Conflitti
di sesso, conflitti nel sesso
Maria
Grazia Campari

Angelica Kauffmann
L'argomento
non è nuovo, ma richiede una riflessione più allargata che
tenga conto delle molteplici soggettività e culture presenti nei
diversi territori.
In questo
intervento mi propongo di affrontare la problematica in modo sintetico,
per favorire il pensiero in presenza e il dialogo fra donne, secondo l'impostazione
che abbiamo ritenuto utile dare ai lavori, per consentire l'apporto di
esperienze dirette e un confronto sulle diverse pratiche.
Quella che
segue è una riflessione molto interna alla cultura occidentale,
che necessita, quindi, di intrecci cosmopoliti.
Personalmente,
aderisco all'opinione che vede nel conflitto un modo di superare la visione
atomistica dell'individuo, una pratica di riconoscimento intersoggettivo
che sottolinea la dimensione sociale dell'individualità umana.
Il conflitto
può essere, quindi, agito come una forma di relazione che prevede
un ragionevole accomodamento, propiziato dalla provvisorietà della
ragione di che prevale e dalla possibilità di una successiva negoziazione
conflittuale, volta alla modificazione dell'esito.
Attraverso
il conflitto aperto e dichiarato, si può tentare di trasformare
l'inimicizia per l'altro, il diverso, nel riconoscimento di un avversario
col quale aprire un dialogo.
Considero
che questa sia una possibile modalità per trasformare la sopraffazione
in mediazione fra valori contrapposti non statici, ma in continua e reciproca
modificazione.
Qui entra
in campo un problema che attiene all'ordine dell'esistente.
La mediazione per essere possibile necessita di un doppio (o molteplice)
ordine riconosciuto di valori e di un orizzonte di terzietà.
In altri
termini, la convivenza sociale non distruttiva fra diversi, suppone l'esistenza
di almeno due soggetti e di un ordine mediatore.
Nei contesti sociali, la condizione necessaria è, secondo me, l'esistenza
di un ordine giuridico all'interno del quale si possano trovare soluzioni
e regole di mediazione condivise, cui si pervenga attraverso dispositivi
e procedure.
Come dice
Hannah Arendt, è lo spazio in cui l'ordinamento giuridico ha valore
quello che determina il mondo in cui ci si può muovere in libertà.
Lì si creano i rapporti fra gli esseri umani , si crea mondo perché
si introducono legami duraturi che al contempo associano e separano. Il
concetto di essere contemporaneamente associati e separati mi pare fondamentale
e mi pare che esso interpelli in profondità la nostra esperienza
di vita.
Ma su ciò torneremo.
L'ipotesi che appare interessante coltivare è quella di evitare
la deflagrazione guerresca attraverso l'esercizio non distruttivo del
conflitto. Essa suppone l'esistenza oltre che dei soggetti differenti,
anche di un terzo mediatore che sia il riconosciuto titolare delle procedure
di raffreddamento delle tendenze belliciste.
E' possibile ipotizzarlo in un periodo come quello attuale, che non mostra
nulla di quanto appare conveniente e desiderabile?
In effetti, penso che potremo tutte convenire sul fatto che i tempi presenti
esibiscono un forte disvalore sociale del conflitto.
Io ne sono convinta, a partire dalla mia esperienza.
Dall' esperienza di difesa legale dei "soggetti deboli" traggo
la considerazione che i conflitti famigliari anziché affrontati,
vengono per lo più occultati, talvolta fino alle conclusioni estreme
(violenze, uxoricidio, infanticidio).
Quando poi si procede alla separazione fra coniugi, il conflitto giudiziale
che un tempo era vissuto dalla donna come espressione di soggettività
emancipata dalla comunità totalizzante della famiglia, dalla violenza
implicita nella funzionalizzazione a ruoli subalterni, oggi è vissuto
prevalentemente come scacco e inadeguatezza..
