Universtità di Bologna – Scienze della Formazione
1 ottobre 2014


Corpo, individuo e legame sociale
Per un’educazione portata alle radici dell’umano


Lea Melandri

 

 

Ringrazio per l’invito. E’ per me un onore e una responsabilità tenere la lezione inaugurale di un percorso che la maggior parte di voi comincia ora. Gli anni universitari sono molto importanti perché segnano un passaggio dalla famiglia alla società, che può essere molto formativo per quanto riguarda libertà e autonomia di pensiero, ma anche per l’inizio di una socialità nuova, allargata, rispetto a quella dei luoghi d’origine. Lo dico con un po’ di rammarico, perché in questa università mi sono laureata, senza poterla frequentare come avrei voluto. Avevo bisogno di lavorare, per cui ho accettato di fare supplenze in sostituzione del mio professore di filosofia al liceo classico che avevo appena lasciato. Un’esperienza anch’essa importante dal punto di vista formativo, ma, data la mia giovane età, di una certa durezza.

Sono stata invitata a questo incontro –come mi piace chiamarlo- non perché abbia una particolare teoria pedagogica da proporvi, ma per la mia lunga esperienza in due movimenti  -il movimento non autoritario nella scuola degli anni ’70, e il movimento delle donne, nato negli stessi anni ma destinato a durare, sia pure con forme diverse, fino ad oggi. Si tratta di movimenti culturali e politici che hanno operato cambiamenti profondi rispetto alla tradizione. Innanzi tutto quella che chiamammo allora una “scandalosa inversione” di priorità tra politica e vita, tra cultura e vita.  Cominciava col mettere in discussione tutti i dualismi che abbiamo ereditato e interiorizzato inconsapevolmente, dandoli come “naturali”: non solo la contrapposizione tra femminilità e virilità, ma la separazione tra corpo e pensiero, natura e cultura, individuo e collettività.

Col titolo che ho dato al mio intervento di oggi, intendevo appunto sottolineare le divisioni fin qui conosciute tra aspetti della vita tra loro inscindibili –come corpo/individuo e legame sociale, a cui hanno corrisposto saperi diversi (biologia, psicanalisi, sociologia, ecc.), quasi sempre senza alcuna relazione tra di loro.
Non si tratta, a mio avviso, di fare un lavoro interdisciplinare, ma di trovare il luogo concreto, reale, dove questi aspetti dell’esperienza si danno insieme, interconnessi, in districabili, in una circolarità che impedisce di dire quale è venuto per primo. Questo luogo è l’individuo, uomo o donna: è da lì che passano sia il tempo biologico che il tempo storico –il fatto di appartenere a una determinata società e cultura-, è lì che tutti questi elementi si organizzano a formare la persona che siamo.
La conquista più importante della ‘rivoluzione’ culturale portata dai due movimenti è stata dunque quella di mettere al centro la ‘vita intera’ e partire da lì, dalla soggettività di ognuno/a per ripensare la società, le sue istituzioni, i suoi linguaggi, i suoi poteri.

Io venivo dalla provincia. Benché femmina, nata da una famiglia molto povera di contadini mezzadri, ho avuto il privilegio di studiare. La frequentazione di un ottimo liceo di provincia mi ha aperto prospettive  insperate, vie di salvezza rispetto al destino dei miei parenti, ma ne sono uscita con l’idea che gran parte della mia vita –legata all’origine sociale, al fatto di essere femmina, al fatto di aver vissuto in condizioni di promiscuità, dove amore e violenza si confondevano- fosse rimasta fuori dalle aule scolastiche, intraducibile nelle lingue colte. “Fuori tema”, benché di ottima scrittura, fu giudicato il mio primo scritto in quarta ginnasio, un dolore che ha rischiato di far finire lì la mia istruzione. Anziché attenermi al titolo, “Novembre”, che presupponeva un esercizio di tipo letterario, avevo descritto la fatica dei miei parenti, alle prese col duro lavoro dei campi, la miseria, le liti fra tre nuclei famigliari stipati in poche stanze.

Dopo la fuga dal paese, appena laureata, e quando mi accingevo ad assumere il ruolo di insegnante, l’arrivo a Milano nel ’66, l’incontro col movimento non autoritario nella scuola nel ‘68 e poco dopo con il femminismo, hanno rappresentato una specie di rivoluzione copernicana. Il corpo, la sessualità, la vita affettiva, considerate da sempre materia intima, privata, e come tale estranea ai saperi e ai linguaggi della cultura, , così come alle grandi questioni della politica, prendevano una inedita cittadinanza e legittimità di parola: Il fuori tema diventava Il tema.
 Ho potuto così ripensare il mio percorso scolastico e che cosa potevo cambiare nel momento in cui passavo da allieva e insegnante. Gran parte di quella esperienza  -che ha visto impegnati insegnanti, studenti,psicologi, psicanalisti, operatori sociali- si può conoscere attraverso il libro L’erba voglio. Pratica non autoritaria nella scuola (Einaudi 1971) e la rivista “L’erba voglio” (1971-1977) rintracciabile anche online.

