dell’intreccio fra condizioni di vita e di lavoro, tra lavoro pagato e non pagato, tra interiorizzazione di responsabilità riproduttive e costrizioni produttive.
Nel caso delle donne queste tensioni sono pienamente visibili, ma non si tratta di questione femminile, il conflitto è radicato nella struttura del mercato del lavoro e la figura del lavoratore “normale”, maschio adulto, può nasconderlo solo scaricandolo sul lavoro non pagato delle donne. (A. Picchio)

Si è visto come i dati statistici ormai chiariscano che attività di cura e lavoro domestico non pagato costituiscono una stampella importante per la sostenibilità del sistema, contribuiscono alla ricchezza della nazione, mentre indeboliscono la posizione delle donne: la suddivisione gerarchica del lavoro casalingo viene perpetuata nel mercato occupazionale, è il risultato di un sistema che crea un circolo vizioso per le donne.
Le donne che non sono escluse si trovano in situazione deteriore, a causa del loro compito fondamentale di riproduzione sociale (vedi anche l’art. 37 della nostra Costituzione).

Di qui la ben nota femminilizzazione della povertà in tutti i luoghi del pianeta. Di qui altre pesanti ricadute negative che rendono indispensabile rompere i nessi fra egemonia del mercato e politiche familistiche (uomo individualista economicamente indipendente, donna dipendente al servizio della famiglia) alle quali fa seguito la diffusione di valori morali e giuridici che implicano una negazione di libertà in primo luogo per le donne, poi per tutti, per la indivisibilità di questo valore.

Viene così istituito l’ordine dell’avere, del possesso che prevede la disponibilità del corpo/mente dei soggetti posti in situazione di subalternità, soggetti privi di reale autonomia, eterodiretti. Soggetti definiti avventizi e multifunzionali, che esercitano la propria provvisorietà in molti campi, assorbiti nelle loro energie dai bisogni della sopravvivenza economica, privi di tempo per attività sociali, politiche, sindacali. La fugacità dell’esperienza lavorativa imbozzolisce, crea comportamenti mimetici, isola nell’individualismo. Contemporaneamente, attraverso molteplici privatizzazioni dei servizi, è venuta meno la garanzia dello Stato sociale, ciò che pregiudica fondamentali diritti quali quello alla salute, alla istruzione generalizzata, all’equo salario.

Si registrano cospicui finanziamenti alla scuola privata, smantellamento progressivo della sanità pubblica in contrasto con gli artt. 33 e 32 Cost., grave erosione dei servizi sociali per l’infanzia e per l’assistenza alla vecchia non autonoma.
Complessivamente viene meno la promessa fondamentale dell’art. 3, 2 comma Cost. “Lo Stato ha il compito di assicurare le condizioni necessarie per il pieno sviluppo della persona e per una partecipazione effettiva all’organizzazione politica economica sociale del Paese” 
Dalle rilevazioni sopradette emerge che la rottura del quadro garantista riguarda in particolare le donne, dotate di cittadinanza incompiuta anche per la loro deteriore partecipazione ad ogni spazio sociale, compreso quello del lavoro.
A fronte di ciò si assiste a teorizzazioni che valorizzazano l’ esistente o ne propongono alcuni aggiustamenti attraverso un sistema detto conciliativo.

Si parla di part time conciliativo che consente alle donne la doppia scelta del lavoro e della maternità, concetto in cui è inserito, sottaciuto, tutto il lavoro riproduttivo domestico e di cura famigliare, quale appendice normale; situazione che, inoltre, enfatizza le funzioni femminili, prolungandone l’efficacia (gratuita) anche nella prestazione lavorativa: si tratta di capacità relazionale/gestionale non prevista nell’entità della retribuzione.

Nel vantato favore femminile per questo tipo di contratto risulta completamente offuscato qualsiasi criterio materialistico di lettura della realtà: da quale posizione sociale e da quale reddito si parla, con quali ipotizzabili conseguenze sul benessere ovvero sulla povertà femminile e minorile nei casi di rottura della compagine famigliare (separazioni e divorzi), con quali riflessi sull’entità delle pensioni.

Anche l’elogio del lavoro di cura quale modalità per un ampliamento delle conoscenze, dei punti di vista e delle capacità gestionali femminili, allude ad un concetto ambiguo, vero e contemporaneamente forzato in una limitazione dello sguardo sul mondo. Non è dubbio, infatti, che l’ampliamento di conoscenze oltre che nel lavoro riproduttivo e nelle relazioni di cura possa conseguirsi attraverso il confronto fra culture (incontri, letture, formazione plurilingue, approfondimenti teorici, relazioni professionali multidisciplinari), mentre le capacità gestionali possono essere create e migliorate anche attraverso lavori di organizzazione delle risorse condotti professionalmente e come tali retribuiti, non erogati gratuitamente.

Inoltre, l’articolazione dell’attività femminile giornaliera in molteplici campi, per lavoro formale per il mercato e informale per la famiglia, spesso avviene a scapito delle conoscenze e degli approfondimenti culturali, anche della formazione continua, ormai richiesta per gli impieghi qualificati e ben retribuiti. La giornata essendo di ventiquattro ore per tutti.

