In scena il corpo nomade

di Gaia Maqi Giuliani

 

Nell'epoca che è stata definita come della “fine del lavoro” l’orizzonte della precarietà travalica in modo definitivo la linea netta che tradizionalmente divideva il tempo di lavoro e il tempo per tutto il resto: la precarietà, infatti, caratterizza ormai ogni aspetto dell’essere, ogni spazio e tempo del pensiero e dell’azione, ogni forma e pratica dell’identificazione, sia essa legata all’appartenenza ad un luogo, ad un genere, ad una precisa pratica sessuale, ad un contesto culturale o religioso. Nell'insieme, ciascuno di questi aspetti assume una forma ontologica che non è del tutto nuova (forme di vita precaria sono sempre esistite, anche se non si chiamavano così) ma sicuramente e per la prima volta “di massa”.

Questa forma di vita è caratterizzata da un "tempo" circoscritto, talvolta ridotto a pochi attimi, talvolta espanso fino a coprire (al massimo) l’arco di alcuni mesi, o alcuni anni, spesso o quasi sempre vissuto in più luoghi. Disegna una realtà individuale e collettiva che potrebbe essere definita, con una parola particolarmente evocativa, “nomadica”.

Tale superamento coinvolge le pratiche di vita, obbligando uomini e donne a ri-pensare e a reinventare continuamente professioni e competenze, e con esse gli immaginari da cui attingere la creatività necessaria a questo sforzo. Esso rende difficile, per quanto pregno di desiderio nostalgico, un ritorno ad identità fisse, definite. Le forme di identificazione della tarda modernità - definite, ad esempio, dal genere, dal tipo di lavoro, dall’appartenenza a una fede politica o religiosa, dall’essere adolescente o adulto, dall’essere madre, dall’essere eterosessuale o omosessuale - non sono più così rassicuranti o non lo sono “per sempre”.

La precarietà, che è precisamente la condizione che definisce i trentenni d’oggi, ha avvolto e ricombinato in modo definitivo le antiche strutture di pensiero, le categorie del quotidiano e i paradigmi esistenziali che avevano diretto la vita delle persone fino a rendere tutto un po’, o un po’ troppo, incerto, instabile e segmentato. E nonostante tale instabilità appare, ed è, il risultato di un percorso spietatamente individualizzato, resta pur sempre un’esperienza collettiva.

E’ un’esperienza collettiva non solo perché molti e molte vi sono costretti: essa, per il fatto di essere ampiamente condivisa, e strutturale, può produrre soggettività, qualora lo sconquasso derivante dalla crisi delle forme di identificazione sia ripensato e ribaltato nel processo di ricomposizione delle esperienze e di rivendicazione forte della molteplicità irriducibile di ciascuna vita precaria. 

Nell’Occidente bianco, sempre meno bianco, e sempre meno omogeneo al suo interno, l’attraversamento di frontiere da parte dei cervelli e dei corpi precari, lo sradicamento e l’impossibilità del ritorno non coincidono esclusivamente con l’esperienza della migrazione territoriale verso migliori condizioni di lavoro e di vita: l'identità “nomade”, di cui ci ha parlato Rosi Braidotti, descrive anche l’esperienza della ri-concettualizzazione sans cesse della propria identità corporea, la messa in discussione dei suoi confini e, con essi, della sua identità sessuale, e la riformulazione dei desideri. Il soggetto precario in quanto soggetto “desiderante”, pur essendo costretto oggi tra automercificazione e bulimia consumistica, può essere ancora descritto, in realtà, come una soggettività dirompente, che attinge da luoghi, tempi, saperi ed esperienze molto diverse - e tutte contemporanee - nel tentativo di “sostanziare” e “dare organicità” ai differenti piani su cui si svolge la sua vita quotidiana.

E’, infatti, con la creazione di forme di sorellanza tra coinquiline, di forme di convivenza plurima, di relazioni sentimentali contemporanee e dislocate, di condivisione economica e progettuale con parenti, amici, compagni e compagne “di viaggio”, di peregrinazione tra esperienze eterosessuali e omosessuali, di temporalità affettive diversificate, che le forme di affettività si ricombinano risolvendo in modo, sebbene ancora troppo silenzioso e “privato”, la crisi di un tessuto sociale che si sfalda sotto i colpi inferti alla famiglia e alle forme di condivisione “formalizzata” tipiche della modernità.

I tempi di vita scanditi dal lavoro salariato classico -l’infanzia, l’adolescenza, la maturità, la vecchiaia- e con essi le istituzioni che in-corporavano la scansione temporale individuale e collettiva -la scuola, il lavoro, il matrimonio, la maternità, il pensionamento- sembrano confusi e sovrapposti, se non addirittura obsoleti nella loro accezione classica: il matrimonio in particolare è preceduto, e in molti casi sostituito, da molteplici forme di relazione.

Queste forme “precarie” dell'affettività, analizzate da un’ottica tradizionale, possono apparire nella loro forma “accumulativa”, come “mercificate”, “superficiali” o “deresponsabilizzate”. In realtà rappresentano la presa in consegna individuale e collettiva di un processo di scomposizione del concetto tradizionale di famiglia e della necessità di un ripensamento e di una rivalutazione della condivisione, spogliata da quell’idea di contratto ad interim su cui si sono fondati per secoli concetti quali “solidità”, “rispettabilità”, “decoro”, “legittimità”, “compiutezza individuale (maschile) ”, “realizzazione personale (femminile) ”.

Eppure l’accettazione pubblica della dissoluzione delle categorie moderne dell’affettività -che venivano definite legittime quando erano eterosessuali/matrimoniali e illegittime, perverse, indecorose o promiscue quando non erano tali- rappresenta qualcosa di molto lontano a venire. Ciò dipende non solo, nel caso particolare dell’Italia, dal timore espresso dall’opinione pubblica e dalla classe politica di “nominare e normare” il dato sociale, ma anche perché uno, e uno dei principali, serbatoi di immaginario a cui anche gli stessi precari-nella-vita attingono è quello tradizionale che stabilisce moralità e immoralità della condotta affettiva e sessuale.

Il senso comune ha la tendenza, in questa particolare fase storica, a vedere, oltre la dissoluzione di quelle categorie, solo il “vuoto” morale e lo spaesamento, finendo poi per accettarli acriticamente. Nell’assenza di creatività simbolica e di rivendicazione delle proprie pratiche quotidiane, l’unica alternativa alla solitudine e all’egoismo, pur di non abbandonarsi ad un’esistenza dissoluta, appaiono essere infatti, solo solitudine e egoismo.

In tal senso, la rivendicazione della precarietà di vita, e dunque degli affetti, è un elemento dirompente e culturalmente rivoluzionario nel nuovo ordine sociale, in grado di riaffacciare alla scena pubblica il corpo, il desiderio e la condivisione, nella loro forma potenziale, fluida e mai definitivamente “data”: e ciò può essere unicamente realizzato forzando il conflitto simbolico e materiale esistente tra l’esperienza viva delle persone e il persistere della vecchia e rigida rappresentazione giuridica e politica degli affetti.

 

questo articolo è apparso in Queer inserto di Liberazione del 15 ottobre 2006