La scuola, così come l’abbiamo conosciuta tradizionalmente si può dire che è stata  - scrivevamo già negli anni ’70- “disciplina dei corpi”:  messa sotto silenzio della vita personale, dei sentimenti, delle pulsioni, della sessualità. Una materia viva di esperienza cancellata, immobilizzata, diventata forzatamente “il sottobanco”.

Antonio Prete, insegnante allora di italiano in un liceo milanese e oggi docente di letteratura all’università di Siena, sulla rivista “L’erba voglio” scriveva:

“La parola dell’insegnante non nega solo il suo rapporto col testo e con la scrittura, ma nega il suo  proprio corpo, la sua storia biologica, i suoi rapporti sociali lasciati sulla soglia della classe, la sua quotidianità, drammatica o informe, irrequieta o torbida, la sua immaginazione, insomma l’universo delle sue implicazioni. Per questo gli studenti gli contrappongo la ‘vitalità’ dei loro corpi, la spontaneità del loro linguaggio, o la resistenza di un’altra parola, quella che i mass-media o la famiglia o le altre forme di socializzazione hanno loro trasferito (…)
Nel linguaggio della disciplina c’è la negazione del linguaggio del corpo, nell’organizzazione del sapere e nell’istituzione della disciplina e tra discipline c’è la proiezione mortificata e contratta dei rapporti sociali. Nella permanenza della disciplina c’è la resistenza dell’istituzione ad ogni attacco disgregante(…)
Per questo la disciplina è la disciplina dei corpi. Il suo esercizio avviene solamente nell’edificio e nell’aula appositamente progettati, nel tempo, nei ritmi, nei riti appositamente definiti e controllati (…) Nel chiuso dell’aula i corpi si adattano alla ‘spiritualizzazioni’”
(“L’erba voglio”, n.22, nov.1975)

In un altro numero della rivista, un’insegnante di Villazzano, provincia di Trento, a cui avevo chiesto di sviluppare il problema della sessualità infantile nel rapporto istituzionale, mi scriveva:

 “Non si è mai toccato questo argomento, non si è mai parlato delle esigenze sessuali che il bambino rivelava in classe, delle richieste da loro avanzate, se non nei termini della informazione sessuale (…) A volte veniva riferito qualche episodio particolarmente vivace, ma lo si relegava al rango di aneddoto o barzelletta, senza
mai aprire, partendo da esso, un discorso, forse perché non eravamo preparati a farlo, forse perché affrontare il problema della sessualità infantile avrebbe potuto scatenare in noi, adulti, conflitti ed evocare quei fantasmi che la nostra educazione ha esorcizzato o tenta di esorcizzare (…) Eppure credo che, se ne avessimo parlato,     
sarebbero venuti a galla episodi spia di tutta una attività sessuale  -impulsi, aspirazioni, richieste- sepolta sotto i banchi”.

La pratica non autoritaria, che si pensava dovesse cominciare dagli asili –importante da questo punto di vista l’asilo autogestito di Porta Ticinese, aperto nel gennaio 1970- per iniziativa di studenti, psicologi del controcorso di Pedagogia dell’Università statale di Milano, assieme allo psicanalista Elvio Fachinelli- si proponeva di essere “distruttrice e liberatrice”: si trattava di prendere coscienza dei caratteri repressivi della scuola, dei meccanismi di dipendenza con cui si educano gli studenti alla passività e alla delega, liberare presa di parola e creatività. Quindi non una scuola rinnovata, o un’ “isola felice”, ma un processo formativo che si prefiggeva come sua condizione essenziale l’uscita dalla passività e dalla paura, la partecipazione all’esercizio collettivo del potere, l’abitudine alla pratica assembleare.
Si diceva anche che “autorità e potere”, “servitù e liberazione di massa” non erano temi in classe ma riguardavano tutti o nessuno.