La feminilizzazione come spunto di una flessibilità contrattata nel mercato del lavoro per le imprese riguarda settori percentualmente molto ridotti di lavori specialistici, non può essere utilizzato per formulare regole generali.
La scelta detta del doppio si  come libera scelta materna, forse potrebbe essere interrogata come scelta doppiamente adattativa e a-conflittuale, che si verifica per esigenze economiche pur in assenza di condivisione dei compiti in famiglia. La rilevata mancanza di recriminazioni femminili intrafamigliari per scelte penalizzanti sul lavoro (blocco o regressione di carriera per cura dei figli), potrebbe trovare spiegazione nel desiderio adattativo (scelgo ciò che la cultura dominante mi indica come preferibile/obbligatorio), utile ad evitare il conflitto coniugale, mentre il desiderio adattativo può regredire là dove la cultura (sindacale) autorizza il conflitto.

Inoltre, il pensiero che enfatizza la positività del doppio si manca completamente di sottoporre ad esame il futuro di chi si carica della doppia presenza: basso reddito professionale destinato a creare nuove povertà per madri e figli minori, accorciamento della carriera lavorativa che determina pensioni insufficienti in età avanzata, segnata da bisogni superiori, in assenza di un welfare pubblico che vi provveda
La forte figura femminile ricompresa nella definizione di “donna realista ed elastica” pare alquanto fantasticata; ad uno sguardo realistico sembra piuttosto adattativa all’esistente e inconsapevole rispetto alla propria vita futura.

Appare consonante con questa impostazione la proposta di un disegno di legge (DDL 784/09) promosso dal Partito Democratico nel maggio 2009, recante “Misure per favorire l’occupazione femminile e la condivisione e conciliazione fra cura e lavoro” che, stando alla illustrazione apparsa sul sito, non sembra destinato a scalfire la situazione in atto attraverso una equa ripartizione dei compiti famigliari, poiché la conciliazione fra attività di lavoro produttivo e riproduttivo sembra ancora una volta a carico esclusivamente delle donne. Basti dire che fra le provvidenze troviamo l’accesso al part time per le dipendenti del settore privato e l’elargizione di soli dieci giorni di assenza per cura dei figli neonati a favore dei padri.

Queste relazioni dispari fra i sessi, preoccupanti sul piano materiale perché favoriscono la povertà femminile, sul piano politico hanno precise ricadute sui diritti di cittadinanza e sulla qualità della democrazia: esse producono la estraneità delle donne dalla sfera pubblica che determina una insufficienza degli assetti democratici.
L’apparato regolatore delle relazioni sociali e politiche, saldamente in mani maschili, non si lascia modificare facilmente, non registra la parzialità dei soggetti, afferma (per fatti concludenti) l’unicità del soggetto maschile che acquisisce l’esistenza dell’altro solo come parte assimilata di sé.
Ne consegue, in special modo sul terreno della politica, una notevole mancanza di apertura rispetto alla presa di parola delle donne, una limitazione della capacità di ascolto e di interlocuzione maschile, una sottovalutazione dell’esperienza e della cultura femminista, un’adesione poco lungimirante a regole elaborate nell’assenza dell’altra, parlando anche in suo nome e conto.

Al contrario, ritengo che democrazia sia un concetto che implica una pratica, quella di favorire libertà e possibilità reale di partecipazione per tutte/i, invitate/i a prendere parte ai processi decisionali che governano la vita di ognuno.
Per me, la pratica della democrazia inizia con l’eliminazione dello spazio di illibertà materiale ed emotiva delle donne nel privato, ciò che significa eliminare l’interiorizzazzione di una cittadinanza di seconda classe che le spinge verso scelte adattative, conformi ai modelli tradizionalmente imposti, vissuti come espressione dei loro desideri.

Questa è una delle concorrenti modalità (e non la meno rilevante) per attuare una democrazia aperta al dialogo, un confronto incessante e un conflitto per la modificazione, nel legame sociale che conosce a sé e all’altra, agli altri, pari responsabilità per la vita collettiva.
Questa modalità potrà concorrere a produrre una ridefinizione dell’entrare in politica, a partire dal fatto che per molte donne il privato cessi di essere la sfera della privazione.

Se le donne cessano di servire (in via quasi esclusiva) le necessità del privato, l’assoluta libertà maschile rispetto ai vincoli materiali viene meno, con ricadute positive sulla regola costitutiva e organizzativa della politica.
Le fila del ragionamento sono strettamente collegate: la fine della irresponsabilità maschile rispetto al privato può concorrere a determinare la fine del monopolio maschile rispetto alla cosa pubblica.

Si tratta di dare attuazione agli artt. 3 e 51 della nostra Costituzione che prevedono sia l’eguaglianza, sia, in particolare, la possibilità di accesso a tutte le cariche pubbliche dei cittadini dell’uno e dell’altro sesso, impegnando la Repubblica a promuovere con appositi provvedimenti le pari opportunità fra donne e uomini.

Si tratta di ottemperare alle raccomandazioni del Comitato Europeo per l’eliminazione delle Discriminazioni contro le Donne che, da anni, sollecita l’Italia affinché adotti misure speciali per aumentare immediatamente il numero di donne impegnate in cariche politiche e pubbliche.
Sarà possibile, in tal modo, contribuire alla definizione della cittadinanza come plurisoggettiva, condivisa con l’altra/o, diversa/o rispetto al cittadino della tradizione borghese patriarcale.

*Relazione tenuta al seminario di Ravenna, 16 ottobre 2009
 

 

20-10-09