Quando scrisse
queste considerazioni, tra il 1939 e il 1945, Bataille pensava a ciò
che accomuna "vita guerriera" e "vita religiosa" -l'abnegazione
fino alla morte- e ne indicava l'esempio più evidente in "una
comunità mistica di soldati come l'Islam". Non poteva certo
immaginare che la disponibilità al "martirio", ritenuto
segno di predilezione divina e riconoscimento di onore presso la comunità
di appartenenza, si sarebbe trasformata un giorno nella lucida, rabbiosa
scelta di impugnare il proprio corpo come un'arma o di farlo esplodere
come una bomba per uccidere, umiliare, riempire di orrore il "nemico".
L'"evento" che l'11 settembre 2001, giorno dell'attacco di terroristi
suicidi alle Torri Gemelle di New York, è parso cambiare il corso
della storia, deve gran parte della sua terribilità e del suo fascino
alla comparsa di una "nuova forma di guerra" capace, come sottolineò
unanimemente la stampa occidentale, di sconvolgere la vita quotidiana
evocando le angosce primordiali dell'imprevedibile, ma anche di rendere
impotenti e obsoleti i più raffinati sistemi militari: le "bombe
umane", scagliate contro una "pacifica comunità"
hanno dimostrato di poter ottenere con pochi individui gli effetti devastanti
di un esercito. Nel corso dei mesi successivi, e a tuttora, sia pure in
dimensioni meno spettacolari e in contesti molto diversi, la strategia
sorprendente imposta, in nome dell'Islam, dai terroristi di Al Quaeda
è sembrata generalizzarsi: dai "martiri" palestinesi
che in numero crescente, soprattutto dopo l'occupazione dei Territori
decisa dal governo Sharon, si sono fatti esplodere nei luoghi abitualmente
più frequentati dagli israeliani, bar, autobus, supermercati, fino
al gesto di un probabile aspirante suicida che il 18 aprile scorso si
è schiantato con un aereo da turismo contro il grattacielo Pirelli
a Milano, provocando due morti. Ma l'omologazione è fuorviante,
sia quando giustifica come "difesa dal terrorismo" guerre e
massacri di civili, sia quando individua ideologicamente nell'omicidio-suicidio
l'arma dei deboli e degli oppressi.
All'attentato dell'11 settembre a New York qualcuno ha attribuito la valenza
simbolica di una "sfida". "Contro un sistema che vive dell'esclusione
della morte, morte-zero anche in guerra -ha scritto J.Baudrillard (Lo
spirito del terrorismo, Cortina 2002)- si erge la morte sacrificale per
un'idea".
La contrapposizione, come avverte lo stesso Baudrillard, ha radici anche
all'interno della nostra civiltà, come ombra o contropartita nascosta
di un potere che, esaltandosi oltre misura, prepara fatalmente anche la
sua caduta. Questo immaginario le avanguardie dell'Islam hanno dimostrato
di conoscerlo e di saperlo abilmente manovrare, e non solo per i rapporti
intercorsi con gli Stati Uniti prima dell'11 settembre.
La mistica della guerra, al di là delle diverse fedi religiose
e politiche, parla la lingua comune di un arcaico "ideale virile"
che cova, mai del tutto estinto, dietro l'immagine di un tranquillo, "civile",
benessere.
L'"eroe-martire", figura incarnata del legame comunitario, ricompare
ogni volta che , per stringere in un corpo solo la nazione, diventa necessario
innalzare un'idea, un credo, al di sopra dell'interesse del singolo e
della stessa pulsione biologica alla sopravvivenza.
Del "virile" coraggio di sacrificare la vita, in nome di Dio
e del proprio popolo, hanno parlato da fronti opposti sia Bush che Bin
Laden, ma un richiamo velato in questo senso si poteva leggere anche nell'allusione
di Susan Sontag alla "viltà" dei suoi connazionali, abituati
da tempo a colpire dall'alto, al riparo di armi sofisticate e senza perdite
proprie. Fantasmi di divinità guerriere e di apocalittici angeli
vendicatori hanno fatto passare in secondo piano la retorica di morte
che accompagna da sempre la lotta per il dominio, riportata al suo volto
originario: due contendenti, due "nazioni" cementate al proprio
interno dal sangue che le "patrie" chiedono in questi casi ai
loro figli. Per quanto riguarda il terrorismo suicida praticato da palestinesi,
il contesto e i modi sono visibilmente diversi: non una lotta organizzata
e sostenuta da potentati economici e finanziari, come per Al Quaeda, ma
la reazione disperata a un'occupazione devastante, tanto che qualcuno
ha potuto vederla come scelta estrema di "resistenza". Anche
in questo caso, tuttavia, l'odio e la disperazione che trasformano il
corpo in una bomba, più che a una spinta liberatoria sembrano rispondere
a un imperativo di morte, che ha la sua radice nei riti sacrificali, fatti
per placare e intercedere salvezza presso un qualche Dio.
Con l'attacco suicida, compiuto perlopiù isolatamente e con armi
improvvisate da strumenti di uso domestico, la "guerra" si privatizza
tanto da poter prescindere da ogni preparazione; il comando viene dall'interno,
dai massacri che il singolo ha potuto vedere coi suoi occhi, dall'ira
sofferta per la morte di un amico.
Il massimo di individualità viene a coincidere col massimo di fusione
col gruppo.
Che si tratti, nel suo significato più remoto, di un'offerta sacrificale
-richiamo alla passione di Cristo o al sacrificio di Abramo- lo dimostrano
l'età e il sesso degli aspiranti suicidi: giovani, persino adolescenti,
e donne. Il Dio che promette rigenerazione ha bisogno di "innocenti".
Il corpo sacrificale per eccellenza è stato, all'origine, quello
femminile: materialmente escluso dalla comunità storica degli uomini,
simbolicamente presente come vittima e testimone della benevolenza divina.
Il sacrificio di sé, da questa preistoria dimenticata, sembra aver
accompagnato ininterrottamente il destino femminile: dedizione all'altro
e adeguamento a modelli imposti.
Ma quello che solitamente si consuma nell'oscurità, e senza valore
alcuno, può essere talvolta impugnato pubblicamente, in modo che
tutti lo vedano: è così che le donne, nella storia religiosa
in particolare, hanno potuto, assolutizzando la loro condizione di vittime,
aprirsi un varco alla storia, martoriate nel corpo ma esaltate come gli
"eroi", in quanto incarnazione degli ideali collettivi. Viene
il dubbio che qualcosa di analogo stia avvenendo nell'animo dei giovani
palestinesi di fronte a una strada senza uscita: volgere in attivo una
morte certa, farla valere per la propria gente e per chi la opprime. Una
valenza tragica, sanguinosa, terrificante, che vorrebbe paradossalmente
far giustizia ridistribuendo sofferenza e morte, aprire gli occhi di chi
non vuole vedere chiudendoli per sempre, rendere visibile la propria umanità
disumanizzandosi.
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