Anche il conflitto di lavoro si è sfrangiato, in gran parte, obliterato
da decenni di codeterminazione sindacale, con la conseguenza che chi confligge
oggi sconta situazioni di isolamento dal contesto solidaristico della
collettività lavorativa di appartenenza. Quindi, i più si
sentono costretti al silenzio, subiscono per timore.
Ogni giorno di più mi pare di confrontarmi con vite prese nella
morsa costrittiva imposta da un ordine guerresco. Mi sembra che oggi la
vita di ognuna/o si svolga fra le due polarità obbligate della
guerra guerreggiata e dell' ordine guerresco della "pace".
In questo
ordine la sorte degli individui appare segnata dalla diseguaglianza fin
dalla nascita, nella stessa accoglienza che ricevono in famiglia, ove
un destino molto diverso è predisposto, in dipendenza del sesso.
Questa disparità fra i soggetti dei due sessi si allarga in cerchi
concentrici in tutti i luoghi sociali e riguarda tutti gli aspetti dell'esistenza
Essa traspare perfino in filigrana nel dettato della Carta Costituzionale
Italiana.
Nei suoi enunciati la pari dignità sociale e l'uguaglianza fra
cittadini incontra un ostacolo nell'istituto della famiglia, definita
pilastro del vivere associato: in favore della sua unità viene
sacrificata, ponendovi un limite, l'uguaglianza fra i soggetti dei due
sessi.
Evidentemente, la preminenza è attribuita non alle persone, ma
ad un'istituzione privata formalizzata, tanto che le donne paiono detenere
un certo numero di diritti piuttosto in virtù del loro statuto
famigliare che non come individui.
Per le donne
l'ordine vigente prevede, con varie gradazioni e sfumature, il confinamento
nel privato al servizio della famiglia, la pervasività del controllo
coercitivo sul corpo/mente, la negazione dello spazio pubblico. In altre
parole, nel privato della famiglia si verificano tangibili e intangibili
violazioni dell'eguaglianza e della dignità delle donne, che hanno
conseguenze precise nello spazio pubblico.
Il confinamento
nel privato produce l'introiezione di una cultura ancillare, conseguente
ad una consuetudine di prestazioni di cura rese in regime di gratuità,
di irriconoscenza, di mancata reciprocità che rende le donne spesso
adesive in modo subalterno al disegno di potere altrui.
Quali le
conseguenze, a livello generale?
Secondo me, la condizione femminile di estraneità rispetto ai livelli
decisionali alti, di estromissione dalla polis, quindi l'esibizione di
personalità represse e succubi, determina sia negli uomini che
nelle donne un blocco della libertà interiore che rende poi molto
difficile la pratica della libertà individuale e lo sviluppo di
personalità aperte alla relazione paritaria con l'altro, alla pratica
della relazione conflittuale non distruttiva.
La gran parte
degli esseri umani, mi pare, desidera essere governata, si pone sotto
l'egida di capi, quindi favorisce l'imperio e il dispotismo dei governanti.
Questo percorso conduce alla guerra, strumento di governo planetario,
espressione estrema di un imperio assoluto e onnipresente che domina gli
umani irregimentandoli.
La guerra
completa il compito, perseguito attivamente anche durante la "pace"
di offuscamento dell'idea di libertà individuale degli umani, ne
mostra più chiaramente l' aspetto di personalità bloccate
di fronte alla libertà, aspetto che connota in ogni istante l'ordine
della civiltà in cui viviamo.
Il blocco
della libertà interiore impedisce la dimensione relazionale del
conflitto, impedisce, cioè, la dimensione che prevede la fine di
tutte le prevaricazioni violente e delle fissità, che crea vuoti
di potere e allarga gli spazi di parola per ognuno, tendendo all'universalizzazione
dei diritti.
Va considerato
che non vi è libertà se alcuni valori cardine non vengono
trasfusi in un coerente tessuto costituzionale di valori produttivi di
diritti e di regole che pongono limiti all'assoluta libertà che
è il dominio del più forte.
Sottolineo la necessità d'interna coerenza della trama di valori
costitutivi perchè, come ho già detto, a mio parere, la
nostra Costituzione progressista mostra alcune pecche, dal punto di vista
della libertà femminile.