Ma la scoperta o la presa di coscienza più importante per chi cominciava allora il suo insegnamento, era l’aprirsi di una prospettiva nuova: partire dall’esperienza di ognuno, riportare dentro le aule la vita in tutti i suoi aspetti, creare le condizioni per poterla raccontare farne oggetto di riflessione insieme agli altri. Voleva dire legittimarsi a portare allo scoperto tutto ciò che era rimasto fino allora ‘il sottobanco’,
dare voce al “ragazzo vivo”, contrapposto al “ragazzo scolastico”, per usare l’espressione di uno dei miei allievi della scuola media di Melegnano.
In sintesi, le acquisizioni più importanti si possono così riassumere:

  1. Messa in discussione dell’astrattezza del soggetto che parla attraverso la storia e la cultura, tradizionalmente intese, soprattutto quella scolastica dei manuali; un essere scorporato –non di fatto ma nel modo di percepirsi, di rappresentarsi-, rispetto ad alcune delle condizioni materiali, inalienabili dell’esistenza: l’eredità biologica e psichica, le condizioni sociali ed economiche, le potenziali espressive che passano attraverso il corpo, ecc.
  2. Necessità di interrogare la vita personale –le vicende riguardanti l’infanzia, i sentimenti e i sogni che restano nascosti nel mondo interno di ogni singolo-, nella convinzione che nel vissuto di ognuno ci sia una parte importante di storia non scritta, ancora da indagare.
  3. La convinzione che questi interrogativi non riguardassero solo i soggetti in formazione, gli allievi, ma prima di tutto gli adulti, uomini e donne.

 

Col femminismo, che comincia negli stessi anni coi primi gruppi di autocoscienza, le tematiche del corpo e della sessualità si approfondiscono riportate al diverso al diverso destino toccato storicamente al maschio e alla femmina. 
Per chi, come me, era in quegli anni insegnante,  non era più possibile ignorare la presenza dominante nella scuola di un soggetto femminile-materno (la figura della madre-maestra): la scuola, fino alle superiori, è stata pensata in funzione delle donne, per fare in modo che potessero conciliare il lavoro con le responsabilità familiari; come tale, svalutata e mal pagata, ma con molto tempo libero. La donna insegnante appariva come una figura ibrida, da contorsionista: chiamata a trasmettere una cultura che le ha cancellate, un sapere che, mentre la celebra come mito (figura del sogno, della nostalgia) ne proclama l’insignificanza storica.

Quindi, se vogliamo parlare di “ottica di genere” applicata alla scuola, la prima domanda dovremmo farla ancora oggi alle donne che insegnano: come vivono questo ruolo di madri-maestre, di corpi in scena che devono disciplinare altri corpi, renderli invisibili. Dovremmo chiederci quanto pesa nella formazione di un bambino, di un adolescente, maschio e femmina, avere sempre di fronte, negli anni più importanti per la sua formazione, una figura femminile ambigua, perché potente e svilita al medesimo tempo.

 

Il bisogno di vedersi nell’ interezza non è un caso che sia stato posto con ancora maggiore forza dalle donne, che appaiono esseri “senza luogo”, incollocabili: non possono identificarsi col corpo, come è stato per secoli, senza diventare solo una funzione procreativa o un oggetto di piacere, o essere “individui”, chiamate come sono a spendere le loro energie per la crescita dell’individualità dell’uomo .
L’educazione delle donne, dice Rousseau nell’Emilio, deve essere in funzione degli uomini:

“La prima educazione degli uomini dipende dalle cure che le donne prodigano loro; dalle donne infine dipendono i loro costumi, le loro passioni, i loro gusti, i loro piaceri, la loro stessa felicità. Così tutta l’educazione delle donne deve essere in funzione degli uomini. Piacere e rendersi utili a loro, farsi amare e onorare, allevarli da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, consolarli, rendere loro la vita piacevole e dolce (…) L’uomo deve essere attivo e forte, l’altra passiva e debole. E’ necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altra opponga poca resistenza. Il più forte è apparentemente il padrone ma di fatto dipende dal più debole.”

Tanto meno le donne possono sentirsi parte della vita sociale, da cui sono state escluse per secoli, essendo stata fin dall’inizio appannaggio esclusivo di una comunità di uomini.
Ma questa esigenza viene oggi anche da alcune voci della cultura maschile, allarmate dal fatto che la civiltà si vada allontanando sempre più dalle condizioni materiali di vita, dal corpo come dalla natura, o perché sfruttate fino all’esaurimento o perché inglobate nel processo produttivo, quando è al vita intera a essere messa al lavoro.

Se vogliamo capire la realtà sociale, economica e politica, dobbiamo partire paradossalmente da tutti quegli aspetti essenziali dell’umano  -corpo, eredità biologica e psichica, mitologie dell’origine- che si porta dentro come un sedimento archeologico, e ricostruire l’incidenza che queste formazioni remote hanno avuto e hanno tuttora sulla storia che conosciamo. Da questo sguardo portato sulla memoria del corpo e su tutte le vicende che hanno il corpo come parte in causa, emergeranno fantasie, sogni, configurazioni immaginarie, schemi cognitivi, habitus mentali, presenti sia nella formazione del singolo che in quella dei popoli. Riportarli allo scoperto ci aiuta a capire da dove nascono e come si trasmettono fenomeni duraturi come il sessismo, il razzismo, i nazionalismi, le guerre, ecc. E’ questa “preistoria”, che vive nascosta anche nella modernità a dover essere stanata, portata alla coscienza, partendo da ogni singolo individuo, cioè dalla soggettività.

