Lunedì 27 gennaio, nella sede della Libera Università delle Donne,
c'è stata una riunione dell'ormai nato coordinamento donne contro
la guerra.
Ci
siamo ritrovate in più di una ventina: erano presenti esponenti
della Marcia,
della Libera Università delle Donne,
di Arcilesbica,
del
Forum Prc,
delle Donne in nero,
di Crinali (associazione e cooperativa),
Donne e Diritto,
Italia dei
valori,
Basta guerra (social forum),
Effe Rossa-PdCI,
delle Girotondine (le
Girandole assenti giustificate)
e dulcis in fundo due dirigenti dei DS
venute espressamente nonostante una contemporanea riunione di partito.
Termini comuni “no alla guerra senza se e senza ma” (anche se dichiarata
dall’ONU), si è deciso di ritrovarsi mercoledì 5 febbraio per
redigere un documento appello - comune da inviare a tutte le donne
(comprese quelle nelle istituzioni: dalle circoscrizioni al parlamento e
nei sindacati) per promuovere prese di posizione e la partecipazione
delle donne alla manifestazione nazionale – internazionale del 15
febbraio a Roma con una visibilità propria.
Non
c’è stata una discussione su contenuti, ma è scoccata una scintilla di
condivisione e prossimità fra persone molto diverse che non
sottovaluterei sia dal punto di vista della partecipazione
organizzativa sia rispetto ad un approfondimento delle parole e delle
azioni da portare avanti con il corpo e con la mente.
Ancora una volta abbiamo fornito una tenda; chiudendo la porta alla fine
della riunione mi è venuto da pensare che qualcosa bolle…
Incollo
un articolo de Il riformista del 27 gennaio sulla guerra. Da
sottolineare particolarmente l’incipit che disegna immediatamente
l’immagine della democrazia partecipativa secondo il dalemiano Polito,
segue poi un’ottima lezione sulla politica come cinismo.
27 Gennaio 2003
IRAQ.
LA SPACCATURA DELL'OCCIDENTE È IL VERO RISCHIO DI QUESTA CRISI
Ma che altro può
fare Berlusconi?
Non chiedetevi che
cosa fareste voi. Qui non si tratta di scegliere la formazione della
Nazionale. Chiedetevi che cosa dovrebbe fare l'Italia, di
fronte alla crisi irachena. Qual è il suo interesse nazionale. Per un
riformista, sarebbe difficile esprimere un giudizio migliore di questo:
«Una spaccatura atlantica è il peggiore di tutti gli scenari possibili
in questo momento. Più grave del caos mediorientale che alcuni temono
come conseguenza della guerra. Più grave della guerra in sé, e lo dice
uno come me fortemente contrario all'intervento militare in Iraq». Il
Foglio dice che l'ha detto Rutelli, Rutelli dice che non l'ha detto.
Chiunque l'abbia detto, è ben detto. Diciamo che lo diciamo noi.
Il problema è che non basta affermare, come fa D'Alema, che gli italiani
vogliono la pace. Governanti e potenziali governanti devono anche dire
come. Come si fa in modo che alla fine di questa crisi il mondo sia più
stabile e più sicuro. Non c'è bisogno di essere abbonati a Foreign
Affairs per capire che un mondo diviso tra un'America Pacifica da un
lato e un'Eurasia a guida franco-russa dall'altro, non è il più
rassicurante degli sviluppi. Bush passerà, l'America resterà: cardine di
ogni ordine mondiale possibile, almeno per i prossimi cinquant'anni.
Dove starà l'Europa? Dove starà l'Italia?
Per restare in quell'Occidente al quale tutti giurammo fedeltà
all'indomani dell'11 settembre, un paese come il nostro, di scarso peso
militare e di incerto passato diplomatico, può fare solo una cosa, che è
esattamente quella che si imputa al governo Berlusconi: restare europeo
e atlantico allo stesso tempo. Non farsi abbagliare dall'asse
franco-tedesco, che potrebbe andare fuori asse tra una settimana se
Schroeder collasserà in Assia e Bassa Sassonia; e se Chirac, appena
riconquistata un po' di grandeur, spedirà il suo battaglione di
bersaglieri nella Crimea irachena, per partecipare a una vittoria dalla
quale nessuna potenza può autoescludersi.
D'altra parte non si può neanche lasciare che i nostri bersaglieri
vengano arruolati dal portavoce della Casa Bianca. E non solo per motivi
di orgoglio nazionale. Alla vigilia del rapporto degli ispettori all'Onu,
e in attesa di leggerlo, tre cose sono chiare. 1) Il casus belli non
c'è, non diciamo l'affondamento del Lusitania ma neanche un piccolo
incidente di frontiera, neanche una ripresa della Cnn dei profughi
kossovari in fuga o dei bambini che muoiono di fame in Somalia. Le
opinioni pubbliche hanno bisogno di immagini per essere mobilitate, e da
Baghdad non ne arrivano. 2) Gli ispettori chiedono più tempo e va loro
accordato, se davvero l'obiettivo è il disarmo di quel gran bugiardo di
Saddam. 3) La guerra deve essere quanto meno consentita dall'Onu, perché
«ci sono due modi di usare la forza: l'uno in difesa della stabilità
internazionale, l'altro a suo detrimento» (Filippo Andreatta sul
Mulino).
Queste tre cose le ha dette Berlusconi. Sta giocando a guadagnare tempo?
E' vero, ma che altro può fare? Chi lo sfotteva solo un anno fa perché
veniva escluso dalla lista della Casa Bianca per l'intervento in
Afghanistan oggi lo sfotte per essere stato inserito nella lista
dell'Iraq. Ricordiamo, per incidens, che il governo D'Alema partecipò
alla guerra del Kosovo in assenza di un mandato Onu, e giustamente,
perché altrimenti il veto russo avrebbe bloccato l'azione della comunità
internazionale, e ci sono due modi di uccidere un governo mondiale: uno
è scavalcare l'Onu, l'altro è paralizzarla col potere di veto, come nel
lungo inverno della Guerra Fredda.
Bush è un cow boy un po' arrogante, ma non un pazzo. Non più di quell'altro
cow boy un po' arrogante, Ronald Reagan, che si mise in testa che si
poteva sconfiggere il comunismo tra le irrisioni degli europei, e piazzò
in una Germania allora anche più pacifista i missili che fecero cadere
il muro di Berlino (con grande gioia dei pacifisti tedeschi). Bush si
muove sulla base di un calcolo. Sa che se la guerra sarà breve e
vittoriosa, dopo saranno tutti con lui, Francia e Russia comprese, a
spartirsi onori, commesse e influenza. Su che cosa dovrebbe scommettere
l'Italia? Su Saddam o sulla profezia di Timothy Garton Ash, che immagina
nel 2023 l'Europa impegnata in un acceso dibattito sulla richiesta di
adesione dell'Iraq e del suo petrolio all'Unione.