Nella trama di valori predisposta dagli artt. 2 e 3 della Costituzione
albergano fondamentali diritti di libertà per tutti i soggetti,
riconosciuti, in quanto tali, portatori di valori e titolari dei diritti
della personalità.
Come è stato detto, la persona rappresenta il fine ultimo del sistema
delle di libertà garantite. La persona è considerata nelle
sue relazioni, ma importanza centrale è attribuita alla sua individualità.
Tutto un po' meno vero per le donne, considerato il disposto del già
menzionato art. 29 sull'organizzazione famigliare che la incapsula come
cellula in un complesso destinato a sottrarle soggettività.
Questo è
l'esito di un patto sociale fra uomini concluso anche per le donne.
Mi sembra inevitabile, allora, dedurre che non vi è libertà
per chi non contribuisce alla formazione dei valori e alla elaborazione
delle regole che presiedono alla civile convivenza e determinano il giusto
e l'ingiusto nei rapporti sociali.
Non vi è libertà se l'habeas corpus del soggetto femminile
non è affermato e mai più revocabile in dubbio, per nessun
motivo.
Il soggetto che patisce l'eteronomia, per cui l'habeas corpus non è
un diritto compiuto e definitivo, facilmente si mostra come portatore
di un'idea offuscata di libertà individuale.
Allora mi
chiedo se le donne che praticano il femminismo non abbiano cospicue responsabilità
nella cancellazione della libertà interiore (la sola che possa
produrre una pratica politica della libertà contro il dominio e
le guerre) quando si collocano nella marginalità che deresponsabilizza
e che, contemporaneamente, spesso dispensa anche qualche sostanzioso privilegio.
Manca una
parola femminile sul conflitto di sesso durante le guerre e manca costantemente
anche nell'ambito dell'ordine guerresco della "pace".
Manca, forse, non un'analisi, ma certamente una pratica politica femminista
conflittuale sui destini personali e sociali di ognuna/o.
Manca un
ragionevole conflitto di sesso, manca un ragionevole conflitto nel sesso
, così le differenze diventano alterità insanabili e laceranti.
Constatare l'aspetto gregario che determina un blocco rispetto alla libertà
individuale significa affrontare il tema della propensione all'irresponsabilità,
la paura di assumersi responsabilità, la (sia pur parziale) cessione
della propria soggettività ad altri.
Tema molto rilevante e, secondo me, gravido di notevoli conseguenze teoriche
e pratiche.
Se un mondo diverso è possibile, è forse il caso di (contribuire
ad) impostarlo a partire da noi stesse.
Per il cambiamento
dell'attuale, insoddisfacente stato di cose, mi sembra necessario dare
corso ad operazioni pratiche e concettuali che rafforzino il soggetto
femminile ed evitino la sua obliterazione nell'altro.
Operazioni
che valorizzino le dissonanze.
Le dissonanze devono poter essere produttive di valori , ovviamente diversificati,
dai quali derivino le regole del contesto, sempre modificabili e rinegoziabili
sulla base dell'esperienza dello stare insieme e del darsi reciproco riconoscimento
in spazi sociali condivisi .
Questo significa
preservare la propria autonomia di pensiero e di pratica di vita, assumendosene
la responsabilità rispetto a se stesse e agli altri.
Questo significa, anche, condurre un conflitto finalizzato a sostituire
alla politica dell'uno/assoluto che relega l'altro nella periferia dell'umanità
e può, quindi, trattarlo bellicosamente, la politica della relazione
e della mediazione plurima, la costruzione del soggetto politico complesso,
agente del cambiamento a partire dalla trasformazione del quotidiano.
Il soggetto
unico maschile non sarà tratto dall'imperio assoluto sulle cose
del mondo che conduce l'umanità al disastro, senza il conflitto
di sesso.
Ma anche le donne non potranno essere agenti di libertà e responsabilità
individuale senza una pratica del conflitto nel sesso.
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