Il desiderio di costituirsi, pensarsi, come individualità concreta, urta contro ostacoli di varia natura: il dualismo sessuale, la complementarietà dei ruoli di genere, per cui l’uomo e la donna sono visti come le due metà di un intero  -identificata l’una con la natura, l’altro con la storia; il bisogno di protezione e appartenenza, che spinge l’individuo ad annullarsi dentro aggregazioni rigide, mitizzate, nel loro essere uniche e in guerra con tutte le altre. Oggi si parla molto di “differenze”  -di sesso, di cultura, lingua, religione- e si considera un’acquisizione di per sé positiva che esse vengano riconosciute e accettate. Non ci si chiede quanto queste differenze, nella forma in cui sono arrivate fino a noi corrispondano a diversità reali.
La grande ‘rivoluzione’ del femminismo è stata di mettere in luce lo scarto  tra la concezione tradizione di femmilità e maschilità e l’essere reale di un uomo e di una donna, quella che a lungo – e in parte ancora oggi- è stata trasmessa dai testi scolastici, oltre che dal ‘senso comune’ e da tutto ciò che cade sotto i nostri occhi, dal privato al pubblico.
Oggi si parla molto di “educazione di genere”, ma si potrebbe dire che la scuola lo ha sempre fatto, con la differenza che lo statuto di “genere”, appartenenza a un gruppo pensato come omogeneo, un tutto coeso- è stato a lungo applicato, anche nelle più qualificate dottrine pedagogiche, soltanto al sesso femminile.

Prendiamo, per esempio, il libro di David Gilmore, La genesi del maschile (La Nuova Italia, Firenze 1993) che, volendo riportare la problematica dei “generi” sul versante dell’esperienza dell’uomo, ribadisce di fatto, senza registrare alcuna contraddizione, le immagini più tradizionali di virilità  e femminilità. Il processo di “separazione-individuazione”, rispetto all’originaria “fusione” con la madre, per Gilmore riguarda solo l’uomo. Se alla femmina basta rafforzare l’identificazione con la figura della madre, assecondando un destino già inscritto nella sua condizione biologica, il maschio deve invece sopportare un “allontanamento dalle consolazioni della vita privata”, dal suo “infantile bozzolo di piacere e sicurezza”, per un ruolo sociale culturalmente imposto, che comporta fatica e rischi. I “riti di passaggio”, che Gilmore rintraccia come processo comune a popoli, culture tradizionali di varie parti del mondo, per il costituirsi dell’identità virile, celebrano simbolicamente la morte e la rinascita di una individualità maschile ancora incerta tra la nostalgia della prima dimora e la sua necessaria collocazione nella comunità degli uomini. Ma se guardiamo bene, quello che si delinea è il capovolgimento della situazione d’origine: l’uomo da “destinatario” si trasforma in “donatore dei mezzi di sussistenza”, “protettore, creatore, sostentatore”. Fare guerre, accumulare beni, sfidare pericoli diventa il modo con cui egli assume su di sé la funzione che era prima della madre: garantire vita e protezione  “a coloro che si amano”. La virilità viene a costituire “una forma di procreazione maschile”. Si rivendica quindi per l’uomo tutto ciò che è stato prerogativa femminile: la potenza generativa, l’altruismo, il sacrificio di sé, la disponibilità a nutrire.
In questo capovolgimento delle parti, che parla ancora il linguaggio dell’amore, e che tutt’al più si appoggia alla necessità biologica (la gravidanza, la minore forza fisica delle donne) e ambientale (difesa dalla natura e dalle aggressioni nemiche), quello che viene occultato è il dominio storico di un sesso sull’altro, la sottomissione violenta del corpo da cui si nasce, svuotato per un verso di capacità propria, reso insignificante dal punto di vista sociale, per l’altro mitizzato e sacralizzato, in quanto ritenuto depositario di una “beatitudine iniziale a cui si vorrebbe fare ritorno.”

