Universtità di Bologna – Scienze della Formazione
Ringrazio per l’invito. E’ per me un onore e una responsabilità tenere la lezione inaugurale di un percorso che la maggior parte di voi comincia ora. Gli anni universitari sono molto importanti perché segnano un passaggio dalla famiglia alla società, che può essere molto formativo per quanto riguarda libertà e autonomia di pensiero, ma anche per l’inizio di una socialità nuova, allargata, rispetto a quella dei luoghi d’origine. Lo dico con un po’ di rammarico, perché in questa università mi sono laureata, senza poterla frequentare come avrei voluto. Avevo bisogno di lavorare, per cui ho accettato di fare supplenze in sostituzione del mio professore di filosofia al liceo classico che avevo appena lasciato. Un’esperienza anch’essa importante dal punto di vista formativo, ma, data la mia giovane età, di una certa durezza. Sono stata invitata a questo incontro –come mi piace chiamarlo- non perché abbia una particolare teoria pedagogica da proporvi, ma per la mia lunga esperienza in due movimenti -il movimento non autoritario nella scuola degli anni ’70, e il movimento delle donne, nato negli stessi anni ma destinato a durare, sia pure con forme diverse, fino ad oggi. Si tratta di movimenti culturali e politici che hanno operato cambiamenti profondi rispetto alla tradizione. Innanzi tutto quella che chiamammo allora una “scandalosa inversione” di priorità tra politica e vita, tra cultura e vita. Cominciava col mettere in discussione tutti i dualismi che abbiamo ereditato e interiorizzato inconsapevolmente, dandoli come “naturali”: non solo la contrapposizione tra femminilità e virilità, ma la separazione tra corpo e pensiero, natura e cultura, individuo e collettività. Col titolo che ho dato al mio intervento di oggi, intendevo appunto sottolineare le divisioni fin qui conosciute tra aspetti della vita tra loro inscindibili –come corpo/individuo e legame sociale, a cui hanno corrisposto saperi diversi (biologia, psicanalisi, sociologia, ecc.), quasi sempre senza alcuna relazione tra di loro. Io venivo dalla provincia. Benché femmina, nata da una famiglia molto povera di contadini mezzadri, ho avuto il privilegio di studiare. La frequentazione di un ottimo liceo di provincia mi ha aperto prospettive insperate, vie di salvezza rispetto al destino dei miei parenti, ma ne sono uscita con l’idea che gran parte della mia vita –legata all’origine sociale, al fatto di essere femmina, al fatto di aver vissuto in condizioni di promiscuità, dove amore e violenza si confondevano- fosse rimasta fuori dalle aule scolastiche, intraducibile nelle lingue colte. “Fuori tema”, benché di ottima scrittura, fu giudicato il mio primo scritto in quarta ginnasio, un dolore che ha rischiato di far finire lì la mia istruzione. Anziché attenermi al titolo, “Novembre”, che presupponeva un esercizio di tipo letterario, avevo descritto la fatica dei miei parenti, alle prese col duro lavoro dei campi, la miseria, le liti fra tre nuclei famigliari stipati in poche stanze. Dopo la fuga dal paese, appena laureata, e quando mi accingevo ad assumere il ruolo di insegnante, l’arrivo a Milano nel ’66, l’incontro col movimento non autoritario nella scuola nel ‘68 e poco dopo con il femminismo, hanno rappresentato una specie di rivoluzione copernicana. Il corpo, la sessualità, la vita affettiva, considerate da sempre materia intima, privata, e come tale estranea ai saperi e ai linguaggi della cultura, , così come alle grandi questioni della politica, prendevano una inedita cittadinanza e legittimità di parola: Il fuori tema diventava Il