Donne/storia una questione di confine

di Liliana Moro

Non ho mai creduto alla tesi dell'esclusione delle donne dalla storia.
Quando le prime ricerche storiche avviate sotto l'urgenza politica del movimento femminista degli anni Settanta hanno posto sotto gli occhi di tutte la clamorosa esclusione delle donne dalla storia, io mi sono prima indignata e poi stupita: come era possibile?
Intorno a me non vedevo donne segregate in casa, chiuse tra quattro mura, vedevo donne in tutti i luoghi dove si agisce, si commercia, si costruisce: uffici, scuole, strade, negozi, mercati e supermercati. Come era possibile che quella presenza massiccia fosse ininfluente, non determinasse il corso della storia? Ragionevole supporre che condizioni analoghe si registrassero anche nel passato, quindi il problema mi sembrava da ricondurre esclusivamente ad un certo modo di scrivere la storia. Una ricostruzione che guardava solo alla politica, agli uomini di potere e alle relazioni tra stati, alle guerre e alla diplomazia: re, papi, imperatori, leggi, accordi internazionali e intrighi di palazzo. Sarebbe bastato allargare l'orizzonte delle ricerche perché volti e pensieri femminili emergessero dall'ombra.

Erano gli anni in cui il protagonismo, l'assunzione di parola da parte degli esclusi -giovani, donne, operai- imponeva con forza un cambiamento di prospettiva anche nel modo di interrogare il passato e l'assunzione di nuovi parametri nel giudicare, ricostruire e ordinare i fatti.

L'assenza di figure femminili nella narrazione storica, o piuttosto la presenza solo di personaggi in vario modo inquietanti, come Lucrezia Borgia o Giovanna d'Arco ad esempio, erano un riflesso della rigidità dei ruoli sessuali e non corrispondevano alla molteplicità di modelli e alla ampiezza delle scelte che vedevamo davanti a noi. Allora nella storia siamo andate a cercare ciò che permetteva alla nostra utopia di riconoscersi in un già accaduto e, quindi, possibile nel mondo del reale. Abbiamo trovato tante vite ricche di insospettate libertà e di capacità di autonomia. Tante ricercatrici ci hanno fatto il dono di narrazioni storiche appassionate e intelligenti, che ci hanno confermato nella vastità delle possibilità a nostra disposizione e ci hanno offerto modelli positivi a cui guardare.

Ma come allora non riuscivo a accettare l'idea della totale esclusione, così ora non credo alla tesi del potere femminile nella storia. Non per moderazione ma perché entrambe le ipotesi mi paiono riduttive della complessità e della ricchezza possibili nella ricerca storica e nella pratica politica. Occorre, credo, attrezzarsi per osservare e comprendere un ambito come è quello storico, in cui vistose polarità entrano in relazione e si determinano reciprocamente:
presente/passato; individualità/collettività; azione/riflessione; presenza/cancellazione; iniziativa/subordinazione; vincoli/libertà.

Più che sottolineare l'uno o l'altro dei termini antitetici, è interessante vedere le dinamiche della loro interazione, i piani di equilibrio o di rottura, e indirizzare la ricerca verso gli spazi di autonomia femminile in contesti a dominanza maschile, come ad esempio la ricerca scientifica, oppure verso la pesante ingerenza del pensiero e della normativa dettata da istituzioni maschili sulla gestione del corpo femminile e sulla funzione materna, come è stato fatto dal fascismo e dal nazismo.

Serve, ma non basta più cercare le isole felici di potere femminile, le figure vincenti, credo sia più fecondo vedere le complicità, i silenzi, il sostegno dato a cause non condivise fino in fondo, la supplenza fornita (per amore?) agli uomini nei momenti di crisi, come le guerre, impossibili da combattere senza la collaborazione di chi non usa direttamente le armi, come accadeva alle donne fino a poco tempo addietro.

Collocata tradizionalmente ai margini, la storia delle donne si trova in una situazione di confine, un confine continuamente attraversato. Anche da qui potrebbero arrivare indicazioni per percorsi nuovi al femminismo che "adesso si è spaccato sostanzialmente in due" (come sostiene Marirì Martinengo in Tè storia e pasticcini, "Via Dogana", n.54, marzo 2001) tra la logica delle pari opportunità di "quelle che mettono all'apice delle loro aspettative l'ammissione ai luoghi di potere" e la pratica della differenza femminile di quelle che "non interpretano, per esempio, l'assenza o la scarsa presenza delle donne nell'agone politico come un'esclusione perpetrata da altri ma come scelta da parte delle donne stesse" (Marirì Martinengo).

Ritengo che tali posizioni rischiano di tradursi in una scelta tra omologazione e separazione, una scelta riduttiva che non tiene conto della complessità delle dinamiche possibili e soprattutto che limita fortemente gli spazi di scelta e di creatività femminile. Se è vero che non è nell'isolamento ma nella relazione che si afferma o si nega la libertà.