Non diversa è la posizione di Erik H. Erikson, autore di un testo, Infanzia e società (Armando Editore, Roma 1966), rimasto a lungo riferimento importante per chi insegnava. Nonostante gli vada riconosciuto il merito di aver sostenuto la necessità di un’analisi che non separasse dati biologici, storia sociale e sviluppo dell’individuo, quando si tratta di definire ruoli e “competenze” di “genere”, sono di nuovo le diversità anatomiche e fisiologiche ad avere il sopravvento. Gli attributi della “mobilità” e della “staticità”, che differenzierebbero il comportamento maschile da quello femminile, sono presentati come “reminiscenze”, “modi strettamente paralleli alla morfologia degli organi sessuali”. Se il “fare sociale”, che è dell’uomo, comporta “l’attacco, il piacere della competizione, l’esigenza della riuscita, la gioia della conquista”, quello della donna appare legato unicamente alla seduzione, al “desiderio di essere bella e di piacere”, ma soprattutto alla “capacità di assecondare il ruolo procreativo del maschio”, capacità che fa della donne una “compagna comprensiva ed una madre sicura di sé”.

L’”educazione di genere”, di cui oggi si parla molto, anche dietro la spinta dei dati allarmanti sulla violenza maschile contro le donne, specie in ambito domestico, se non vuole restare nell’ambito di una generico invito al rispetto reciproco  -il “politicamente corretto”- deve avere il coraggio di andare alla radice di un dominio del tutto particolare, quale è quello di un sesso sull’altro, intrecciato e confuso con le relazioni più intime. Gli uomini sono i figli delle donne, il corpo femminile è quello che dà loro la vita, le prime cure e le prime sollecitazioni sessuali,  che ritrovano nella vita amorosa adulta e con cui sognano di rivivere l’originaria appartenenza a un altro essere. Ma è anche il corpo che li ha tenuti in sua balìa nel momento della maggiore dipendenza e inermità, che poteva dare loro accadimento o abbandono.
Si può pensare che il dominio maschile sia nato dal capovolgimento della posizione che l’uomo vive alla nascita: sottomettere la potenza generatrice della madre e riportarla su di sé –una genealogia di padre in figlio-, assicurarsene i benefici, sfruttarla come una risorsa, a proprio piacere.
E’ una vicenda che si ripete nel tempo, nella vita quotidiana, nelle case, dove l’uomo torna ad essere figlio, a desiderare e temere le cure indispensabili per la sua sopravvivenza di una moglie-madre, di una sorella; oppure nei luoghi della vita pubblica dove il suo potere è stato anche quello di mascherare la sua appartenenza a un genere dietro la neutralità: pensare di poter assumere in sé entrambi i sessi, di poter parlare e governare il mondo a nome di entrambi, in quanto incarnazione dell’umano nella sua forma più alta e universale. Non è un mistero che le donne sono state considerate per secoli una “vita inferiore”.
Potremmo anche dire che la famiglia prolunga l’infanzia ben oltre il bisogno del singolo individuo, costruisce legami di indispensabilità reciproca e arma silenziosamente la mano che tenterà di strapparli. Il luogo che tutti vorremmo al riparo di una società sempre più conflittuale conserva il più lungo e il più enigmatico dei domini che la storia ha conosciuto: la guerra mai dichiarata che porta l’uomo, mosso da desideri e paure antiche, a celebrare i suoi trionfi sul corpo femminile con cui è stato tutt’uno e con cui torna a confondersi nell’abbraccio amoroso.  Se l’uomo fosse solo il dominatore, il vincitore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di umiliare e uccidere. Confinando la donna nel ruolo di madre, è come se le avesse permesso di protrarre ben oltre l’infanzia quel potere materiale e psicologico che ha esercitato su di lui bambino. Il potere che viene dal rendersi indispensabile all’altro è tuttora, per la donna, il più forte contrappeso alla sua mancata realizzazione come individuo, cittadina a tutti gli effetti.

Ora, nel momento in cui si scopre, come hanno fatto il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo, che la vita personale, il corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, ecc- sono sempre stati dentro la storia e la cultura, e che è importante cominciare a sottrarli alla “naturalizzazione” che hanno subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere. Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e, partendo da lì,  interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato.

Per quanto riguarda la differenza tra le identità del maschile e del femminile, ci si rendeva conto che era strettamente legata alla scissione tra corpo e pensiero, natura e cultura. Il femminile, escluso dalla polis, è stato identificato con tutto ciò che attiene al “privato”, alla vita personale. Quindi, un primo modo per affrontare la relazione tra i sessi era uscire dalle contrapposizioni dualistiche e dare voce al “rimosso” della scuola e di tutte le istituzioni della sfera pubblica: portare allo scoperto tutto ciò che è stato considerato privato, una materia di vita che è sicuramente cambiata nel tempo, ma che resta  innominabile nel processo formativo.
L’idea di cosa è maschile e femminile è molto precoce, i bambini la introiettano fin dalla prima infanzia attraverso i gesti, le relazioni tra gli adulti che si occupano di loro, e poi da tutto quello che vedono e che ascoltano. Tutta la vita privata e pubblica né è impregnata. Il primo movimento perciò è portare allo scoperto e dare voce a quello che hanno interiorizzato e farli riflettere su questo. Non parlo di educazione o informazione sessuale, ma di abitudine a ragionare sulla relazione (sui vissuti)  tra maschi e femmine: sentimenti, paure, desideri, pregiudizi, ecc.