tema. La scuola, così come l’abbiamo conosciuta tradizionalmente si può dire che è stata - scrivevamo già negli anni ’70- “disciplina dei corpi”: messa sotto silenzio della vita personale, dei sentimenti, delle pulsioni, della sessualità. Una materia viva di esperienza cancellata, immobilizzata, diventata forzatamente “il sottobanco”. Antonio Prete, insegnante allora di italiano in un liceo milanese e oggi docente di letteratura all’università di Siena, sulla rivista “L’erba voglio” scriveva: “La parola dell’insegnante non nega solo il suo rapporto col testo e con la scrittura, ma nega il suo proprio corpo, la sua storia biologica, i suoi rapporti sociali lasciati sulla soglia della classe, la sua quotidianità, drammatica o informe, irrequieta o torbida, la sua immaginazione, insomma l’universo delle sue implicazioni. Per questo gli studenti gli contrappongo la ‘vitalità’ dei loro corpi, la spontaneità del loro linguaggio, o la resistenza di un’altra parola, quella che i mass-media o la famiglia o le altre forme di socializzazione hanno loro trasferito (…) In un altro numero della rivista, un’insegnante di Villazzano, provincia di Trento, a cui avevo chiesto di sviluppare il problema della sessualità infantile nel rapporto istituzionale, mi scriveva: “Non si è mai toccato questo argomento, non si è mai parlato delle esigenze sessuali che il bambino rivelava in classe, delle richieste da loro avanzate, se non nei termini della informazione sessuale (…) A volte veniva riferito qualche episodio particolarmente vivace, ma lo si relegava al rango di aneddoto o barzelletta, senza La pratica non autoritaria, che si pensava dovesse cominciare dagli asili –importante da questo punto di vista l’asilo autogestito di Porta Ticinese, aperto nel gennaio 1970- per iniziativa di studenti, psicologi del controcorso di Pedagogia dell’Università statale di Milano, assieme allo psicanalista Elvio Fachinelli- si proponeva di essere “distruttrice e liberatrice”: si trattava di prendere coscienza dei caratteri repressivi della scuola, dei meccanismi di dipendenza con cui si educano gli studenti alla passività e alla delega, liberare presa di parola e creatività. Quindi non una scuola rinnovata, o un’ “isola felice”, ma un processo formativo che si prefiggeva come sua condizione essenziale l’uscita dalla passività e dalla paura, la partecipazione all’esercizio collettivo del potere, l’abitudine alla pratica assembleare. Ma la scoperta o la presa di coscienza più importante per chi cominciava allora il suo insegnamento, era l’aprirsi di una prospettiva nuova: partire dall’esperienza di ognuno, riportare dentro le aule la vita in tutti i suoi aspetti, creare le condizioni per poterla raccontare farne oggetto di riflessione insieme agli altri. Voleva dire legittimarsi a portare allo scoperto tutto ciò che era rimasto fino allora ‘il sottobanco’,
Col femminismo, che comincia negli stessi anni coi primi gruppi di autocoscienza, le tematiche del corpo e della sessualità si approfondiscono riportate al diverso al diverso destino toccato storicamente al maschio e alla femmina. Quindi, se vogliamo parlare di “ottica di genere” applicata alla scuola, la prima domanda dovremmo farla ancora oggi alle donne che insegnano: come vivono questo ruolo di madri-maestre, di corpi in scena che devono disciplinare altri corpi, renderli invisibili. Dovremmo chiederci quanto pesa nella formazione di un bambino, di un adolescente, maschio e femmina, avere sempre di fronte, negli anni più importanti per la sua formazione, una figura femminile ambigua, perché potente e svilita al medesimo tempo.
