Il contagio vitale di questo femminismo

di Lea Melandri


Che differenza c’è tra la politica istituzionale e un movimento come quello che si è materializzato per le strade e in piazza Duomo a Milano il 14 gennaio? Forse è la domanda che sorge spontanea e che fa da sottofondo a ogni sussulto di partecipazione diretta, “dal basso”, come si diceva una volta. Ma è anche, purtroppo, quella che si eclissa per prima, una volta chiuso il sipario sulle grandi manifestazioni, se non si è in grado di collocare l’emergenza in un contesto più generale di contenuti e di iniziative politiche capaci di durare nel tempo e di estendersi localmente, per contagio.

Di “uscite dal silenzio” se ne sono viste molte nel nostro paese, non si può certo dire che la società italiana viva in un indifferente acquietamento consumistico e televisivo. Ma sappiamo anche quanto sia facile, per un movimento non organizzato, rientrare nell’ombra, eclissarsi dentro tortuosi percorsi carsici aspettando la prossima occasione per rivedere l’orizzonte.

La spinta ad accomunare corpi, pensieri, voci, a farsi forti di una larga condivisione di affetti, e di idee, non nasce mai dal nulla, anche se l’affollatissimo corteo di sabato scorso ha fatto gridare: miracolo a Milano! Tra chi ha temuto di veder ricomparire il fantasma della “rivolta femminile” degli anni ‘70, mal digerita allora e ancora più indigesta dopo che se ne è sperata e decretata la morte, e chi ha voluto a tutti i costi credere che si trattasse dell’iniziativa di una “nuova generazione”, c’è la realtà di oltre vent’anni di impegno da parte di singole, gruppi, associazioni di donne che dal femminismo hanno tratto non solo cambiamenti personali, ma un’idea diversa della cultura e della politica, a partire dalla messa a tema del rapporto tra i sessi.

Questa realtà, il 14 gennaio era largamente rappresentata: donne sorprese che un vento nuovo, improvviso, le avesse fatte rincontrare nelle assemblee cittadine della vigilia, o addirittura sul treno che le portava a Milano, felici di trovarsi a fianco di persone conosciute negli anni in cui era abituale vedersi in grandi convegni nazionali, vacanze, viaggi, e poi cadute nella dimenticanza insieme alla tensione politica, che allora animava la speranza di possibili cambiamenti. Ma anche incredule nel constatare di minuto in minuto che una massa enorme, variamente composita di donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambini, non identificabili sotto particolari sigle di appartenenza, stava prendendo il posto dei cortei inconfondibili della generazione femminista separatista degli anni ‘70.

Non è un caso che nessun giornale abbia scritto a lettere cubitali, secondo un cliché mai tramontato e di sicuro effetto: “le streghe sono tornate”. Al contrario. Il femminismo, richiamato da quasi tutti gli articoli di cronaca e di commento alla manifestazione, è stato visto per la prima volta come forza civile capace di interpretare sentimenti diffusi di insofferenza per il clima di restaurazione religiosa, deciso ad opporsi, in modo composto e determinato, alla violazione delle libertà più elementari riguardanti i corpi, le persone, le relazioni più intime.

Che questa “uscita”, così vistosamente condivisa, di problematiche venute alla coscienza negli anni ‘70 abbia avuto al centro la questione dell’aborto, visto non più, o non soltanto, come “dramma” o “colpa” femminile, è doppiamente interessante. Non servono dotte ricerche antropologiche o psicanalitiche per sapere che le gravidanze indesiderate attraversano millenni di controllo, sfruttamento, violenza sul corpo femminile, che, se proprio si vuole parlare di genocidio, protratto e passato sotto silenzio, le prime vittime sono le donne, morte per parto, per aborti, stupri, omicidi da parte di padri, mariti, amanti.

Solo Giuliano Ferrara, con cinismo e misoginia profonda, può accostare, come ha fatto a più riprese a Otto e mezzo, gli aborti selettivi a danno del sesso femminile in India e Cina alla decisione di una donna di non dar corso a una maternità che non ha scelto o che può compromettere la sua salute fisica e mentale.

Significa colpevolizzare le donne in nome della stessa violenza che hanno subito, assimilare la responsabilità di culture e regimi patriarcali a una scelta personale che, pur nella sua valenza contraddittoria, risponde a una affermazione incontestabile di libertà: libertà, prima di tutto, da quella legge di natura, la capacità di generare la vita, su cui gli uomini hanno creduto di poter fissare il destino storico dell’altro sesso, cancellandone non solo la sessualità ma anche il legittimo desiderio di esistere nella pienezza di manifestazioni intellettuali, morali, relazionali.

E’ vero, nessun politico dei due schieramenti ha detto finora di voler abolire la Legge 194. Ingenuità, ipocrisia, astuzia di giocolieri passata per mediazione politica? Mettiamoci d’accordo, ha detto lunedì sera a Porta a Porta Piero Fassino, si tratta di questioni “antropologiche” delicate, non è impossibile arrivare a scelte condivise tra chi è contro l’aborto e chi non lo è. Gianfranco Fini, seduto davanti a lui, giustamente annuiva. Tra uomini non dovrebbe essere effettivamente difficile trovare un’intesa su un terreno che già li accomuna nel pregiudizio antico che vuole la donna essenzialmente madre, "madre anche quando è vergine", come scriveva Paolo Mantegazza. La Chiesa ne sa qualcosa.

L’unica parola d’ordine passata tra i rappresentanti della politica istituzionale è stata finora la difesa o la promozione della maternità. Che la destra cattolica integralista lo faccia portando i suoi angeli protettori o dissuasori nei consultori, e la sinistra con le politiche famigliari, i bonus per le madri o per i nuovi nati, la logica di fondo non cambia.

La responsabilità maschile, nella vicenda che ha al centro la relazione più universale e più intima tra i sessi, all’incrocio tra natura e storia, tra amore e violenza, non può di certo sfuggire a chi abbia un minimo di cognizione di sé, un’attenzione sia pure fuggevole alle vite reali. Ma la difesa della maschera della neutralità sembra effettivamente che sia l’ultima sponda del privilegio maschile, almeno di quello che si affaccia dalla scena istituzionale.

Non così dal versante della società, ridotta a spettatrice di una politica sempre più separata, mossa da competizione, personalismi, ostilità manifesta e orizzonti ridottissimi. La forte presenza di uomini alla manifestazione di Milano, indetta da un’assemblea di donne, e con i contenuti inequivocabili ereditati dalla storia del femminismo, ha dentro indirettamente alcune acquisizioni nuove, importanti: l’immaginario legato all’aborto - il corpo femminile onnipotente dispensatore di vita e di morte - si va decantando; gli uomini cominciano a riconoscersi parte in causa, non certo secondaria, nel mantenere la “naturalità” del destino femminile; la centralità politica - di ogni tema politico - del rapporto uomo-donna non è più l’ossessione di poche irriducibili “vestali” del femminismo.

Ciò nonostante, da questa ottica i politici ancora non vedono, non sentono, non parlano, e alcuni, ostinatamente, continuano a cercare fantasmatici “organizzatori”.
Si spera che siano le donne, tornate da Milano commosse e determinate a non tornare nell’ombra, a fare comparire nei programmi elettorali la più clamorosa rimozione della storia.

 questo articolo è apparso su Liberazione del 18 gennaio 2006