Un problema che non possiamo ignorare è il protagonismo  che ha assunto oggi nella vita pubblica il corpo, che riguarda soprattutto, ma non solo, il corpo femminile.
Le donne sono state identificate col corpo –come se mancassero di un Io, di volontà, personalità-, corpo che genera e corpo erotico. Oggi sono il mercato, la pubblicità, l’industria dello spettacolo ad avere bisogno di queste “attrattive” femminili. Il corpo femminile, oggetto per eccellenza del desiderio sessuale, serve a muovere quello della merce.
Allo stesso modo, alla nuova economia basata sulla comunicazione, sul lavoro immateriale, servono le tradizionali doti femminili materne: capacità di ascolto, di mediazione, affettività, ecc. E’ chiaro che nella precarietà attuale del lavoro, nella condizione che le donne ancora vivono di marginalizzazione nella vita pubblica, nella convinzione che sia “naturale” per loro il ruolo femminile assegnato, la valorizzazione delle doti femminili, materne e seduttive, può apparire alle ragazze stesse un’opportunità da cogliere: il loro corpo considerato una moneta che vale, che possono scambiare con denaro, successo, carriere. Del resto, quello che gli adulti apprezzano  nelle bambine, fin da piccole, non sono forse la bellezza e la bontà?

Certo non è questo che il femminismo intendeva parlando di “riappropriazione del corpo”. Si voleva non essere più essere identificate col corpo, ritrovare la propria esistenza intera, corpo e pensiero; conoscere a fondo il proprio essere fisico e psichico per sottrarlo allo sfruttamento, al controllo, alla violenza che aveva subito, ma anche alla sua esaltazione immaginaria; essere la donna stessa, nella sua singolarità, a dire il suo piacere e a fare liberamente le sue scelte di vita. Non si voleva più essere viste “in funzione” dell’uomo: mogli di, madri di. In altre parole: persone e non ruoli. Nel passaggio generazionale, sono avvenuti cambiamenti profondi e rapidissimi, nella comunicazione e nel rapporto con se stessi e col mondo. Prendiamo per esempio proprio il corpo e la sessualità: da un lato ci sono sedimenti arcaici dentro ognuno di noi, fantasie e pregiudizi antichi che restano sepolti, innominabili nel vissuto personale; dall’altro c’è una “oggettivazione” totale, una messa allo scoperto, una proliferazione di immagini e discorsi sul corpo, che lo fanno apparire una materia manipolabile all’infinito, ormai sottratta all’esperienza che ne facciamo.  “Aprire una stanza “ nella propria testa vuol dire riuscire a far tacere ogni tanto il rumore di fuori, le tante lingue da cui oggi “siamo parlati”, e che ci invadono.  E’ solo la riflessione su di sé che può sottrarci all’assorbimento passivo di tutti i messaggi che vengono da fuori, aiutarci a essere critici, a fare scelte meno condizionate.