Il bisogno di vedersi nell’ interezza non è un caso che sia stato posto con ancora maggiore forza dalle donne, che appaiono esseri “senza luogo”, incollocabili: non possono identificarsi col corpo, come è stato per secoli, senza diventare solo una funzione procreativa o un oggetto di piacere, o essere “individui”, chiamate come sono a spendere le loro energie per la crescita dell’individualità dell’uomo . Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini. Se vogliamo capire la realtà sociale, economica e politica, dobbiamo partire paradossalmente da tutti quegli aspetti essenziali dell’umano -corpo, eredità biologica e psichica, mitologie dell’origine- che si porta dentro come un sedimento archeologico, e ricostruire l’incidenza che queste formazioni remote hanno avuto e hanno tuttora sulla storia che conosciamo. Da questo sguardo portato sulla memoria del corpo e su tutte le vicende che hanno il corpo come parte in causa, emergeranno fantasie, sogni, configurazioni immaginarie, schemi cognitivi, habitus mentali, presenti sia nella formazione del singolo che in quella dei popoli. Riportarli allo scoperto ci aiuta a capire da dove nascono e come si trasmettono fenomeni duraturi come il sessismo, il razzismo, i nazionalismi, le guerre, ecc. E’ questa “preistoria”, che vive nascosta anche nella modernità a dover essere stanata, portata alla coscienza, partendo da ogni singolo individuo, cioè dalla soggettività. Il desiderio di costituirsi, pensarsi, come individualità concreta, urta contro ostacoli di varia natura: il dualismo sessuale, la complementarietà dei ruoli di genere, per cui l’uomo e la donna sono visti come le due metà di un intero -identificata l’una con la natura, l’altro con la storia; il bisogno di protezione e appartenenza, che spinge l’individuo ad annullarsi dentro aggregazioni rigide, mitizzate, nel loro essere uniche e in guerra con tutte le altre. Oggi si parla molto di “differenze” -di sesso, di cultura, lingua, religione- e si considera un’acquisizione di per sé positiva che esse vengano riconosciute e accettate. Non ci si chiede quanto queste differenze, nella forma in cui sono arrivate fino a noi corrispondano a diversità reali. Prendiamo, per esempio, il libro di David Gilmore, La genesi del maschile (La Nuova Italia, Firenze 1993) che, volendo riportare la problematica dei “generi” sul versante dell’esperienza dell’uomo, ribadisce di fatto, senza registrare alcuna contraddizione, le immagini più tradizionali di virilità e femminilità. Il processo di “separazione-individuazione”, rispetto all’originaria “fusione” con la madre, per Gilmore riguarda solo l’uomo. Se alla femmina basta rafforzare l’identificazione con la figura della madre, assecondando un destino già inscritto nella sua condizione biologica, il maschio deve invece sopportare un “allontanamento dalle consolazioni della vita privata”, dal suo “infantile bozzolo di piacere e sicurezza”, per un ruolo sociale culturalmente imposto, che comporta fatica e rischi. I “riti di passaggio”, che Gilmore rintraccia come processo comune a popoli, culture tradizionali di varie parti del mondo, per il costituirsi dell’identità virile, celebrano simbolicamente la morte e la rinascita di una individualità maschile ancora incerta tra la nostalgia della prima dimora e la sua necessaria collocazione nella comunità degli uomini. Ma se guardiamo bene, quello che si delinea è il capovolgimento della situazione d’origine: l’uomo da “destinatario” si trasforma in “donatore dei mezzi di sussistenza”, “protettore, creatore, sostentatore”. Fare guerre, accumulare beni, sfidare pericoli diventa il modo con cui egli assume su di sé la funzione che era prima della madre: garantire vita e protezione “a coloro che si amano”. La virilità viene a costituire “una forma di procreazione maschile”. Si rivendica quindi per l’uomo tutto ciò che è stato prerogativa femminile: la potenza generativa, l’altruismo, il sacrificio di sé, la disponibilità a nutrire. L’”educazione di genere”, di cui oggi si parla molto, anche dietro la spinta dei dati allarmanti sulla violenza maschile contro le donne, specie in ambito domestico, se non vuole restare nell’ambito di una generico invito al rispetto reciproco -il “politicamente corretto”- deve avere il coraggio di andare alla radice di un dominio del tutto particolare, quale è quello di un sesso sull’altro, intrecciato e confuso con le relazioni più intime. Gli uomini sono i figli delle donne, il corpo femminile è quello che dà loro la vita, le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali, che ritrovano nella vita amorosa adulta e con cui sognano di rivivere l’originaria appartenenza a un altro essere. Ma è anche il corpo che li ha tenuti in sua balìa nel momento della maggiore dipendenza e inermità, che poteva dare loro accadimento o abbandono. Ora, nel momento in cui si scopre, come hanno fatto il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo, che la vita personale, il corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, ecc- sono sempre stati dentro la storia e la cultura, e che è importante cominciare a sottrarli alla “naturalizzazione” che hanno subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere. Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e, partendo da lì, interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato. Per quanto riguarda la differenza tra le identità del maschile e del femminile, ci si rendeva conto che era strettamente legata alla scissione tra corpo e pensiero, natura e cultura. Il femminile, escluso dalla polis, è stato identificato con tutto ciò che attiene al “privato”, alla vita personale. Quindi, un primo modo per affrontare la relazione tra i sessi era uscire dalle contrapposizioni dualistiche e dare voce al “rimosso” della scuola e di tutte le istituzioni della sfera pubblica: portare allo scoperto tutto ciò che è stato considerato privato, una materia di vita che è sicuramente cambiata nel tempo, ma che resta innominabile nel processo formativo. Un problema che non possiamo ignorare è il protagonismo che ha assunto oggi nella vita pubblica il corpo, che riguarda soprattutto, ma non solo, il corpo femminile. Certo non è questo che il femminismo intendeva parlando di “riappropriazione del corpo”. Si voleva non essere più essere identificate col corpo, ritrovare la propria esistenza intera, corpo e pensiero; conoscere a fondo il proprio essere fisico e psichico per sottrarlo allo sfruttamento, al controllo, alla violenza che aveva subito, ma anche alla sua esaltazione immaginaria; essere la donna stessa, nella sua singolarità, a dire il suo piacere e a fare liberamente le sue scelte di vita. Non si voleva più essere viste “in funzione” dell’uomo: mogli di, madri di. In altre parole: persone e non ruoli. Nel passaggio generazionale, sono avvenuti cambiamenti profondi e rapidissimi, nella comunicazione e nel rapporto con se stessi e col mondo. Prendiamo per esempio proprio il corpo e la sessualità: da un lato ci sono sedimenti arcaici dentro ognuno di noi, fantasie e pregiudizi antichi che restano sepolti, innominabili nel vissuto personale; dall’altro c’è una “oggettivazione” totale, una messa allo scoperto, una proliferazione di immagini e discorsi sul corpo, che lo fanno apparire una materia manipolabile all’infinito, ormai sottratta all’esperienza che ne facciamo. “Aprire una stanza “ nella propria testa vuol dire riuscire a far tacere ogni tanto il rumore di fuori, le tante lingue da cui oggi “siamo parlati”, e che ci invadono. E’ solo la riflessione su di sé che può sottrarci all’assorbimento passivo di tutti i messaggi che vengono da fuori, aiutarci a essere critici, a fare scelte meno condizionate. I mezzi informatici di cui dispone oggi un adolescente –in particolare i social network- è come se avessero spalancato le porte del mondo interno, senza lasciare il tempo e la disponibilità per capire come si è espressa finora la vita intima: e cioè l’esibizionismo e il voyeurismo. Non c’è da meravigliarsi perciò se quella che sembra la massima libertà coincide col massimo controllo. E’ la stessa ragione per cui è vero che siamo più liberi nella scelta dei nostri comportamenti, ma i modelli sono così invasivi che la libertà diventa “libertà di somigliare”. Quella che in più occasioni ho definito “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili” , la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi. “Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente (…). Prendere tutto tra le braccia. Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allentamento, di separazione(…). Non è la stessa cosa dire che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. E’ per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte quelle parole censurate nella mia infanzia” . “Avverto in giro il bisogno di piantare una trivella in questo universo verbale sottostante, che, come un’immensa galassia sconosciuta, ci trasporta verso un mondo altrettanto incognito, anche soltanto per cavarne frammenti di parole, spezzoni di significato, cristalli di idee- tutto un pulviscolo di immagini e di sensazioni, una vera e propria mineralogia del pensiero, per cui non sembriamo avere, per ora, né classificazioni né definizioni(…).Invece di cercatori d’ora o di petrolio, cercatori di parole: parole antiche dimenticate, parole nuove non mai dette. Questo è il semplice assoluto della fine del secondo millennio.” Siamo qui su un terreno che non è la “lezione” dalla cattedra, parlo di laboratori, che potrebbero utilmente accompagnarla: sperimentazione di nuovi processi formativi, oggi resi necessari dal fatto che sono venute meno le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale. Tocca alla scuola dare risposta a questo cambiamento antropologico, portando l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita compresa nella sua interezza. Se non lo farà, saranno le nuove tecnologie informative, i social network, il mercato, la pubblicità a prenderne il posto. Quello che già in parte, purtroppo avviene.
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