I mezzi informatici di cui dispone oggi un adolescente –in particolare i social network- è come se avessero spalancato le porte del mondo interno,  senza lasciare il tempo e la disponibilità per capire come si è espressa finora la vita intima: e cioè l’esibizionismo e il voyeurismo. Non c’è da meravigliarsi perciò se quella che sembra la massima libertà coincide col massimo controllo. E’ la stessa ragione per cui è vero che siamo più liberi nella scelta dei nostri comportamenti, ma i modelli sono così invasivi che la libertà diventa “libertà di somigliare”.
Con i social network ci si abitua a “guardarsi fuori” –non “da fuori”-, attraverso un’autorappresentazione che sembra chiudersi in se stessa. L’impressione è quella di uno svuotamento o di un amalgama dove non è più possibile distinguere tra esterno e interno. Il rischio non è solo di non riuscire più a raccontare il proprio vissuto, ma di non poterne più fare nemmeno esperienza. Non dico che la virtualità stia diventando una socializzazione sostitutiva di quella reale, ma solo che opera uno scorporamento, disabitua ad affrontare le asperità della relazione con le persone reali.
Appartengo a una generazione che ha conosciuto, come dicevo all’inizio, un profondo rivolgimento rispetto alla separazione tradizionale tra privato e pubblico, dietro la spinta della società di massa, dei consumi, della pubblicità, della televisione, mezzi potentemente invasivi.
Ma è stata anche la generazione che ha tentato di dare una risposta diversa –rivoluzionaria, utopistica, se vogliamo- alla crisi di un ordine sociale, economico, politico, culturale, che si era pensato fuori da vincoli con i bisogni primari degli esseri umani: la nascita, la morte, la dipendenza, l’amore, la sessualità, la cura, ecc.
In una parola: la conservazione della vita, delegata alla famiglia, in sostanza alla donna, che ne porta ancora oggi la maggiore responsabilità.
Con lo slogan “il personale è politico”, il femminismo degli anni ’70 intendeva riportare alla cultura tutto ciò che per secoli è stato considerato “naturale”, “non politico”, un residuo della storia lasciato negli interni delle case, e soprattutto all’interno del vissuto di ogni singolo. Attraverso la pratica dell’autocoscienza  -raccontarsi e riflettere sulla propria esperienza assieme ad altre donne- le vite personali prendevano una rilevanza mai avuta prima, diventano il luogo di una storia non scritta da riscoprire, in particolare quella del rapporto tra i sessi, un dominio che si era confuso con la vita intima e che solo partendo da lì poteva essere portato a consapevolezza. E modificato.
L’esperienza personale, anche la più ‘impresentabile’, portata allo scoperto e restituita alla parola, allo sguardo di una collettività attenta, è andata a occupare un posto di primo piano in quella “narrazione di sé” che è stata la pratica femminista dell’autocoscienza: un “fare e disfare”, una rilettura della propria storia sostenuta dall’attenzione critica di altre donne, che poteva contraddirti, vedere ciò che tu non vedevi di te stessa. La “femminilità” veniva lentamente sottratta a una rappresentazione del mondo imposta dall’uomo e fatta propria forzatamente dalle donne stesse.
Era un “narrarsi” particolarissimo, affidato inizialmente alla parola parlata in piccoli gruppi, e poi in un secondo tempo, quando ci si è rese conto dei non-detti che poteva contenere, a quella che ho chiamato “scrittura di esperienza”. La definizione non era casuale: il mio primo scritto pubblico, pubblicato nel libro L’erba voglio, aveva come titolo “Due anni di scuola non autoritaria in una media inferiore”. Qualcuno, prima ancora che il femminismo ne facesse il fulcro della propria anomala pratica politica, mi aveva detto che si poteva “partire da sé”, da ciò che si era vissuto e pensato in una situazione particolare, come poteva essere un’aula di scuola media,  e renderlo pubblico, senza necessariamente aver letto tanti libri di pedagogia.
Da allora, l’attenzione alla soggettività, al vissuto del singolo/a è sempre stata al centro della mia attività formativa, dalle scuole medie ai corsi per adulti, fino alla Libera Università delle Donne, nata alla fine degli anni ’80 e tuttora presente.

Quella che in più occasioni ho definito “scrittura di esperienza” interroga innanzi tutto il pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire. In quelle zone remote e “innominabili” , la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, riconoscibili in ogni spazio e tempo. Tra queste, vanno a collocarsi le figure del maschile e del femminile, che il corso della storia ha modificato, ma non tanto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi.
A differenza dell’autobiografia, che lavora sui ricordi, sulla loro messa in forma all’interno di una narrazione, di un senso compiuto, la scrittura che vuole spingersi “ai confini del corpo”, in prossimità delle zone più nascoste alla coscienza, si affida a frammenti, schegge di pensiero, emozioni, che compaiono proprio quando si opera una dispersione del senso.
Si tratta di far luce su un terreno di esperienza che resta generalmente confinato in una “naturalità” astorica: la nascita, l’infanzia, i ruoli sessuali, l’amore, l’invecchiamento, la malattia, la morte. E’ quello che Franco Rella chiama l’ “impresentabile della vita”  (F.Rella, Dall’esilio, Feltrinelli 2004), e che potremmo anche chiamare le “viscere della storia”, di cui si vedono oggi i riflessi deformati, banalizzati, nell’industria dello spettacolo, nella pubblicità, nel populismo, nel razzismo, ma su cui sembra difficile produrre cultura e cambiamenti. La scrittura che tenta di portare alla luce il “mare ribollente delle cose non dette” non è, come qualcuno potrebbe pensare, un “genere”, nonostante l’evidente parentela con la diaristica, le lettere, l’autobiografia. Non prevede tecniche né codici particolari. Nel medesimo tempo, si può dire che attraversa tutti i “generi”, producendo dislocazioni, modificazioni del linguaggio, nuove costellazioni di senso.
Anche gli effetti sono vari e molteplici: non solo estetici, né solo conoscitivi, ma anche formativi e in senso lato terapeutici. Inoltre, restituire alla storia, alla cultura, alla politica, passioni e accadimenti considerati ad esse estranei  - l’”altro”, l’impolitico, l’astorico, ecc.- può essere un modo per entrare in una relazione inedita con la società in cui viviamo, indurre senso di responsabilità e desiderio di cambiamento. La ricaduta è perciò doppia: sulla storia personale e sulle relazioni sociali. In modo particolare, interessa la scuola, in quanto luogo dove l’organizzazione precoce dell’individuo può essere coattivamente “ripetuta”, o, nel migliore dei casi, “ripresa” per aprirsi a nuove soluzioni.
Ci sono domande, emozioni, vissuti che si affacciano nell’infanzia e che, per non aver trovato risposte o parole per essere detti, sembrano aver fatto naufragio.

“Nella mia breve infanzia non ricordo alcun momento lieve né vera spensieratezza. Tutto pesava gravemente (…). Prendere tutto tra le braccia. Controllare tutto. Reprimere tutto. Dire a chi? Rimettersi a chi? Con chi condividere l’aria troppo dolce, l’odore funebre delle margherite, l’eco dei treni che già collegavo all’idea di allentamento, di separazione(…). Non è la stessa cosa dire che un treno passa o appoggiare i gomiti per ascoltare quel rumore che mi stringe il cuore da sempre. E’ per questa ragione forse che i cattivi maestri mi dicevano che ero disordinata. Avrebbero dovuto chiedermi perché quel rumore del treno evocava in me un tale strazio. Era il loro compito. Avrebbero dovuto farlo. Avrebbero dovuto farmi le vere domande. Questa parte segreta della mia infanzia rimane come un campo di solitudine. Così sciolta. Non avrò tregua finché questo campo non sarà seminato di tutte quelle parole censurate nella mia infanzia” .
(Francoise Lefèvre, Il Piccolo Principe Cannibale, Franco Muzzio Editore, Padova 1993)
I corpi, la sessualità, gli stereotipi di genere, i sentimenti, la relazione con l’altro, il diverso, hanno nella scuola il loro teatro primo- insieme alla famiglia-, ma anche il loro inquadramento secondo norme di ordine e disciplina. Restano perciò il “sottobanco”, anche se segnalano vistosamente la loro presenza, i loro interrogativi, la loro vitalità.
Oggi la scuola incontra una forte concorrenza nei media: lì il corpo, la vita intima, le “viscere”, sono, al contrario, sovraesposte, benché collocate in una posizione regressiva  -esibizionismo e voyeurismo- che non le sprivatizza né le fa oggetto di riflessione. Come tornare a fare esperienza di vissuti, pensieri, passioni così squadernati all’esterno, così ridotti a chiacchiera? Come far sì che il “narrare di sé” diventi nella scuola un momento formativo? E’ indispensabile, per questo, che l’insegnante abbia acquisito egli stesso famigliarità col mondo interno, l’abitudine all’autocoscienza  -cura e conoscenza di sé-, così come è importante la dimensione collettiva. Lo sguardo dell’altro vede là dove noi siamo ciechi, può contraddirci, mostrare la nostra complicità con modelli interiorizzati a nostra insaputa.
Un passaggio importante, per evitare l’impaccio dell’ “essere guardati”, può essere quello di spingere lo sguardo sulle scritture di altri, scomporle, spiare nelle crepe, vedere il non-visto: decontestualizzare, frammentare, sezionare, e lasciarsi poi, a propria volta, interrogare da questi frammenti.
C’è in questo modo di procedere, contrario a ogni corretta regola scolastica, qualcosa che richiama la “mineralogia del pensiero”, di cui parla Alberto Asor Rosa nel suo libro L’ultimo paradosso (Einaudi 1986).

Avverto in giro il bisogno di piantare una trivella in questo universo verbale sottostante, che, come un’immensa galassia sconosciuta, ci trasporta verso un mondo altrettanto incognito, anche soltanto per cavarne frammenti di parole, spezzoni di significato, cristalli di idee- tutto un pulviscolo di immagini e di sensazioni, una vera e propria mineralogia del pensiero, per cui non sembriamo avere, per ora, né classificazioni né definizioni(…).Invece di cercatori d’ora o di petrolio, cercatori di parole: parole antiche dimenticate, parole nuove non mai dette. Questo è il semplice assoluto della fine del secondo millennio.”

Siamo qui su un terreno che non è la “lezione” dalla cattedra, parlo di laboratori, che potrebbero utilmente accompagnarla: sperimentazione di nuovi processi formativi, oggi resi necessari dal fatto che sono venute meno le tradizionali separazioni tra corpo e pensiero, natura e cultura, reale e virtuale. Tocca alla scuola dare risposta a questo cambiamento antropologico, portando l’educazione alle radici dell’umano, cioè in prossimità della vita compresa nella sua interezza. Se non lo farà, saranno le nuove tecnologie informative, i social network, il mercato, la pubblicità a prenderne il posto. Quello che già in parte, purtroppo avviene.